Tocca ripeterci. Che fuoriclasse, Mark Kozelek.
Solamente l’anno in corso è uscito addirittura con due album, entrambi
notevolissimi. “Peril from the sea” è stato inciso con Jimmy la Valle,
ovvero Album Leaf, polistrumentista da San Diego, e l’incontro ha avuto
esiti bellissimi: malinconia sottile e cangiante, sound etereo e
slowcore. Eccezionale anche la con i Desertshore del suo ex compagno di
viaggio Phil Carrey. Qui l’atmosfera è meno rilassata e più elettrica,
il tono meno monocorde, c’è spazio per cambi di ritmo e arrangiamenti
pop.
Non siamo nemmeno a marzo che a sorpresa ecco il nuovo, sesto, Sun Kil
Moon. La cover è un paesaggio anonimo, un anonimo scatto da un
finestrino. L’album si apre con tre brani dalla struttura classica,
ballate malinconiche dall’incerto incedere tipiche della produzione
delle origini (Red House Painters). Ma il rischio della ripetitività è
scongiurato con il crescendo dell’ottima “Dogs” e dal cantato accelerato
di “Pray for Newton”.
“Jim Wise” è una filastrocca da carillon, mentre “I love my Dad” è un
blues sudista (Mark non ha vergogna a omaggiare i suoi genitori, vedi
anche “I can’t live without my mother’s love”, uno dei pezzi del primo
lotto. Indice di maturità artistica e di raggiunta pace interiore, si
dice in giro. Il suo disco più cupo, dicono altri.).
“I watched the film The songs remains the same”, lunga e ipnotica, con
arpeggio a là Cohen, è un ricordo dell’infanzia oltre che un omaggio
questa volta ai Led Zeppelin: l’album è ricco di citazioni di altri
musicisti – prevalentemente britannici - come Doors, Stevie Nicks, David
Bowie, Elvis Presley.
Sul finire i capolavori. “Richard Ramirez died today of natural causes” –
storia di un serial killer californiano: “His last murder was south of
San Francisco/A guy named Peter Pan from the town of San Mateo/A little
girl in the Tenderloin was his first/In the laundry room took a dollar
from her fist”- mette in mostra uno straordinario accavallarsi e
rincorrersi di parti vocali e una coda strumentale sontuosa, “Micheline”
è un indimenticabile e commovente ritratto di una ragazzina con
problemi di apprendimento. Il tutto si chiude con la leggerezza jazzy
(Steely Dan) di “Ben’s my friend”, dedicata al leader dei Death Cub For
Cutie, con archi sullo sfondo.
Un grande disco americano, fatto di polvere, blues, camionisti (lo zio
“Truck driver”, morto in un incendio il giorno del suo compleanno),
alcool e delitti: “Jim Wise killed his wife out of love for her at her
bedside/And then he put the gun to his head but he failed at suicide”.
Un disco di rara e intensa bellezza.
La versione deluxe ci regala ben cinque brani in versione live. A questo
proposito, il nostro eroe sarà in Italia presto, prestissimo: il 4
aprile al Circolo degli Artisti (Roma), il 5 al Bronson (Ravenna), il 6
al Biko (Milano) e il 7 al Circolo Mame (Padova).
sabato 29 marzo 2014
sabato 8 marzo 2014
ODIO I COMPLEANNI. UNA MIA INTERVISTA A CARTA RESISTENTE
Odio i compleanni.
Se penso a quando ero bambino: tutti gli anni la stessa storia.
Mio padre che rincasa a tarda sera, saluta con un cenno della mano, appoggia l’impermeabile sulla poltrona e siede al tavolo, aspetta in silenzio la zuppa riscaldata con i crostini abbrustoliti in padella, un bicchiere di vino rosso, freddo di frigo, e una ciotola di insalata ancora da condire. Mia madre che gli si fa accanto con sguardo severo. Ti sei dimenticato anche questa volta che è il compleanno del piccolo, sussurra, evidentemente per non farsi sentire da me, dal momento che in casa non c’è nessun altro, da me che sono sul divano del tinello a guardare i cartoni animati, con il volume al minimo, perché a papà viene il mal di testa.
Lui che mi si avvicina e dice: campione, adesso il papà torna in ufficio a prendere il tuo regalo. Sai, sono stato fuori città con un cliente. Non ne posso più di questa vita. Ma tu non ti preoccupare, campione. Rimedio in un battibaleno.
E poi via, una corsa disperata verso l’ultimo negozio aperto, mentre fuori è sera inoltrata, corsa che immancabilmente termina in autogrill, dove non gli resta che racimolare pupazzi di fabbricazione cinese.
Avevo un’intera collezione di quelli che suonavano le canzoni natalizie. E pensare che compio gli anni in aprile.
Giovanni Battista Menzani, L’odore della plastica bruciata (LiberAria)
I paesaggi e le situazioni che racconti sono “nostre”, ma nella tua scrittura, soprattutto in alcuni racconti, io sento le atmosfere di Ballard. Può essere? E quali sono gli scrittori stranieri che apprezzi?Ho scoperto Ballard al primo anno di università, un periodo, per me, di grandi mutamenti e di scoperte rivoluzionarie: ricordo la sensazione di libertà, la voglia di conoscere, la consapevolezza delle possibilità e delle opportunità. Lessi “Il condominio”, consigliatomi da una docente curiosa e aperta al dialogo. Mi piacque la sua tesi di fondo, ovvero la violenza latente che prima o poi sarebbe dovuta esplodere in una situazione apparentemente perfetta, in un mondo ideale; come successivamente in “Supercannes”. Poi lessi “Crash”, “L’isola di cemento” e soprattutto “La mostra delle atrocità”, che mi ha ricordato Burroughs.
Sicuramente Ballard mi ha influenzato: ha descritto come pochi altri i nuovi scenari della postmodernità.
Per rispondere alla seconda parte della domanda, prediligo gli americani contemporanei: Pynchon, Vonnegut, De Lillo, McCarthy, Carver, Foster Wallace.
I tuoi racconti sono definiti “surreali e grotteschi”, ma la realtà non è poi così lontana…Io penso che possano essere suddivisi in due filoni. Ci sono i racconti dalla vena più intimista e minimale, che derivano in buona parte da esperienze autobiografiche. Ci sono poi i racconti più surreali, situazioni dell’assurdo in cui alcuni aspetti della nostra società vengono enfatizzati e per così dire portati all’eccesso.
E tuttavia, questa realtà deformata ci suona tremendamente familiare.
Come mai hai scelto il racconto “L’odore della plastica bruciata” per dare il titolo al libro? E c’è un motivo sul fatto che è posto al termine della raccolta?In realtà la raccolta terminava con il racconto intitolato “Il vitello grasso”, cronaca di un ritorno a casa, una delle invarianti classiche della letteratura. È stata un’idea di Alessandra Minervini, il mio bravo e attento editor, quella di chiudere il volume con la title-track, per usare un termine discografico, ovvero con la storia più cruda e drammatica. Ha avuto ragione. E’ un finale apocalittico, con i due bambini che vengono sgridati dal padre perché disturbano il pubblico, impassibile, che assiste alle esecuzioni capitali. E poi da il titolo alla raccolta. Un titolo che rende un’idea di desolazione, di macerie. Di day-after.
Ogni tanto affiora anche il tuo mestiere, la tua formazione, che se non sbaglio è quello di architetto.È esatto. Devo spiegarti la genesi del libro.
Prima dell’esplosione dei social tenevo un blog sul quale appuntavo episodi di vita quotidiana, per lo più presi dalla mia attività di architetto. Rileggendoli, mi accorsi che mi piacevano. Così ritornai sui miei passi, lavorai sulla riscrittura e sullo stile, li smontai e rimontai. Infine inviai la raccolta a Giulio Mozzi di Einaudi, che mi incoraggiò, pubblicando sulla rivista Vibrisse un racconto intitolato “Real Estate”. Successivamente, grazie all’aiuto di Gabriele Dadati, proposi “L’odore della plastica bruciata” a LiberAria, editore indipendente e attento, che accettò con entusiasmo la pubblicazione.
La mia deformazione professionale mi ha forse portato, inoltre, a descrizioni particolareggiate degli ambienti interni e della città postmoderna, fatta di case diroccate e outlet di cartapesta, villaggi di baracche e quartieri residenziali suburbani, superstrade e autolavaggi: un’immensa periferia anonima e stereotipata.
Sei stato coinvolto sulla realizzazione della bella copertina illustrata da Vincenza Peschechera?No, però l’ho approvata senza esitazioni. Mi pareva bellissima. C’è la finzione, con quell’idea geniale della casa che diventa solo un’etichetta, un adesivo. Insomma, una cosa posticcia, falsa.
So che sei un appassionato di musica, cosa stai ascoltando negli ultimi mesi?Bon Iver, Wilco, James Blake, Arcade Fire. Ho recuperate vecchi amori come Weller e gli Smiths.
In questi giorni ho scaricato il nuovo di Beck. Ti saprò dire.
http://cartaresistente.wordpress.com/2014/03/07/lodore-della-plastica-bruciata-con-intervista-allautore/
Grazie a Fernando
Se penso a quando ero bambino: tutti gli anni la stessa storia.
Mio padre che rincasa a tarda sera, saluta con un cenno della mano, appoggia l’impermeabile sulla poltrona e siede al tavolo, aspetta in silenzio la zuppa riscaldata con i crostini abbrustoliti in padella, un bicchiere di vino rosso, freddo di frigo, e una ciotola di insalata ancora da condire. Mia madre che gli si fa accanto con sguardo severo. Ti sei dimenticato anche questa volta che è il compleanno del piccolo, sussurra, evidentemente per non farsi sentire da me, dal momento che in casa non c’è nessun altro, da me che sono sul divano del tinello a guardare i cartoni animati, con il volume al minimo, perché a papà viene il mal di testa.
Lui che mi si avvicina e dice: campione, adesso il papà torna in ufficio a prendere il tuo regalo. Sai, sono stato fuori città con un cliente. Non ne posso più di questa vita. Ma tu non ti preoccupare, campione. Rimedio in un battibaleno.
E poi via, una corsa disperata verso l’ultimo negozio aperto, mentre fuori è sera inoltrata, corsa che immancabilmente termina in autogrill, dove non gli resta che racimolare pupazzi di fabbricazione cinese.
Avevo un’intera collezione di quelli che suonavano le canzoni natalizie. E pensare che compio gli anni in aprile.
Giovanni Battista Menzani, L’odore della plastica bruciata (LiberAria)
I paesaggi e le situazioni che racconti sono “nostre”, ma nella tua scrittura, soprattutto in alcuni racconti, io sento le atmosfere di Ballard. Può essere? E quali sono gli scrittori stranieri che apprezzi?Ho scoperto Ballard al primo anno di università, un periodo, per me, di grandi mutamenti e di scoperte rivoluzionarie: ricordo la sensazione di libertà, la voglia di conoscere, la consapevolezza delle possibilità e delle opportunità. Lessi “Il condominio”, consigliatomi da una docente curiosa e aperta al dialogo. Mi piacque la sua tesi di fondo, ovvero la violenza latente che prima o poi sarebbe dovuta esplodere in una situazione apparentemente perfetta, in un mondo ideale; come successivamente in “Supercannes”. Poi lessi “Crash”, “L’isola di cemento” e soprattutto “La mostra delle atrocità”, che mi ha ricordato Burroughs.
Sicuramente Ballard mi ha influenzato: ha descritto come pochi altri i nuovi scenari della postmodernità.
Per rispondere alla seconda parte della domanda, prediligo gli americani contemporanei: Pynchon, Vonnegut, De Lillo, McCarthy, Carver, Foster Wallace.
I tuoi racconti sono definiti “surreali e grotteschi”, ma la realtà non è poi così lontana…Io penso che possano essere suddivisi in due filoni. Ci sono i racconti dalla vena più intimista e minimale, che derivano in buona parte da esperienze autobiografiche. Ci sono poi i racconti più surreali, situazioni dell’assurdo in cui alcuni aspetti della nostra società vengono enfatizzati e per così dire portati all’eccesso.
E tuttavia, questa realtà deformata ci suona tremendamente familiare.
Come mai hai scelto il racconto “L’odore della plastica bruciata” per dare il titolo al libro? E c’è un motivo sul fatto che è posto al termine della raccolta?In realtà la raccolta terminava con il racconto intitolato “Il vitello grasso”, cronaca di un ritorno a casa, una delle invarianti classiche della letteratura. È stata un’idea di Alessandra Minervini, il mio bravo e attento editor, quella di chiudere il volume con la title-track, per usare un termine discografico, ovvero con la storia più cruda e drammatica. Ha avuto ragione. E’ un finale apocalittico, con i due bambini che vengono sgridati dal padre perché disturbano il pubblico, impassibile, che assiste alle esecuzioni capitali. E poi da il titolo alla raccolta. Un titolo che rende un’idea di desolazione, di macerie. Di day-after.
Ogni tanto affiora anche il tuo mestiere, la tua formazione, che se non sbaglio è quello di architetto.È esatto. Devo spiegarti la genesi del libro.
Prima dell’esplosione dei social tenevo un blog sul quale appuntavo episodi di vita quotidiana, per lo più presi dalla mia attività di architetto. Rileggendoli, mi accorsi che mi piacevano. Così ritornai sui miei passi, lavorai sulla riscrittura e sullo stile, li smontai e rimontai. Infine inviai la raccolta a Giulio Mozzi di Einaudi, che mi incoraggiò, pubblicando sulla rivista Vibrisse un racconto intitolato “Real Estate”. Successivamente, grazie all’aiuto di Gabriele Dadati, proposi “L’odore della plastica bruciata” a LiberAria, editore indipendente e attento, che accettò con entusiasmo la pubblicazione.
La mia deformazione professionale mi ha forse portato, inoltre, a descrizioni particolareggiate degli ambienti interni e della città postmoderna, fatta di case diroccate e outlet di cartapesta, villaggi di baracche e quartieri residenziali suburbani, superstrade e autolavaggi: un’immensa periferia anonima e stereotipata.
Sei stato coinvolto sulla realizzazione della bella copertina illustrata da Vincenza Peschechera?No, però l’ho approvata senza esitazioni. Mi pareva bellissima. C’è la finzione, con quell’idea geniale della casa che diventa solo un’etichetta, un adesivo. Insomma, una cosa posticcia, falsa.
So che sei un appassionato di musica, cosa stai ascoltando negli ultimi mesi?Bon Iver, Wilco, James Blake, Arcade Fire. Ho recuperate vecchi amori come Weller e gli Smiths.
In questi giorni ho scaricato il nuovo di Beck. Ti saprò dire.
http://cartaresistente.wordpress.com/2014/03/07/lodore-della-plastica-bruciata-con-intervista-allautore/
Grazie a Fernando
#LaGrandeBellezza
Gente che scopre solo stamattina che il nostro è il paese dell'arte e della bellezza.
LA PRECARIETA', L'UNICA CONQUISTA DELLA SOCIETA' POSTMODERNA. UNA MIA INTERVISTA CON GLI AMANTI DEI LIBRI
La precarietà, l’unica conquista della società post-moderna”.
Ho riassunto così L’odore della plastica bruciata, opera di Giovanni Battista Menzani, recensita qualche settimana fa da Gli amanti dei libri. Una raccolta di racconti che fotografa con ironia la nostra quotidianità e che merita un approfondimento. La parola, quindi, all’autore.
Presentati ai nostri lettori.
Ho quarantacinque anni e vivo sulle colline della val Trebbia con la mia famiglia, un cane e un gatto. Di mestiere faccio l’architetto e ho da sempre una grande passione per i libri e la musica rock. Quando incontrai per la prima volta il mio editore, mi fu chiesto chi erano gli autori che più mi avevano influenzato. Risposi Bob Dylan. Più seriamente, la letteratura contemporanea americana: Salinger, Carver, McCarthy, De Lillo, Pynchon, Foster Wallace, Eggers, Saunders, Palahniuk.
Come è nato “L’odore della plastica bruciata”?
Prima dell’esplosione dei social, che hanno travolto (quasi) tutto, tenevo un blog sul quale appuntavo episodi di vita quotidiana. Rileggendoli, mi accorsi che mi piacevano. Così ritornai sui miei passi, lavorai sulla riscrittura e sullo stile, li smontai e rimontai. Infine inviai la raccolta a Giulio Mozzi, scrittore ed editor di Einaudi, che mi incoraggiò pubblicando sulla rivista Vibrisse un racconto intitolato “Real Estate”. Successivamente, grazie all’aiuto di Gabriele Dadati, proposi L’odore della plastica bruciata a LiberAria, editore indipendente e attento che accettò con entusiasmo la pubblicazione.
Quale “filosofia” ti ha spinto a scrivere un libro così carico di sentimenti contrastanti?
“Se son d’umore nero allora scrivo/frugando dentro le nostre miserie”, cantava il poeta nostro. E’ probabile che sia così anche per me. Le storie che racconto sono tristi, è innegabile, e gli scenari spaventosi ed inquietanti. Tuttavia, in una società dove consumismo e avidità, cinismo e ipocrisia regolano tutti i rapporti, ho cercato anche di sottolineare l’umanità di alcuni personaggi, utilizzando l’arma dello humour e del paradosso. Ovvero ho creato delle situazioni grottesche e surreali che però risultano credibili: un mondo inventato e portato all’eccesso, che tuttavia è già il nostro mondo. Ho cercato, soprattutto, di creare empatia con i protagonisti delle mie storie: lo stesso spero si possa dire per i miei lettori.
Disagio, precarietà e ironia: questi gli elementi portanti della tua raccolta. Ma è davvero questa la società moderna?
Disagio, precarietà e ironia: questi gli elementi portanti della tua raccolta. Ma è davvero questa la società moderna?
Non esiste solo questo, ovviamente. Ma una società basata unicamente sul profitto porta con sé, inevitabilmente, delle storture, e io quelle vorrei raccontare. Vorrei dare una voce a chi solitamente non ne ha, cercando di evitare il pietismo e gli stereotipi. Mi è stato detto che i protagonisti delle mie storie sono dei losersalla deriva, dei perdenti che si rassegnano, non riescono a imporsi, non si ribellano a situazioni estreme che anzi subiscono quasi senza batter ciglio. Ma non sempre è vero. E comunque, può essere che siano degli “antieroi”, ma se mi guardo intorno di eroi ne vedo pochi.
Oltre ad essere l’ambientazione della maggior parte dei tuoi racconti, cos’è per te la periferia?
Nella città postmoderna tutto è periferia, è quasi impossibile operare ancora distinzioni con il centro. Negli ultimi tempi abbiamo assistito infatti al proliferare, secondo il modello imperante e omologante importato dagli USA, di centri commerciali, outlet e office-parks, multisale, alberghi e poli logistici, tristi monoblocchi rigorosamente isolati dal contesto mediante ampie distese di parcheggi e collocati in prossimità degli svincoli di tangenziali e strade ad alto scorrimento, in modo tale da essere facilmente accessibili dalle automobili. L’enorme libertà di movimento del mezzo di trasporto privato porta con sé elementi di degrado come l’isolamento dei soggetti più deboli, la scomparsa dello spazio pubblico, un paesaggio anonimo e desolante, fatto anche di baraccopoli posticce e infinite distese di villette tutte uguali, tutte con lo stesso indirizzo.
Oltre a L’odore della plastica bruciata, per me metafora di un mondo finto in decomposizione, cosa rimane dell’esperienza post-moderna?
Le macerie, ha scritto qualcuno.
Progetti per il futuro?
Sono un amante delle short stories. In questi giorni sto cercando faticosamente di completare la prima stesura di una nuova raccolta di racconti. Rispetto all’esordio, l’atmosfera è meno cupa, almeno così a me sembra. C’è spazio anche per l’amore e l’amicizia.
Un saluto ai nostri lettori.
Seguirò con affetto e attenzione il vostro lavoro, che è fondamentale per l’affermazione della cultura del leggere nel nostro paese.
Grazie a Martino Ciano
mercoledì 26 febbraio 2014
#FIDUCIA
Una cosa la diciamo agli amici grillini: lo decideremo noi, se abbiamo speso bene o no i famosi due euro.
LA MAPPA DEGLI ARTISTI PREFERITI NEGLI STATES
Nessuna sorpresa per Kurt Vile in Oregon, Portland si conferma la città più cool, e per Sufjan Stevens nel nativo Illinois (al quale ha dedicato anche un disco), ci sta pure James Blake per i sofosticati newyorchesi.
Ma i Grateful Dead in New Hampshire?
Ma i Grateful Dead in New Hampshire?
IL PAGELLONE DI SANREMO 2014
Vi siete ripresi dalla sbornia sanremese? Ecco l'immancabile pagellone
di PiacenzaSera firmato da Giovanni Battista Menzani, che ha seguito per
noi (twittando con moderazione) la kermesse canora.
Il pagellone di Sanremo 2014
di Giovanni Battista Menzani (@GiovanniMenzani)
Arisa: 6,5
Con il passare dei giorni il look migliora e la platea di twitter si riprende dallo shock delle tette sfoggiate al debutto. “Controvento” è il pezzo perfetto per il Festival, is the new “Mentre il mondo cade a pezzi”. “Lentamente il primo che passa” ha un testo di Cristina Donà, ma l’incedere ricorda troppo Ravel. Perfetto per la soundtrack di un cartone della Disney
Cristiano De André: 7,5
La dimostrazione che la formula del ballottaggio tra le due canzoni è deleteria e abbassa la qualità del lotto che in finale si disputa la vittoria.
“Invisibili”, premio Mia Martini, è infatti la canzone più bella di tutto il Festival, struggente omaggio a Genova (anche se spuntano accuse di plagio a James Taylor).
“Il cielo e' vuoto” (“E Dio che si dimentica di fare il suo lavoro”) è più debole, ma sul voto incide anche la commovente interpretazione di “Verranno a chiederti del nostro amore” (anche se qui vince facile).
Sembra rinato, ed è una bella notizia.
Giusy Ferreri: 5
Sentita solo a sprazzi: sulla fiducia.
Frankie Hi-Nrg: 5
La sensazione e' che l'altro brano (Molto a là Jovanotti), “Un uomo è vivo”, fosse il migliore, malgrado quel verso “C’è istante in cui ogni uomo diventa sua madre” che urla ancora vendetta ed è l’erede naturale di “Fare l’amore in tutti i laghi”.
“Pedala” - che i media italiani hanno dedicato immediatamente a Renzi, “hai voluto la biciletta?”- è poco originale ma è perfetta per il Primo Maggio, già le vediamo sventolare tutte quelle bandiere coi quattro mori.
Rafael Gualazzi: 5,5
In finale il microfono si rifiuta di funzionare, malignano sul web, che si scaglia sul look demenziale di Bloody Beetroots (qualcuno maligna che dovendo sul palco con Gualazzi ha preferito rimanere anonimo).
Sarà perché in casa e' piaciuto a tutti, ma non ce la sentiamo di stroncare “Liberi o no”, malgrado un testo messo insieme un po’ alla cazzo: almeno ha il merito di svegliare la platea dal suo torpore.
Noemi: 5,5
Pesa sul giudizio l'imbarazzante look della serata di giovedì, quando si e' presentata sul palco dell'Ariston con un'acconciatura da calciatore e un attaccapanni infilzato nel collo.
Ha il pezzo più radiofonico, “Bagnati dal sole”, e la sua interpretazione ci piace, anche se sembra sempre un po’ insicura (e sì che ne ha fatta di strada).
Giuliano Palma: 4,5
Sarà perché il vintage rischia di diventare stucchevole, alla lunga.
Il pezzo co-firmato da Nina Zilli, “Cosi lontano”, e' proprio un compitino e lui non appare in gran forma.
Perturbazione: 6
I rappresentanti della cosiddetta pattuglia indie non sprecano l’occasione del grande pubblico con un pezzo leggero, leggerissimo, “L’unica”, persino troppo incensato sul web. “L’Italia vista al bar è invece un inutile elenco di luoghi comuni (“e se la gente si incazza/scenderemo in piazza”).
Ci aspettavamo di più, comunque. Se pensiamo a Rice e Wainwright…
Francesco Renga: 5,5
Partiva super favorito, ha perso e proprio per questo l'Apparato lo elegge icona del progressismo. Maybe, il duetto con Kekko ha avviato il suo tracollo.
Ron: 5
“Sing in the rain” è un impalpabile folk stile Mumford&Sons, e in finale è pure stonato.
L’altro pezzo neanche ce lo ricordiamo.
Forse aveva il compito di rappresentare il cantautorato, come accadde a Finardi, Vecchioni e altri.
Fallisce.
Renzo Rubino: 6
E’ talmente agitato che a noi viene il dubbio che l'audio non sia sincronizzato e che la regia stia mandando in onda un altro pezzo, ovvero che lui in realtà stia eseguendo una cover dei Black Sabbath.
“Ora” è una canzone ben costruita, ma la sua interpretazione è sopra le righe.
Antonella Ruggiero: 6
La scongelano per Sanremo.
Su twitter si sprecano ironie e sarcasmo per l’inquietante somiglianza con Robert Smith dei Cure, il Sean Penn di “This must be the place” ed Edward mani di forbice”.
Look dark a parte, va detto che i suoi due brani sono raffinati e lei è un’interprete di classe.
“Da lontano”, con il suo ritornello che pare in lingua araba, andrebbe sottotitolata, altro che i versi da bullo da banlieu di Stromae.
Francesco Sarcina: 3
Se il suo talento fosse paragonabile all'autostima e all’egocentrismo - titolo del nuovo album: “Io” - questo sarebbe un fuoriclasse.
Invece strilla in modo quasi fastidioso, facendo addirittura rimpiangere i Moda'.
Riccardo Sinigallia: 6,5
L’ex Tiromancino è escluso per i motivi che sappiamo. Peccato, non demeritava.
Da ricordare la sua versione del classico di Lolli, con Paola Turci e Marina Rey.
Il pagellone di Sanremo 2014
di Giovanni Battista Menzani (@GiovanniMenzani)
Arisa: 6,5
Con il passare dei giorni il look migliora e la platea di twitter si riprende dallo shock delle tette sfoggiate al debutto. “Controvento” è il pezzo perfetto per il Festival, is the new “Mentre il mondo cade a pezzi”. “Lentamente il primo che passa” ha un testo di Cristina Donà, ma l’incedere ricorda troppo Ravel. Perfetto per la soundtrack di un cartone della Disney
Cristiano De André: 7,5
La dimostrazione che la formula del ballottaggio tra le due canzoni è deleteria e abbassa la qualità del lotto che in finale si disputa la vittoria.
“Invisibili”, premio Mia Martini, è infatti la canzone più bella di tutto il Festival, struggente omaggio a Genova (anche se spuntano accuse di plagio a James Taylor).
“Il cielo e' vuoto” (“E Dio che si dimentica di fare il suo lavoro”) è più debole, ma sul voto incide anche la commovente interpretazione di “Verranno a chiederti del nostro amore” (anche se qui vince facile).
Sembra rinato, ed è una bella notizia.
Giusy Ferreri: 5
Sentita solo a sprazzi: sulla fiducia.
Frankie Hi-Nrg: 5
La sensazione e' che l'altro brano (Molto a là Jovanotti), “Un uomo è vivo”, fosse il migliore, malgrado quel verso “C’è istante in cui ogni uomo diventa sua madre” che urla ancora vendetta ed è l’erede naturale di “Fare l’amore in tutti i laghi”.
“Pedala” - che i media italiani hanno dedicato immediatamente a Renzi, “hai voluto la biciletta?”- è poco originale ma è perfetta per il Primo Maggio, già le vediamo sventolare tutte quelle bandiere coi quattro mori.
Rafael Gualazzi: 5,5
In finale il microfono si rifiuta di funzionare, malignano sul web, che si scaglia sul look demenziale di Bloody Beetroots (qualcuno maligna che dovendo sul palco con Gualazzi ha preferito rimanere anonimo).
Sarà perché in casa e' piaciuto a tutti, ma non ce la sentiamo di stroncare “Liberi o no”, malgrado un testo messo insieme un po’ alla cazzo: almeno ha il merito di svegliare la platea dal suo torpore.
Noemi: 5,5
Pesa sul giudizio l'imbarazzante look della serata di giovedì, quando si e' presentata sul palco dell'Ariston con un'acconciatura da calciatore e un attaccapanni infilzato nel collo.
Ha il pezzo più radiofonico, “Bagnati dal sole”, e la sua interpretazione ci piace, anche se sembra sempre un po’ insicura (e sì che ne ha fatta di strada).
Giuliano Palma: 4,5
Sarà perché il vintage rischia di diventare stucchevole, alla lunga.
Il pezzo co-firmato da Nina Zilli, “Cosi lontano”, e' proprio un compitino e lui non appare in gran forma.
Perturbazione: 6
I rappresentanti della cosiddetta pattuglia indie non sprecano l’occasione del grande pubblico con un pezzo leggero, leggerissimo, “L’unica”, persino troppo incensato sul web. “L’Italia vista al bar è invece un inutile elenco di luoghi comuni (“e se la gente si incazza/scenderemo in piazza”).
Ci aspettavamo di più, comunque. Se pensiamo a Rice e Wainwright…
Francesco Renga: 5,5
Partiva super favorito, ha perso e proprio per questo l'Apparato lo elegge icona del progressismo. Maybe, il duetto con Kekko ha avviato il suo tracollo.
Ron: 5
“Sing in the rain” è un impalpabile folk stile Mumford&Sons, e in finale è pure stonato.
L’altro pezzo neanche ce lo ricordiamo.
Forse aveva il compito di rappresentare il cantautorato, come accadde a Finardi, Vecchioni e altri.
Fallisce.
Renzo Rubino: 6
E’ talmente agitato che a noi viene il dubbio che l'audio non sia sincronizzato e che la regia stia mandando in onda un altro pezzo, ovvero che lui in realtà stia eseguendo una cover dei Black Sabbath.
“Ora” è una canzone ben costruita, ma la sua interpretazione è sopra le righe.
Antonella Ruggiero: 6
La scongelano per Sanremo.
Su twitter si sprecano ironie e sarcasmo per l’inquietante somiglianza con Robert Smith dei Cure, il Sean Penn di “This must be the place” ed Edward mani di forbice”.
Look dark a parte, va detto che i suoi due brani sono raffinati e lei è un’interprete di classe.
“Da lontano”, con il suo ritornello che pare in lingua araba, andrebbe sottotitolata, altro che i versi da bullo da banlieu di Stromae.
Francesco Sarcina: 3
Se il suo talento fosse paragonabile all'autostima e all’egocentrismo - titolo del nuovo album: “Io” - questo sarebbe un fuoriclasse.
Invece strilla in modo quasi fastidioso, facendo addirittura rimpiangere i Moda'.
Riccardo Sinigallia: 6,5
L’ex Tiromancino è escluso per i motivi che sappiamo. Peccato, non demeritava.
Da ricordare la sua versione del classico di Lolli, con Paola Turci e Marina Rey.
BENTORNATO, CROZ
“Croz” è il suo soprannome storico. La scelta del titolo si deve a un
gioco iniziato tanto tempo fa, nel 1971. Il suo primo album da solista
si intitolava infatti “If I could only remember my name” (Se solo
potessi ricordare il mio nome), grande disco, e il suo secondo invece,
nel 1989, “Yes, I can” (Sì che posso). Quindi, il terzo: “Croz”.
Lui, David Crosby, è un grande della musica americana, uno dei maestri
della West Coast – prima nei Byrds poi nel celebre trio con Stills &
Nash, che arruolarono successivamente Neil Young – degli anni Sessanta e
Settanta.
Croz torna inaspettatamente, dopo oltre un ventennio di silenzio.
All’età di settantatre, con il coraggio di ieri. Forse per via del nuovo
fegato, recentemente trapiantato (una vita di bagordi, il nostro Croz).
E non delude le aspettative.
L’iniziale “What’s broken” è una raffinata ballata jazzy costruita attorno la suadente chitarra di Mark Knopfler. Come “Slice of time”, ricorda le atmosfere - recenti - di Iron&Wine e Deastroyer. Le successive “Time I have” e “Holding not to nothing” (con la tromba di Wynton Marsalis) hanno un tono più intimista e crepuscolare, così pure “Morning falling”. Stesso mood per “If she called”, anzi più drammatica: scritta osservando, dalla finestra di un albergo tedesco, alcune prostitute allineate ai bordi di una strada. L’elettrica “The clearing”, con una bella coda di chitarre, la radiofonica (!) “Radio” – con un delizioso ritornello pop - e “Dangerous night” hanno un eco decisamente Seventies, ma del lotto nostalgico il brano che più piace è “Set the baggage down”, psichedelica e amara. Un pezzo che molte delle bands della cosiddetta scena neopsichedelica gli invidieranno non poco. Bentornato, Croz.
L’iniziale “What’s broken” è una raffinata ballata jazzy costruita attorno la suadente chitarra di Mark Knopfler. Come “Slice of time”, ricorda le atmosfere - recenti - di Iron&Wine e Deastroyer. Le successive “Time I have” e “Holding not to nothing” (con la tromba di Wynton Marsalis) hanno un tono più intimista e crepuscolare, così pure “Morning falling”. Stesso mood per “If she called”, anzi più drammatica: scritta osservando, dalla finestra di un albergo tedesco, alcune prostitute allineate ai bordi di una strada. L’elettrica “The clearing”, con una bella coda di chitarre, la radiofonica (!) “Radio” – con un delizioso ritornello pop - e “Dangerous night” hanno un eco decisamente Seventies, ma del lotto nostalgico il brano che più piace è “Set the baggage down”, psichedelica e amara. Un pezzo che molte delle bands della cosiddetta scena neopsichedelica gli invidieranno non poco. Bentornato, Croz.
MONDAY MORNING
L’idea di questo album - un inno a nuove grandi speranze come suggerisce
il titolo, “High hopes” – nasce dall’ingresso (temporaneo) di Tom
Morello nella E Street Band, in sostituzione di Van Zandt, durante la
recente tournee australiana. La collaborazione con l’ex chitarrista dei
Rage Against the Machine si è presto trasformata in idillio, tanto che
si è pensato di realizzare un album infarcito di cover, outtakes e
vecchi brani del Boss rivisitati con la nuova formazione.
“High Hopes” pare quasi un disco live.
La titletrack è una rivisitazione – in un tripudio di fiati - di un
vecchio brano degli Havalinas di Tim Scott McConnell: “Monday morning” è
un incipit notevole, e il verso “Gimme love/gimme peace” è un amarcord
della stagione del florer power. La successiva “Harry’s Place” ha una
base elettronica e un’anonimo andamento funk: forse serviva un
arrangiamento più sobrio, meno ridondante. Segue una nuova versione di
“American skin”, inutile qui ripetere dell’episodio di violenza razzista
da cui nasce la canzone, tra le più belle della sua produzione recente.
Ecco le cover: “Just like fire would” è un brano degli australiani
Saints al quale se togli la ruvidezza e l’immediatezza del punk resta
poco. Ricorda Mellencamp.
Onesto e sano rock, si dirà, ma da uno come il Boss si può pretendere di più: la scrittura dei pezzi è spesso elementare e non brilla certamente per originalità e per urgenza. “Down in the hole”, ad esempio, è affascinante, ma troppo simile a “I’m on fire”. Tuttavia il nostro non si risparmia, as usually. “Heaven’s wall” è un gospel celtico nel mezzo del quale Morello entra con la delicatezza di un elefante in una cristalleria, e apre la sequenza folk che sta nel cuore dell’opera, completato da “Frankie fell in love”, “This is your sword” e “Hunter of invisible game”.
Il finale non ci aiuta a emettere un verdetto definitivo: la versione elettrica di “The ghost of Tom Joad” tradisce la disperazione dell’originale, con un Morello ancora sopra le righe e un finale pomposo e urticante, così poco Steinbeck. Nella speciale classifica delle cover peggio riuscite di sempre, è appena un gradino sopra “Knockin’ on heaven’s door” dei Gun’s Roses. “The wall” è una ballata acustica dedicata a un marine (“Cigarettes and a bottle of beer/This poem I wrote for you/This black stone and these hard tears/Are all I've got left now of you/I remember you in your Marine uniform laughing/Laughing that you're shipping out probably/I read Robert McNamara says he's sorry”) e per ultimi i Suicide, vecchia passione. Notevoli i testi, ancora una volta dalla parte di chi sta al margine: “Questa è la musica che ho sempre sentito il bisogno di pubblicare. Dai gangster di “Harry’s Place”, i compagni di stanza di “Frankie Fell In Love”, (ombre di me e Steve che facciamo casino nell’appartamento di Asbury Park), i viaggiatori nella terra desolata di “Hunter Of Invisible Game”, fino ai soldati e i visitatori di “The Wall”, sentivo che si meritassero tutti una casa e un ascolto.”
Onesto e sano rock, si dirà, ma da uno come il Boss si può pretendere di più: la scrittura dei pezzi è spesso elementare e non brilla certamente per originalità e per urgenza. “Down in the hole”, ad esempio, è affascinante, ma troppo simile a “I’m on fire”. Tuttavia il nostro non si risparmia, as usually. “Heaven’s wall” è un gospel celtico nel mezzo del quale Morello entra con la delicatezza di un elefante in una cristalleria, e apre la sequenza folk che sta nel cuore dell’opera, completato da “Frankie fell in love”, “This is your sword” e “Hunter of invisible game”.
Il finale non ci aiuta a emettere un verdetto definitivo: la versione elettrica di “The ghost of Tom Joad” tradisce la disperazione dell’originale, con un Morello ancora sopra le righe e un finale pomposo e urticante, così poco Steinbeck. Nella speciale classifica delle cover peggio riuscite di sempre, è appena un gradino sopra “Knockin’ on heaven’s door” dei Gun’s Roses. “The wall” è una ballata acustica dedicata a un marine (“Cigarettes and a bottle of beer/This poem I wrote for you/This black stone and these hard tears/Are all I've got left now of you/I remember you in your Marine uniform laughing/Laughing that you're shipping out probably/I read Robert McNamara says he's sorry”) e per ultimi i Suicide, vecchia passione. Notevoli i testi, ancora una volta dalla parte di chi sta al margine: “Questa è la musica che ho sempre sentito il bisogno di pubblicare. Dai gangster di “Harry’s Place”, i compagni di stanza di “Frankie Fell In Love”, (ombre di me e Steve che facciamo casino nell’appartamento di Asbury Park), i viaggiatori nella terra desolata di “Hunter Of Invisible Game”, fino ai soldati e i visitatori di “The Wall”, sentivo che si meritassero tutti una casa e un ascolto.”
mercoledì 5 febbraio 2014
TOH, ECCO IL SAUNDERS ITALIANO (TROPPO, SAUNDERS...)
Toh, ecco il George Saunders italiano. Per
scherzo? No, seriamente. Quasi. Perché è vero che Menzani sconta il
doppio handicap di essere 1) un “quasi esordiente” (all’attivo solo un
paio di saggi sull’architettura contemporanea e un Dizionario biografico fantastico dei piacentini illustri)
e soprattutto 2) un “quasi scrittore”, nel senso che di mestiere
fa(ceva?) l’architetto. E però ce ne fossero di quasi-scrittori come
lui. Che quasi-scrivendo qua e là tirano fuori dal cassetto
questi tredici racconti che sono delle piccole chicche. Per lo meno per
chi ama le ambientazioni “quasi-saundersiane”. O giù di lì.
Sciolto ogni dubbio, quel che è certo è che in queste pagine si viene accompagnati con passo lieve in uno scenario che di lieve ha ben poco.
Baraccopoli post moderne e posticce, periferie sub-urbane anonime e
desolante, dove si muovono personaggi strani in situazioni ambigue.
Aspiranti partecipanti ad improbabili show televisivi ammassati in
villaggi prefabbricati in attesa della chiamata in onda; cinici
poliziotti addetti al controllo delle spese personali sulla base delle
indicazioni fornite dal Ministero dei consumi; uomini costretti a
travestirsi da animali per allietare osceni visitatori di un outlet;
pubblico in estasi in un Multiplex per assistere ad esecuzioni capitali.
C’è insomma tutta la schizofrenia
distopica che si ritrova appunto dei racconti di Saunders, dove
un’umanità andata da tempo alla deriva è costretta a barcamenarsi tra i
bassifondi di un impero dove il consumismo e l’avidità hanno vinto da un
pezzo. E il resto sono macerie. In questo caso siamo
naturalmente in Italia. Ma è una Bassa Padana appena abbozzata, che
potrebbe in realtà essere ovunque. Perché il paesaggio non è che una
misera quinta dietro la quale si muovono gli inconsapevoli attori.
Uomini e donne perduti, ignavi, rassegnati, sconfitti. E se qua e là
trapela un tocco di ironia a rendere surreale alcuni passaggi, il tutto
resta abbondantemente connotato da un forte senso di smarrimento e
perdizione.
Che si fa sottile angoscia nei racconti più realistici. Quelli nei quali l’autore abbandona il surreale e si concentra su scene di vita quotidiana. Di nuovo, come Saunders nel suo ultimo lavoro (Dieci dicembre, leggi recensione); anche se qui il riferimento più esplicito è più che altro a Raymond Carver. Menzani mette in scena quadretti di apparente banalità nei quali, come nella migliore tradizione del minimalista americano, a conferire tensione alla narrazione è più il non detto che quello che viene esplicitato. Quella sensazione che qualcosa di brutto sia appena successo o, peggio, stia per succedere. Ma siccome non è che basti darsi un tono minimal per raggiungere questi effetti, il fatto che il giovane Menzani riesca ad avvicinarsi senza apparente sforzo ai suoi modelli è già una vittoria da salutare brindando.
Semmai, se proprio dovessimo rimproverargli qualcosa (ma perché poi?), sarebbe proprio questo suo rimando così esplicito ad altri autori. L’effetto è un po’ come quello di sentire una cover band, che esegue in modo impeccabile brani di altri in attesa del coraggio necessario per scriverne di propri. Ma un quasi-autore così prima o poi lo sforna di sicuro un album tutto suo.
Che si fa sottile angoscia nei racconti più realistici. Quelli nei quali l’autore abbandona il surreale e si concentra su scene di vita quotidiana. Di nuovo, come Saunders nel suo ultimo lavoro (Dieci dicembre, leggi recensione); anche se qui il riferimento più esplicito è più che altro a Raymond Carver. Menzani mette in scena quadretti di apparente banalità nei quali, come nella migliore tradizione del minimalista americano, a conferire tensione alla narrazione è più il non detto che quello che viene esplicitato. Quella sensazione che qualcosa di brutto sia appena successo o, peggio, stia per succedere. Ma siccome non è che basti darsi un tono minimal per raggiungere questi effetti, il fatto che il giovane Menzani riesca ad avvicinarsi senza apparente sforzo ai suoi modelli è già una vittoria da salutare brindando.
Semmai, se proprio dovessimo rimproverargli qualcosa (ma perché poi?), sarebbe proprio questo suo rimando così esplicito ad altri autori. L’effetto è un po’ come quello di sentire una cover band, che esegue in modo impeccabile brani di altri in attesa del coraggio necessario per scriverne di propri. Ma un quasi-autore così prima o poi lo sforna di sicuro un album tutto suo.
GRANDI SPERANZE (RIPOSTE MALE)
L’idea di questo album - un inno a nuove grandi speranze come suggerisce
il titolo, “High hopes” – nasce dall’ingresso (temporaneo) di Tom
Morello nella E Street Band, in sostituzione di Van Zandt, durante la
recente tournee australiana. La collaborazione con l’ex chitarrista dei
Rage Against the Machine si è presto trasformata in idillio, tanto che
si è pensato di realizzare un album infarcito di cover, outtakes e
vecchi brani del Boss rivisitati con la nuova formazione.
“High Hopes” pare quasi un disco live. La titletrack è una rivisitazione – in un tripudio di fiati - di un vecchio brano degli Havalinas di Tim Scott McConnell: “Monday morning” è un incipit notevole, e il verso “Gimme love/gimme peace” è un amarcord della stagione del florer power. La successiva “Harry’s Place” ha una base elettronica e un’anonimo andamento funk: forse serviva un arrangiamento più sobrio, meno ridondante. Segue una nuova versione di “American skin”, inutile qui ripetere dell’episodio di violenza razzista da cui nasce la canzone, tra le più belle della sua produzione recente. Ecco le cover: “Just like fire would” è un brano degli australiani Saints al quale se togli la ruvidezza e l’immediatezza del punk resta poco. Ricorda Mellencamp.
Onesto e sano rock, si dirà, ma da uno come il Boss si può pretendere di più: la scrittura dei pezzi è spesso elementare e non brilla certamente per originalità e per urgenza. “Down in the hole”, ad esempio, è affascinante, ma troppo simile a “I’m on fire”. Tuttavia il nostro non si risparmia, as usually. “Heaven’s wall” è un gospel celtico nel mezzo del quale Morello entra con la delicatezza di un elefante in una cristalleria, e apre la sequenza folk che sta nel cuore dell’opera, completato da “Frankie fell in love”, “This is your sword” e “Hunter of invisible game”.
Il finale non ci aiuta a emettere un verdetto definitivo: la versione elettrica di “The ghost of Tom Joad” tradisce la disperazione dell’originale, con un Morello ancora sopra le righe e un finale pomposo e urticante, così poco Steinbeck. Nella speciale classifica delle cover peggio riuscite di sempre, è appena un gradino sopra “Knockin’ on heaven’s door” dei Gun’s Roses. “The wall” è una ballata acustica dedicata a un marine (“Cigarettes and a bottle of beer/This poem I wrote for you/This black stone and these hard tears/Are all I've got left now of you/I remember you in your Marine uniform laughing/Laughing that you're shipping out probably/I read Robert McNamara says he's sorry”) e per ultimi i Suicide, vecchia passione. Notevoli i testi, ancora una volta dalla parte di chi sta al margine: “Questa è la musica che ho sempre sentito il bisogno di pubblicare. Dai gangster di “Harry’s Place”, i compagni di stanza di “Frankie Fell In Love”, (ombre di me e Steve che facciamo casino nell’appartamento di Asbury Park), i viaggiatori nella terra desolata di “Hunter Of Invisible Game”, fino ai soldati e i visitatori di “The Wall”, sentivo che si meritassero tutti una casa e un ascolto.”
“High Hopes” pare quasi un disco live. La titletrack è una rivisitazione – in un tripudio di fiati - di un vecchio brano degli Havalinas di Tim Scott McConnell: “Monday morning” è un incipit notevole, e il verso “Gimme love/gimme peace” è un amarcord della stagione del florer power. La successiva “Harry’s Place” ha una base elettronica e un’anonimo andamento funk: forse serviva un arrangiamento più sobrio, meno ridondante. Segue una nuova versione di “American skin”, inutile qui ripetere dell’episodio di violenza razzista da cui nasce la canzone, tra le più belle della sua produzione recente. Ecco le cover: “Just like fire would” è un brano degli australiani Saints al quale se togli la ruvidezza e l’immediatezza del punk resta poco. Ricorda Mellencamp.
Onesto e sano rock, si dirà, ma da uno come il Boss si può pretendere di più: la scrittura dei pezzi è spesso elementare e non brilla certamente per originalità e per urgenza. “Down in the hole”, ad esempio, è affascinante, ma troppo simile a “I’m on fire”. Tuttavia il nostro non si risparmia, as usually. “Heaven’s wall” è un gospel celtico nel mezzo del quale Morello entra con la delicatezza di un elefante in una cristalleria, e apre la sequenza folk che sta nel cuore dell’opera, completato da “Frankie fell in love”, “This is your sword” e “Hunter of invisible game”.
Il finale non ci aiuta a emettere un verdetto definitivo: la versione elettrica di “The ghost of Tom Joad” tradisce la disperazione dell’originale, con un Morello ancora sopra le righe e un finale pomposo e urticante, così poco Steinbeck. Nella speciale classifica delle cover peggio riuscite di sempre, è appena un gradino sopra “Knockin’ on heaven’s door” dei Gun’s Roses. “The wall” è una ballata acustica dedicata a un marine (“Cigarettes and a bottle of beer/This poem I wrote for you/This black stone and these hard tears/Are all I've got left now of you/I remember you in your Marine uniform laughing/Laughing that you're shipping out probably/I read Robert McNamara says he's sorry”) e per ultimi i Suicide, vecchia passione. Notevoli i testi, ancora una volta dalla parte di chi sta al margine: “Questa è la musica che ho sempre sentito il bisogno di pubblicare. Dai gangster di “Harry’s Place”, i compagni di stanza di “Frankie Fell In Love”, (ombre di me e Steve che facciamo casino nell’appartamento di Asbury Park), i viaggiatori nella terra desolata di “Hunter Of Invisible Game”, fino ai soldati e i visitatori di “The Wall”, sentivo che si meritassero tutti una casa e un ascolto.”
LA RECENSIONE SU IJE.ZINE
L’odore della Plastica Bruciata è una raccolta di racconti scritta da Giovanni Battista Menzani ed edita da
LiberAria. Racconti crudi, spietati, tristemente ironici, che mettono in
evidenza tutto l’egoismo e il cinismo della nostra società, in una deriva di
valori che ci spinge sempre più verso il basso e ci costringe a rotolarci nel
fango.
Non è un caso che il libro si apra con Con
passo sicuro e costante andatura, storia di un povero malcapitato che
per sbarcare il lunario si trova costretto a lavorare come asino in un outlet,
caricandosi sul groppone i pacchi della “gentile” clientela che dal momento che
paga ha il diritto di sottoporlo a umiliazioni e vessazioni di ogni sorta,
fingendo di dimenticare che sotto quel costume si nasconde un essere umano.
Il racconto in chiusura L’odore della plastica bruciata (che dà il titolo alla raccolta) affronta un tema molto delicato: la pena di morte. Qui ci vengono presentati alcuni assassini condannati alla sedia elettrica, la cui esecuzione capitale viene eseguita in diretta in un cinema multisala affollato di persone. Persone talmente assuefatte alla spettacolarizzazione del lutto, da gustarselo assieme ai loro figli con un pacco di popcorn tra le mani, in un parossismo di disumanità. In mezzo ci sono storie di lavori precari, di mariti rovinati dalle ex mogli, di brutture, di freddezza, di vite in bilico. Una cosa su tutto: l’indifferenza, che il più delle volte rende l’uomo peggio della bestia. Giovanni Battista Menzani affronta questi argomenti in modo egregio, senza mai scadere nella retorica, denotando una sensibilità e una profondità d’animo fuori dal comune. Ma la cosa a mio avviso più importante e che rende questi racconti credibili, è che Menzani non indugia in inutili personalismi, non offre soluzioni stereotipate, il suo è solo un preciso punto d’osservazione frutto di un immaginario compatto. E per riuscire a mettere insieme tutto questo utilizza un’ironia sottile e una scrittura semplice, senza sbavature. Semplice nel senso che anziché ricorrere a effetti speciali o colpi di scena, ha il pregio di mostrare le cose per quello che sono. L’atmosfera rarefatta che si respira durante la lettura trasmette un senso di claustrofobico.
E alla fine resta dentro un sapore acre.
Acre come la plastica bruciata.
Il racconto in chiusura L’odore della plastica bruciata (che dà il titolo alla raccolta) affronta un tema molto delicato: la pena di morte. Qui ci vengono presentati alcuni assassini condannati alla sedia elettrica, la cui esecuzione capitale viene eseguita in diretta in un cinema multisala affollato di persone. Persone talmente assuefatte alla spettacolarizzazione del lutto, da gustarselo assieme ai loro figli con un pacco di popcorn tra le mani, in un parossismo di disumanità. In mezzo ci sono storie di lavori precari, di mariti rovinati dalle ex mogli, di brutture, di freddezza, di vite in bilico. Una cosa su tutto: l’indifferenza, che il più delle volte rende l’uomo peggio della bestia. Giovanni Battista Menzani affronta questi argomenti in modo egregio, senza mai scadere nella retorica, denotando una sensibilità e una profondità d’animo fuori dal comune. Ma la cosa a mio avviso più importante e che rende questi racconti credibili, è che Menzani non indugia in inutili personalismi, non offre soluzioni stereotipate, il suo è solo un preciso punto d’osservazione frutto di un immaginario compatto. E per riuscire a mettere insieme tutto questo utilizza un’ironia sottile e una scrittura semplice, senza sbavature. Semplice nel senso che anziché ricorrere a effetti speciali o colpi di scena, ha il pregio di mostrare le cose per quello che sono. L’atmosfera rarefatta che si respira durante la lettura trasmette un senso di claustrofobico.
E alla fine resta dentro un sapore acre.
Acre come la plastica bruciata.
(Grazie a Francesco Rago)
sabato 18 gennaio 2014
UN LIBRO DENSO E DOLOROSO.
L'odore della plastica bruciata è una raccolta di racconti che lascia senza fiato. Per l'angoscia.
Un
mondo nel quale sembra che non ci siano riferimenti reali e che invece
racconta con freddezza tutti gli stereotipi, le crudeltà, le
indifferenze del nostro paese.
Abbiamo
a che fare con lavori sottopagati e degradanti in centri commerciali
affollati e disumani, con insegnanti precari, con badanti che, oltre a
pulire il culo dei nostri vecchi, conquistano anche un pezzo del loro
cuore e poi vengono sistematicamente ignorate dagli eredi, con aspiranti
'vip' in preda alla massacrante routine dei reality, con istituzioni
pignole, corrotte, indifferenti, con ex mariti rovinati, padri
assassini, vendette, povertà e morte.
Non
c'è speranza in questi racconti. I buoni sentimenti emergono ogni
tanto, per venire subito spazzati via dalla straniante sensazione che
niente stia andando come dovrebbe. Dal terribile sospetto che sia tutto
vero quello che scrive Giovanni Battista Menzani.
A
dispetto della brevità dei singoli racconti, non si tratta di un libro
facile. Bisogna respirare tra un racconto e l'altro e rileggerne alcuni.
È un libro denso, doloroso, che resta impresso e ha la capacità di
andare a fondo nelle nostre paure e convinzioni.
Menzani,
poi, scrive benissimo: freddo, va dritto al punto e non sbaglia mai. Ci
accompagna in questo mondo alienato ma non troppo, in cui a volte
sembra che manchi anche la luce, con uno stile semplice e un lessico
perfetto.
Quello
che mi ha colpita di più è però la rassegnazione dei personaggi,
l'incapacità di ribellarsi a una via che sembra già segnata. Sì è
parlato, a proposito di altri romanzi, di realismo e di fiumane che
travolgono tutto. Qui, in questo libro, sembrano tutti già affogati. Da
un pezzo.
Leggere L'odore della plastica bruciata
serve, in ogni caso, per vedere che cosa stiamo diventando (perché sono
ottimista e non voglio credere che siamo 'già' così) e per cercare di
tornare indietro. E perché raramente si legge oggi una scrittura così
diretta e semplice, ma al tempo stesso colta e carica di significato e
di emozioni. Non si legge a cuor leggero, non lo si divora tutto d'un
fiato. Si beve a piccoli sorsi, coraggiosamente.
(Recensione di Angela Del Prete, su www.i-libri.com)
Grazie
sabato 11 gennaio 2014
ALTRA RECENSIONE, SU LANKELOT.IT
L'odore della plastica bruciata è la prima raccolta di racconti di Giovanni Battista Menzani, dopo due saggi di architettura e la cura della Guida ai luoghi fantastici di Piacenza (per ed. Piacenzasera, o per Officine Gutenberg, si trovano notizie diverse) e il Dizionario Biografico Fantastico dei Piacentini Illustri
(edito da Codex10) entrambe in coppia con Gabriele Dadati. Si può dire
che questo libro segni il suo esordio narrativo in solitaria, credo, e
un esordio coraggioso, come tutti quelli che si affidano alla forma del
racconto, un po' perché nel panorama editoriale italiano le raccolte non
antologiche mi sembrano abbastanza rare, e soprattutto per il fatto che
scrivere racconti, scrivere buoni racconti, è estremamente difficile.
Una raccolta, inoltre, lo è ancora di più, perché non basta essere
capaci di dare vita ad un singolo buon racconto, cosa che può accadere a
chiunque provi a scrivere, prima o poi, ma presuppone un'omogeneità
eterogenea in cui ogni racconto, per quanto possa essere più o meno
“diverso” da quello che lo precede e dal suo seguente, acquista forza e
senso dal suo essere parte di un insieme, come atomi in una molecola.
Tornando al libro in questione, nell'aletta di copertina si legge una
frase che conferma il titolo (almeno per me, che lego quell'odore a
cantieri e periferie notturne) “Un'immensa periferia globale e
stereotipata fatta di svincoli autostradali, capannoni prefabbricati,
outlet di cartapesta e cartelloni pubblicitari...”.
Si comincia: Con passo sicuro e costante andatura
narra in prima persona le difficoltà di un commesso porta-pacchi in un
grande centro commerciale, un commesso che si trasforma in mulo grazie
ad una pesante tuta semimeccanica e il cui compito è quello di farsi
caricare dai clienti gli acquisti sulla groppa e trasportarli
dall'uscita del grande edificio fino alla loro macchina parcheggiata.
Digressione: mi ricorda un romanzo, Nessuna esperienza richiesta,
di G. Comuniello, edito da Intermezzi, in cui il protagonista dopo
varie disavventure lavorative finisce con il “lavorare” come animale
domestico. Nel secondo, A stomaco vuoto, è protagonista un'insegnante...a tempo precario indeterminato. In Kerosene
ecco una badante dell'Est Europa che si vede trattare con poco rispetto
dai parenti dell'uomo che ha assistito per anni. Si continua con
frammenti di vite: dalla comparsa televisiva che vive in una sorta di
“riserva” per comparse all'architetto che va a fare misurazioni di case
su un terreno che, cambiato di proprietà, verrà destinato a nuove
abitazioni con conseguente sfratto degli attuali abitanti, dagli
ispettori delle Squadre Speciali per il Rilevamento dei Consumi, addetti
a controllare che i cittadini spendano almeno la loro quota minima di
denaro mensile per mandare avanti l'economia, al figliol prodigo che
tornando a casa viene scambiato dal padre esteticamente modificato per
un ladro, al mago per compleanni vittima dei genitori del festeggiato,
ed altri ancora fino ad arrivare al racconto che dà il titolo a tutto
quanto: siamo in un mondo in cui il passaggio all'età adulta viene
segnato dalla visione di uno spettacolo.
L'autore gioca in economia, con gli ambienti, i personaggi, e non sbaglia, facendo de L'odore della plastica bruciata
una buona raccolta, con una scrittura piana tesa a calare chi legge in
ogni situazione descritta, a fargliela sentire reale anche là dove la
realtà viene forzata e i racconti sembrano narrare una distopia, un
futuro molto vicino, un presente parallelo. A seconda della distanza dal
“reale” si possono così distinguere vari livelli, ma nella lettura si
confondono, si sovrappongono, e quando si arriva alla fine possiamo
quasi dire: è già così. Sappiamo che non è vero, reale, come sappiamo
che potrebbe esserlo: vero, reale.
Eppure voltata l'ultima
pagina mi sono accorto che mi era rimasta addosso una sensazione di note
stonate. Dopo un ripasso veloce ho pensato a come mi ero sentito appena
terminata la prima storia: ero molto curioso. Dopo la seconda, invece,
la curiosità era diminuita. Come mai? Non una questione di qualità
singola, ma di posizione reciproca. Quei due racconti, in quell'ordine,
mi erano sembrati distanti, tanto distanti da recarmi una sorta di
delusione. Se prendo il libro come molecola e i racconti come atomi,
quei due accanto, secondo me, in quell'ordine, non legano. È qualcosa
che ho sentito, ma in tono minore, anche in altre parti della raccolta, e
mi fa pensare che forse la disposizione generale poteva essere diversa,
tenendo come punto fermo il racconto finale. Anche solo lo spostamento
del primo, forse, nella parte centrale, o nella seconda metà, sarebbe
stato sufficiente, perché si avverte come un salto all'indietro
iniziale, mentre dopo c'è una progressione più o meno costante.
Impressioni, sensazioni. L'odore della plastica bruciata è una buona raccolta di racconti cui è mancato poco, per me, per essere qualcosa di più.
Termino con un'altra digressione: quando ho letto Con passo sicuro e costante andatura,
mi è sembrata un'espressione già sentita o letta, così ho chiesto al
motore di ricerca una mano, e sono finito su una pagina del sito
agraria.org dedicata al mulo, che avevo già visitato tempo fa, e tra le
altre cose dice “Se il mulo è proverbiale per la caparbietà e spesso per
la cattiveria, in compenso compie il lavoro con grande energia e molta
resistenza, anche sulle strade montane più impervie, con passo sicuro e
costante andatura”. Un po' come chi scrive, più o meno.
(recensione di Andrea Brancolini).
Grazie
TREDICI COLTELLATE FEROCI
Nella raccolta di racconti L’odore della plastica bruciata di Giovanni Battista Menzani ogni parola è un pugno, ogni descrizione la desolazione, ogni periferia più grigia.
Grotteschi personaggi eseguono azioni e
ragionano su pensieri al limite dell’accettabile, in una solitudine che
fa paura ogni pagina di più. Ultimi che vivono la loro vita ai margini
della normalità gestendo il vuoto delle loro esistenze riempiendolo di
umanità e di commozione. L'uomo cavallo di peluche al centro commerciale
che cade durante le ore di lavoro e a cui nessuno dà una mano, la
badante abbandonata dai figli dell'anziano deceduto che hanno modificato
il testamento per non lasciarle nulla neppure il gas e la luce
nell'ultima settimana di permanenza nella casa in cui lei da sola si è
presa cura dell'anziano, la precaria con i capelli opachi il cui amore è
così stanco, come lei, da non poter essere provato. Storie senza passi
avanti, storie che non cambiano la vita degli individui descritti ma che
tagliano l'anima di chi legge in tanti pezzi. Non c'è speranza
nell'Italia di Menzani, ognuno fa il meno possibile per essere felice.
Si sopravvive, a stento, in una vita che non dà ragioni per essere
soddisfatti ma, soprattutto, per essere vivi.
Menzani scrive con essenzialità, senza
fronzoli. Non cerca di essere umano, così come i suoi personaggi non
hanno risvolti di ottimismo o di speranza. Sono quadri vuoti su una
parete bianca, la cui muffa è già entrata nei polmoni dei lettori dalla
prima pagina. Una drammatica Spoon River che scorre nascosta dai
capannoni che infestano ogni chilometro della via Emilia, in decadenti
caseggiati soffocati dal cemento e dagli svincoli autostradali.
Un mondo che è il nostro e allo
stesso tempo è altro. Un mondo all’eccesso, in cui cose che conosciamo
crescono enormemente e giganteggiano, accettate dai personaggi come
normali, senza ribellioni o fughe. Perché il loro è un mondo gigante,
invisibile, che sta dentro il nostro.
Menzani, architetto al suo esordio
letterario, gioca con le forme e le costruzioni di vite precarie in
bilico su precari rapporti: con il denaro e con le persone che creano le
reti delle nostre esistenze. Puzzle che si combinano tra di loro,
emozioni che si assomigliano nella devianza che si accompagna a una
opaca serenità, solitudini di linee arrugginite dal tempo, dalla
mancanza di affetto, dalla perdita di certezza.
Un esordio affilato, senza scampo.
(recensione di Antonella Gigantino, su Scenecontemporanee.it).
Grazie.
RADIO TENEBRA
Le trasmissioni di Radio Tenebra sono udibili in tutta la
provincia, esclusivamente durante le ore notturne. Nessuno conosce
l’identità di Dj Nutria, la voce calda che accompagna da circa
venticinque anni le notti dei piacentini attraverso una lunga diretta
che va in onda, senza interruzioni, dal 1990. Inframmezzati da musica
alternativa dei generi più disparati - su Radio Tenebra si può ascoltare
dark, industrial, noise, death e black metal, e tale particolarità la
si può considerare un caso più unico che raro per quanto riguarda la
nostra provincia - i deliri del Dj corrono liberi senza sosta alcuna.
Durante i suoi monologhi, Dj Nutria non risparmia nessuno, polemizzando su tutto ciò che riguarda la
politica locale, la Chiesa e le abitudini dei piacentini.
Una delle sue crociate più celebri riguardò l’accusa rivolta ai
cittadini che non fanno nulla per vivacizzare le serate e le notti della
città e della provincia. Lo slogan più famoso del Dj rimane infatti
“una radio fantasma per una città morta”. La cosa curiosa è il fatto,
consapevole o meno, di essere lui stesso una delle cause principali per
la tipica inattività delle serate piacentine; sono tanti i giovani che
non eescono di casa proprio per seguire la trasmissione. E non solo per
quanto riguarda la musica e le parole del Dj, ma anche per il momento
più seguito della diretta, che può variare fra l’una e le due e trenta:
ma non passa notte in cui la calda voce di Dj Nutria non annunci ciò che
tutti attendono.
Il nome.
Per ragioni che rimangono inspiegabili, ogni notte viene nominato
un piacentino che, senza margine di errore o imprecisione, il giorno
seguente troverà la morte. Che si tratti di un anziano ormai giunto alla
fine del suo percorso o di un giovane che verrà coinvolto in un
incidente, il nome viene sempre fatto. Tutti lo sanno e a tutti sta bene
così, ansiosi di avere un’anticipazione dai connotati tanto macabri;
d’altronde non è un mistero che i piacentini vivano uno strano rapporto
con la morte, quasi confidenziale, che trova nella trasmissione di Radio
Tenebra o nelle pagine dei necrologi di Libertà il suo apice.
La sede della radio è in realtà un semplice appartamento al piano
rialzato di una palazzina di tre piani, con il rivestimento in
piastrelle di klinker marrone.
Più volte le forze dell’ordine - o anche semplici fan - hanno tentato di visitare la stazione radiofonica
durante la diretta, ma tutto ciò che hanno trovato al loro arrivo è
un piccolo studio casalingo, ben attrezzato, ma la cui consolle è
sempre, immancabilmente deserta.
I carabinieri sospettano che Dj Nutria usufruisca di un passaggio segreto per nascondersi, e di una serie
di informatori che lo tengono aggiornato sui provvedimenti che lo riguardano.
I vecchi di Carpaneto raccontano che in quell’edificio, alla fine
degli anni Sessanta, è avvenuto un fatto bizzarro, ovvero un esorcismo,
ma al riguardo la Chiesa non si è mai espressa. Raccontano di un
ragazzino - che abitava proprio al piano rialzato, in quell’alloggio -
che aveva cominciato a parlare in lingue strane e a manifestare
comportamenti insoliti, come mettersi a urlare nel cuore della notte o
picchiare contro le pareti. C’è chi ancora oggi è pronto a giurare che
il bambino nei suoi deliri gridasse dei nomi; e le donne dicevano di
farsi il segno della croce, perché se venivi nominato, significava che
dovevi morire.
Note:
Come ogni anno, anche l’ultimo Halloween ha visto la pubblicazione
della consueta compilation di Radio Tenebra, assemblata da DJ Nutria;
“Dead of Night - Volume XXIV” è disponibile presso i negozi di dischi
della città e della provincia e attraverso la mail
radiotenebra@yahoo.it. Anche in questa edizione nuove tendenze musicali
si alternano a vecchi classici, per esempio il tenebroso rock dei Ghost o
gli intramontabili Mercyful Fate, gli Excoriate o i Bauhaus. Presente
un raro inedito degli ormai disciolti Reverend Bizarre. Come al solito
la tiratura è limitata a 666 copie numerate a mano con inchiostro (?)
rosso sangue.
Pietro Gandolfi è nato e vive a Piacenza; a Pietro piacciono la
letteratura horror, i fumetti, l’Heavy Metal e i film pieni di sangue.
Pietro ha una band in cui canta, i Bringer of War, e ha pubblicato due
libri, “Dead of Night” e “La ragazza di Greenville”. Pietro adora la
birra e la pizza e se potesse uscirebbe di casa solo per andare al
cinema e ai concerti. Pietro ama gli animali, in particolare i conigli
(e la cosa compromette seriamente la sua fama di “autore nero”); Pietro
si considera “analogico” e utilizza il computer in una maniera
imbarazzante, ma alla fine va bene così. Pietro ama la sua città, perché
se osserva bene è capace di trovare un lato oscuro anche fra le vie del
centro o in qualche paesino sperduto sulle colline piacentine.
BUONI PROPOSITI PER IL NUOVO ANNO, da MINIMA&MORALIA lo straordinario discorso di George Saunders agli studenti
Nel corso degli anni si è andata affermando una tradizione per questo
tipo di discorsi, che potremmo sintetizzare come segue: un vecchio
noioso e antiquato, con i migliori anni ormai alle spalle, che nel corso
della sua vita ha commesso una serie di errori madornali (che sarei
io), dà consigli dal profondo del cuore a un gruppo di giovani brillanti
e pieni di energie che hanno davanti a sé i loro anni migliori (che
sareste voi). E io intendo rispettare questa tradizione.
Ebbene, una delle cose più utili che si può fare con una persona anziana – oltre a prendere soldi in prestito o chiederle di eseguire uno dei “balli” dei suoi tempi, così da poterla osservare facendosi due risate – è chiederle: “Ripensando al passato, di che cosa ti rammarichi?”. E lei te lo dice. In qualche caso, come ben sapete, te lo dice anche se non glielo chiedi. In qualche altro caso ancora te lo dice perfino quando hai specificatamente chiesto che non te lo dica.
Bene: di che cosa mi rammarico? Di essere stato povero, di quando in quando? Non proprio. Di aver fatto mestieri tremendi, come “estrarre le articolazioni” in un mattatoio? (Che non vi venga assolutamente in mente di chiedermi che cosa ciò comporta.) No. Non mi rammarico di ciò. Di essermi tuffato senza nulla addosso in un fiume di Sumatra, un po’ alticcio, e di aver guardato in alto, e di aver visto qualcosa come trecento scimmie sedute su una tubatura intente a cagare di sotto, nel fiume, proprio quello nel quale stavo nuotando io, con la bocca spalancata e tutto nudo? E di essermi ammalato in seguito a ciò, e di essere stato male per i sette mesi successivi? Non proprio. Mi rammarico forse di aver fatto qualche sporadica figuraccia? Come quella volta che giocando a hockey di fronte a una gran folla – in mezzo alla quale c’era una ragazza che mi piaceva davvero tanto – caddi a terra emettendo un bizzarro suono stridulo, e non so come riuscii a segnare nella porta della mia squadra e al tempo stesso a scaraventare il bastone in mezzo alla folla e a colpire proprio quella ragazza? No. Non mi rammarico neppure di questo.
In verità mi rammarico di un’altra cosa: in seconda media nella nostra classe arrivò una ragazzina nuova. Nel rispetto della privacy, diciamo che il nome col quale ci fu presentata fu “Ellen”. Ellen era piccola, timida. Indossava occhiali blu dalla montatura a occhi di gatto, del tipo che all’epoca portavano soltanto le signore anziane. Quando era nervosa, in pratica quasi sempre, aveva l’abitudine di mettersi una ciocca di capelli in bocca e di masticarla.
Insomma, arrivò nella nostra scuola e nel nostro quartiere, e per lo più fu del tutto ignorata, in qualche caso presa in giro (“Sono saporiti i tuoi capelli?” e altre battute del genere). Mi rendevo conto che questo la feriva. Ricordo ancora come appariva dopo una villania di questo tipo: teneva gli occhi bassi, se ne stava un po’ ripiegata, come se avesse ricevuto un calcio nello stomaco, come se essendole appena stato ricordato il posto che occupava cercasse, per quanto possibile, di scomparire. Dopo un po’ scivolava via, con la ciocca di capelli ancora in bocca. A casa, dopo la scuola, immaginavo che sua mamma le chiedesse cose del tipo: “Come è andata oggi, tesoro?”. E lei rispondesse: “Oh, bene”. E sua madre forse le chiedeva anche: “Hai stretto amicizie?”, e lei rispondesse: “Sicuro, molte”.
Talvolta la vedevo bighellonare tutta sola nel giardino anteriore di casa sua, come se fosse timorosa di uscirne. E poi… Poi traslocarono. Ecco tutto. Nessuna tragedia. Nessuna grande presa in giro finale. Un giorno era lì, il giorno dopo era sparita. Fine della storia.
Ebbene, perché mai mi rammarico di ciò? Perché a distanza di quarant’anni ripenso ancora a quell’episodio? Rispetto alla maggior parte degli altri ragazzini, in realtà, io mi ero comportato abbastanza gentilmente con lei. Non le ho mai detto niente di sgradevole. Anzi, in qualche caso l’ho addirittura difesa (un po’). Eppure… Mi dispiace.
Ecco, questa è una cosa vera che adesso so di sicuro, anche se si tratta di qualcosa di un po’ trito e non so con esattezza che farne: ciò che rimpiango di più nella mia vita è aver mancato di essere gentile. Mi riferisco a quei momenti in cui davanti a me c’era un altro essere umano, addolorato, e io ho reagito… assennatamente. In modo riservato. Bonario.
Oppure, se vogliamo vedere le cose dall’altra parte, potremmo chiederci: chi ricordi con maggior affetto nel corso della tua vita? Con la più innegabile sensazione di cordialità? Quelli che sono stati maggiormente gentili nei tuoi confronti, scommetto.
Sarà forse un po’ semplicistico, e sicuramente difficile da mettere in pratica, ma direi che come obiettivo nella vostra vita fareste bene a “cercare di essere più gentili”.
Ed eccoci alla domanda da un milione di dollari: qual è il nostro problema? Perché non siamo più gentili? Questo è quanto penso io in proposito:
Ciascuno di noi viene al mondo con una serie di malintesi innati che quasi certamente hanno un’origine darwiniana. Mi riferisco a: 1) noi siamo il centro dell’universo (in altri termini, la nostra storia personale è la storia più importante e interessante al mondo. Anzi, in realtà è l’unica storia che conti); 2) noi siamo qualcosa di diverso e distinto dall’universo (sì, certo ci siamo noi e poi, laggiù, c’è tutto il resto, cani e altalene e lo Stato del Nebraska e le nuvole basse e, sì, è vero, anche tanta altra gente); e 3) noi siamo eterni (la morte esiste, sì, certo, ma riguarda te, non me).
Ebbene, noi non crediamo veramente a queste cose – a livello intellettuale non siamo certo così ingenui – ma ci crediamo a livello viscerale, e viviamo in modo conforme a ciò che crediamo, al punto che queste cose fanno sì che noi riteniamo prioritarie le nostre esigenze rispetto a quelle altrui, anche se ciò che vogliamo davvero, nel profondo dei nostri cuori, è essere meno egoisti, più consapevoli di quello che sta accadendo nel momento presente, più aperti, più amorevoli.
Ed eccoci alla seconda domanda da un milione di dollari: come possiamo riuscire a fare una cosa del genere? Come possiamo diventare più premurosi, più aperti, meno egoisti, più presenti, meno deludenti e così via?
Già, bella domanda…
Purtroppo, mi restano soltanto tre minuti ancora…
Lasciate dunque che vi dica questo: il modo c’è. Voi già lo sapete, del resto, poiché nella vostra vita avete conosciuto periodi di Grande Gentilezza e periodi di Poca Gentilezza, e già sapete che cosa vi ha spinti verso i primi e lontano dai secondi. Una buona istruzione serve. Immergersi in un’opera d’arte serve. Pregare serve. Meditare serve. Una chiacchierata schietta con un caro amico serve. Sentirsi parte di una tradizione spirituale serve. Riconoscere che ci sono state innumerevoli persone davvero intelligenti prima di noi che si sono poste queste stesse domande e ci hanno lasciato le loro risposte serve.
Il fatto è che si finisce con lo scoprire che essere gentili è difficile. Perché essere gentili all’inizio è essere tutti arcobaleni e cucciolotti, ma poi si espande, fino a includere… beh, proprio tutto.
Una cosa gioca a nostro favore: parte di questo diventare più gentili capita naturalmente, con l’età. Può trattarsi di una semplice questione di logoramento: a mano a mano che invecchiamo impariamo ad accorgerci di quanto sia inutile essere egoisti. Di quanto sia illogico, davvero. Iniziamo ad amare il prossimo e così facendo riceviamo una sorta di contrordine in merito alla nostra centralità. La vita reale ci prende a calci nel sedere, e la gente accorre in nostra difesa e in nostro aiuto, e così impariamo che non siamo separati dagli altri, né vogliamo esserlo. Vediamo le persone a noi vicine e a noi care indebolirsi, e poco alla volta ci convinciamo che forse anche noi un giorno saremo più deboli (un giorno, tra tanto tempo). La maggior parte delle persone, quando invecchia, diventa meno egoista e più amorevole. Penso che sia proprio vero. Il grande poeta di Syracuse Hayden Carruth quasi al termine della sua vita in una poesia scrisse di sentirsi “per lo più amore, ormai”.
Ed eccovi la mia previsione, il mio augurio di tutto cuore per voi: a mano a mano che invecchierete, il vostro Io diminuirà e crescerete nell’amore. L’IO sarà sostituito poco alla volta dall’AMORE. Se avrete figli, quello sarà un momento di enorme rimpicciolimento della vostra centralità. A quel punto non vi interesserà più ciò che accadrà a voi, purché siano loro a beneficiarne. Questo è uno dei motivi per i quali i vostri genitori oggi sono così orgogliosi e felici. Uno dei loro sogni più caramente accarezzatisi è trasformato in realtà: voi avete portato a compimento qualcosa di difficile e di tangibile che vi ha fatto crescere come persone e vi renderà la vita migliore, da adesso in poi, per sempre.
Congratulazioni, a proposito!
Da giovani siamo impazienti, come è giusto che sia, di scoprire se possediamo tutto ciò che ci serve. Ce la faremo? Riusciremo a costruirci una vita degna di questo nome? Ma voi – in particolare voi, di questa generazione – forse avrete notato un certa qualità ciclica in questa ambizione. Andate bene al liceo nella speranza di riuscire a entrare in una buona università, così da andare bene all’università nella speranza di riuscire a ottenere un buon posto di lavoro, così da poter svolgere bene il vostro lavoro nella speranza di riuscire a…
E tutto ciò è sicuramente ok. Se dobbiamo diventare più gentili, questo processo include il fatto di prenderci sul serio, in qualità di persone che agiscono, che portano a termine le cose, che sognano. Sì, dobbiamo fare proprio questo: essere il meglio di ciò che possiamo essere.
Tuttavia, il successo è inaffidabile. “Avere successo”, a prescindere da ciò che può voler dire per voi, è difficile, e la necessità di farlo sempre si rinnova di continuo (il successo è come una montagna che continua a innalzarsi nel momento stesso in cui la scaliamo), ed esiste il pericolo molto concreto che per “avere successo” sia necessaria la vita intera, mentre le grandi domande restano senza risposta.
Ed eccovi dunque un consiglio veloce, per congedarmi al termine di questo discorso: dato che secondo la mia opinione la vostra vita sarà un viaggio che vi porterà ad essere più gentili e più amorevoli, sbrigatevi. Fate presto. Iniziate subito. In ciascuno di noi c’è un equivoco di fondo, un vero malessere in verità. Si tratta dell’egoismo. Ma la cura esiste. Siate quindi gentili e proattivi e addirittura in un certo senso i pazienti di voi stessi – cercate le medicine più efficaci contro l’egoismo, cercatele con tutte le vostre energie, per tutto il resto della vostra vita.
Fate tutte le altre cose, quelle ambiziose – viaggiare, diventare ricchi, acquistare fama, essere innovativi, essere leader, innamorarsi, fare fortuna e perderla, nuotare nudi nei fiumi in mezzo alla giungla (dopo aver controllato che non ci siano in giro scimmie che cagano) – ma qualsiasi cosa farete, nella misura del possibile eccedete in gentilezza. Fate ciò che vi può indirizzare verso le risposte a quelle grandi domande, cercando di tenervi alla larga dalle cose che possono sminuirvi e rendervi banali. Quella luminosa parte di voi che esiste al di là della vostra personalità – la vostra anima, se credete – è tanto luminosa e brillante quanto nessun’altra. Luminosa come quella di Shakespeare, luminosa come quella di Gandhi, luminosa come quella di Madre Teresa. Sbarazzatevi di tutto ciò che vi può tenere lontani da quella luminosità nascosta. Credete nella sua esistenza, cercate di conoscerla meglio, coltivatela, condividetene incessantemente i frutti.
E un giorno, tra 80 anni, quando voi ne avrete 100 e io 134, quando saremo tutti così gentili e premurosi da risultare quasi insopportabili, scrivetemi due righe. Fatemi sapere come è stata la vostra vita. Spero tanto che mi scriviate: è stata meravigliosa.
Congratulazioni, laureati del 2013.
Vi auguro tanta felicità, tutta la fortuna del mondo e un’estate splendida.
© George Saunders, 2013 – Tutti i diritti riservati
Ebbene, una delle cose più utili che si può fare con una persona anziana – oltre a prendere soldi in prestito o chiederle di eseguire uno dei “balli” dei suoi tempi, così da poterla osservare facendosi due risate – è chiederle: “Ripensando al passato, di che cosa ti rammarichi?”. E lei te lo dice. In qualche caso, come ben sapete, te lo dice anche se non glielo chiedi. In qualche altro caso ancora te lo dice perfino quando hai specificatamente chiesto che non te lo dica.
Bene: di che cosa mi rammarico? Di essere stato povero, di quando in quando? Non proprio. Di aver fatto mestieri tremendi, come “estrarre le articolazioni” in un mattatoio? (Che non vi venga assolutamente in mente di chiedermi che cosa ciò comporta.) No. Non mi rammarico di ciò. Di essermi tuffato senza nulla addosso in un fiume di Sumatra, un po’ alticcio, e di aver guardato in alto, e di aver visto qualcosa come trecento scimmie sedute su una tubatura intente a cagare di sotto, nel fiume, proprio quello nel quale stavo nuotando io, con la bocca spalancata e tutto nudo? E di essermi ammalato in seguito a ciò, e di essere stato male per i sette mesi successivi? Non proprio. Mi rammarico forse di aver fatto qualche sporadica figuraccia? Come quella volta che giocando a hockey di fronte a una gran folla – in mezzo alla quale c’era una ragazza che mi piaceva davvero tanto – caddi a terra emettendo un bizzarro suono stridulo, e non so come riuscii a segnare nella porta della mia squadra e al tempo stesso a scaraventare il bastone in mezzo alla folla e a colpire proprio quella ragazza? No. Non mi rammarico neppure di questo.
In verità mi rammarico di un’altra cosa: in seconda media nella nostra classe arrivò una ragazzina nuova. Nel rispetto della privacy, diciamo che il nome col quale ci fu presentata fu “Ellen”. Ellen era piccola, timida. Indossava occhiali blu dalla montatura a occhi di gatto, del tipo che all’epoca portavano soltanto le signore anziane. Quando era nervosa, in pratica quasi sempre, aveva l’abitudine di mettersi una ciocca di capelli in bocca e di masticarla.
Insomma, arrivò nella nostra scuola e nel nostro quartiere, e per lo più fu del tutto ignorata, in qualche caso presa in giro (“Sono saporiti i tuoi capelli?” e altre battute del genere). Mi rendevo conto che questo la feriva. Ricordo ancora come appariva dopo una villania di questo tipo: teneva gli occhi bassi, se ne stava un po’ ripiegata, come se avesse ricevuto un calcio nello stomaco, come se essendole appena stato ricordato il posto che occupava cercasse, per quanto possibile, di scomparire. Dopo un po’ scivolava via, con la ciocca di capelli ancora in bocca. A casa, dopo la scuola, immaginavo che sua mamma le chiedesse cose del tipo: “Come è andata oggi, tesoro?”. E lei rispondesse: “Oh, bene”. E sua madre forse le chiedeva anche: “Hai stretto amicizie?”, e lei rispondesse: “Sicuro, molte”.
Talvolta la vedevo bighellonare tutta sola nel giardino anteriore di casa sua, come se fosse timorosa di uscirne. E poi… Poi traslocarono. Ecco tutto. Nessuna tragedia. Nessuna grande presa in giro finale. Un giorno era lì, il giorno dopo era sparita. Fine della storia.
Ebbene, perché mai mi rammarico di ciò? Perché a distanza di quarant’anni ripenso ancora a quell’episodio? Rispetto alla maggior parte degli altri ragazzini, in realtà, io mi ero comportato abbastanza gentilmente con lei. Non le ho mai detto niente di sgradevole. Anzi, in qualche caso l’ho addirittura difesa (un po’). Eppure… Mi dispiace.
Ecco, questa è una cosa vera che adesso so di sicuro, anche se si tratta di qualcosa di un po’ trito e non so con esattezza che farne: ciò che rimpiango di più nella mia vita è aver mancato di essere gentile. Mi riferisco a quei momenti in cui davanti a me c’era un altro essere umano, addolorato, e io ho reagito… assennatamente. In modo riservato. Bonario.
Oppure, se vogliamo vedere le cose dall’altra parte, potremmo chiederci: chi ricordi con maggior affetto nel corso della tua vita? Con la più innegabile sensazione di cordialità? Quelli che sono stati maggiormente gentili nei tuoi confronti, scommetto.
Sarà forse un po’ semplicistico, e sicuramente difficile da mettere in pratica, ma direi che come obiettivo nella vostra vita fareste bene a “cercare di essere più gentili”.
Ed eccoci alla domanda da un milione di dollari: qual è il nostro problema? Perché non siamo più gentili? Questo è quanto penso io in proposito:
Ciascuno di noi viene al mondo con una serie di malintesi innati che quasi certamente hanno un’origine darwiniana. Mi riferisco a: 1) noi siamo il centro dell’universo (in altri termini, la nostra storia personale è la storia più importante e interessante al mondo. Anzi, in realtà è l’unica storia che conti); 2) noi siamo qualcosa di diverso e distinto dall’universo (sì, certo ci siamo noi e poi, laggiù, c’è tutto il resto, cani e altalene e lo Stato del Nebraska e le nuvole basse e, sì, è vero, anche tanta altra gente); e 3) noi siamo eterni (la morte esiste, sì, certo, ma riguarda te, non me).
Ebbene, noi non crediamo veramente a queste cose – a livello intellettuale non siamo certo così ingenui – ma ci crediamo a livello viscerale, e viviamo in modo conforme a ciò che crediamo, al punto che queste cose fanno sì che noi riteniamo prioritarie le nostre esigenze rispetto a quelle altrui, anche se ciò che vogliamo davvero, nel profondo dei nostri cuori, è essere meno egoisti, più consapevoli di quello che sta accadendo nel momento presente, più aperti, più amorevoli.
Ed eccoci alla seconda domanda da un milione di dollari: come possiamo riuscire a fare una cosa del genere? Come possiamo diventare più premurosi, più aperti, meno egoisti, più presenti, meno deludenti e così via?
Già, bella domanda…
Purtroppo, mi restano soltanto tre minuti ancora…
Lasciate dunque che vi dica questo: il modo c’è. Voi già lo sapete, del resto, poiché nella vostra vita avete conosciuto periodi di Grande Gentilezza e periodi di Poca Gentilezza, e già sapete che cosa vi ha spinti verso i primi e lontano dai secondi. Una buona istruzione serve. Immergersi in un’opera d’arte serve. Pregare serve. Meditare serve. Una chiacchierata schietta con un caro amico serve. Sentirsi parte di una tradizione spirituale serve. Riconoscere che ci sono state innumerevoli persone davvero intelligenti prima di noi che si sono poste queste stesse domande e ci hanno lasciato le loro risposte serve.
Il fatto è che si finisce con lo scoprire che essere gentili è difficile. Perché essere gentili all’inizio è essere tutti arcobaleni e cucciolotti, ma poi si espande, fino a includere… beh, proprio tutto.
Una cosa gioca a nostro favore: parte di questo diventare più gentili capita naturalmente, con l’età. Può trattarsi di una semplice questione di logoramento: a mano a mano che invecchiamo impariamo ad accorgerci di quanto sia inutile essere egoisti. Di quanto sia illogico, davvero. Iniziamo ad amare il prossimo e così facendo riceviamo una sorta di contrordine in merito alla nostra centralità. La vita reale ci prende a calci nel sedere, e la gente accorre in nostra difesa e in nostro aiuto, e così impariamo che non siamo separati dagli altri, né vogliamo esserlo. Vediamo le persone a noi vicine e a noi care indebolirsi, e poco alla volta ci convinciamo che forse anche noi un giorno saremo più deboli (un giorno, tra tanto tempo). La maggior parte delle persone, quando invecchia, diventa meno egoista e più amorevole. Penso che sia proprio vero. Il grande poeta di Syracuse Hayden Carruth quasi al termine della sua vita in una poesia scrisse di sentirsi “per lo più amore, ormai”.
Ed eccovi la mia previsione, il mio augurio di tutto cuore per voi: a mano a mano che invecchierete, il vostro Io diminuirà e crescerete nell’amore. L’IO sarà sostituito poco alla volta dall’AMORE. Se avrete figli, quello sarà un momento di enorme rimpicciolimento della vostra centralità. A quel punto non vi interesserà più ciò che accadrà a voi, purché siano loro a beneficiarne. Questo è uno dei motivi per i quali i vostri genitori oggi sono così orgogliosi e felici. Uno dei loro sogni più caramente accarezzatisi è trasformato in realtà: voi avete portato a compimento qualcosa di difficile e di tangibile che vi ha fatto crescere come persone e vi renderà la vita migliore, da adesso in poi, per sempre.
Congratulazioni, a proposito!
Da giovani siamo impazienti, come è giusto che sia, di scoprire se possediamo tutto ciò che ci serve. Ce la faremo? Riusciremo a costruirci una vita degna di questo nome? Ma voi – in particolare voi, di questa generazione – forse avrete notato un certa qualità ciclica in questa ambizione. Andate bene al liceo nella speranza di riuscire a entrare in una buona università, così da andare bene all’università nella speranza di riuscire a ottenere un buon posto di lavoro, così da poter svolgere bene il vostro lavoro nella speranza di riuscire a…
E tutto ciò è sicuramente ok. Se dobbiamo diventare più gentili, questo processo include il fatto di prenderci sul serio, in qualità di persone che agiscono, che portano a termine le cose, che sognano. Sì, dobbiamo fare proprio questo: essere il meglio di ciò che possiamo essere.
Tuttavia, il successo è inaffidabile. “Avere successo”, a prescindere da ciò che può voler dire per voi, è difficile, e la necessità di farlo sempre si rinnova di continuo (il successo è come una montagna che continua a innalzarsi nel momento stesso in cui la scaliamo), ed esiste il pericolo molto concreto che per “avere successo” sia necessaria la vita intera, mentre le grandi domande restano senza risposta.
Ed eccovi dunque un consiglio veloce, per congedarmi al termine di questo discorso: dato che secondo la mia opinione la vostra vita sarà un viaggio che vi porterà ad essere più gentili e più amorevoli, sbrigatevi. Fate presto. Iniziate subito. In ciascuno di noi c’è un equivoco di fondo, un vero malessere in verità. Si tratta dell’egoismo. Ma la cura esiste. Siate quindi gentili e proattivi e addirittura in un certo senso i pazienti di voi stessi – cercate le medicine più efficaci contro l’egoismo, cercatele con tutte le vostre energie, per tutto il resto della vostra vita.
Fate tutte le altre cose, quelle ambiziose – viaggiare, diventare ricchi, acquistare fama, essere innovativi, essere leader, innamorarsi, fare fortuna e perderla, nuotare nudi nei fiumi in mezzo alla giungla (dopo aver controllato che non ci siano in giro scimmie che cagano) – ma qualsiasi cosa farete, nella misura del possibile eccedete in gentilezza. Fate ciò che vi può indirizzare verso le risposte a quelle grandi domande, cercando di tenervi alla larga dalle cose che possono sminuirvi e rendervi banali. Quella luminosa parte di voi che esiste al di là della vostra personalità – la vostra anima, se credete – è tanto luminosa e brillante quanto nessun’altra. Luminosa come quella di Shakespeare, luminosa come quella di Gandhi, luminosa come quella di Madre Teresa. Sbarazzatevi di tutto ciò che vi può tenere lontani da quella luminosità nascosta. Credete nella sua esistenza, cercate di conoscerla meglio, coltivatela, condividetene incessantemente i frutti.
E un giorno, tra 80 anni, quando voi ne avrete 100 e io 134, quando saremo tutti così gentili e premurosi da risultare quasi insopportabili, scrivetemi due righe. Fatemi sapere come è stata la vostra vita. Spero tanto che mi scriviate: è stata meravigliosa.
Congratulazioni, laureati del 2013.
Vi auguro tanta felicità, tutta la fortuna del mondo e un’estate splendida.
© George Saunders, 2013 – Tutti i diritti riservati
venerdì 27 dicembre 2013
IL PAGELLONE DI FINE ANNO, 2013
25
ATOMS FOR PEACE - Amok
Snobbata dalla critica, la nuova band di Thom Yorke (Radiohead) propone un’elettronica d’avanguardia, in cui - rispetto al recente passato - appare più solida la base ritmica. La monolitica continuità dell’album è interrotta da episodi notevoli quali “Stuck together pieces”, il singolo (atipico, come singolo) “Judge jury and executioner” e “Unless”, il manifesto della nuova stagione della disillusione: ”Non me ne potrebbe fregare di meno”.
24
DAFT PUNK - Random Access Memories
DISCLOSURE - Settle
Ecco invece due dischi sopravvalutati.
Il caso più clamoroso è quello del duo parigino dei Daft Punk, incensati da VIP, gente comune e nostalgici della disco ‘80. Moroder addirittura in un cameo parla di “the sound of the future”. A noi invece sembrano a volte una stanca riedizione dei Kraftfwerk, e il loro suono metallico pare la colonna sonora di vecchi videogames come Nibbler o Donkey Kong. I pezzi più belli, le collaborazioni con Panda Bear e Gonzales.
Molte parole si sono fatte anche per il debutto dei londinesi Disclosure. In patria sono i nuovi idoli della scena underground danzereccia. Tre-quattro cose da ricordare, come “When a fire start sto burn”, “Latch” e “January”. E, anche qui, tante cose già sentite altrove.
23
DAUGHTER - If You Leave
Incidono per la 4AD, sinonimo di garanzia. Siamo in territori dark, musica da camera scarna, tormentata e delicatamente malinconica, testi poco allegri (eufemismo) e claustrofobici ("Fin dall’infanzia sono preda della forza di un’orribile malinconia, la cui profondità trova la sua vera espressione nella corrispondente capacità di nasconderla sotto apparente serenità e voglia di vivere").
Riferimenti del nuovo millennio: St.Vincent, Soap&Skin, Bon Iver, XX.
22
PEARL JAM - Lightning Bolt
Il solito disco onesto dei Pearl Jam.
21
DEPECHE MODE - Delta machine
La band di Gore recupera le sonorità cupe e claustrofobiche di uno splendido passato (“Black celebration” e “Songs of faith and devotion”), ammiccando alle atmosfere dark anni ’80 e al minimalismo tech della nuova scena elettronica (Autechre, Four Tet, Seefeel).
Quello che colpisce è la perfezione quasi assoluta del sound.
20
DAVID BOWIE - The Next Day
Un nuovo giorno. Partire dal (glorioso) passato e guardare al futuro.
Un Bowie in gran forma.
19
NATIONAL - Trouble Will Find Me
Ripetersi senza ripetersi è sempre difficile.
Tuttavia, la loro raffinata miscela di post-punk, canzone d’autore e rock intellettuale (Joy Division, Leonard Cohen, Nick Cave, Tindersticks) pur non essendo rivoluzionaria funziona sempre alla grande.
18
DEERHUNTER - Monomania
Non può essere eletto capolavoro di una carriera ormai decennale, ma “Monomania” è un concentrato di sonorità made in USA: echi lontani dei Sessanta (Love, Byrds), il lo-fi psichedelico a là Flaming Lips e Sebadoh, il Beck più casinista e artistoide, addirittura il garage degli Stooges (e dei Fall di Mark E Smith).
17
FOALS - Holy fire
Uno dei gruppi inglesi più interessanti degli ultimi tempi, almeno per chi scrive, amante del prog-rock (King Crimson, i primi Genesis, i Van der Graaf) e della scuola di Canterbury (e qui troviamo rimandi all’opera del maestro Bob Wyatt). Ascolto più che gradevole, sul quale spiccano almeno due gemme come “Bad Habit” e la minimale “Stepson”, ballata ipnotica e ripetitiva, oltre al singolo “Inhaler” - che ricorda i Jane’s Addiction.
16
DELOREAN - Apar
Arrivano dai Paesi Baschi e prendono il nome dalla macchina del tempo di “Ritorno al Futuro”.
Suonano un dreampop di gran classe.
15
IRON & WINE - Ghost on ghost
JOHN GRANT - Pale Blue Ghosts
Ovvero: Fantasmi 2.0
Abbandonato il folk da strada degli esordi, Iron&Wine prosegue il suo percorso verso un sound ricco ed elegante, jazzato, con riferimenti come Donald Fagen e Paul Weller, Calexico e Paul Simon.
Ex-leader degli Czars, Grant si era appena messo alle spalle una fase a dir poco turbolenta della sua vita quando scopre di essere sieropositivo. Smarrite le ultime, poche, certezze, da alle stampe il suo secondo album solista: discontinuo, cupo, drammatico, a tratti ancora magico.
14
MY BLOODY VALENTINE - MBV
Capostipiti della scena shoegaze, gli irlandesi tornano dopo ben 22 anni: è subito trionfo di critica e pubblico.
Meritatissimo.
“MBV” riprende il filo interrotto, costruendo muri di chitarre elettriche e di feedback a fare da sfondo a melodie eteree e ipnotiche.
13
ANNA CALVI - One breath
JULIA HOLTER - Loud city song
Le donne dell’anno.
Per la prima, autrice inglese di origini italiane, è stato scomodato Jeff Buckley.
Per la seconda, dal Michigan, addirittura Robert Wyatt.
Curiosi?
12
GOLDFRAPP - Tales of us
Nativa del Middlesex, Alison Goldfrapp è la splendida voce dell’omonimo duo, da sempre avvicinato dalla critica alla scena di Bristol.
Dopo un lungo silenzio, “Tales of us” è, più che una collezione di brani musicali, una vera e propria raccolta di racconti, dieci tracce dedicate ad altrettanti personaggi.
Musica da camera, senza tempo.
11
FUCK BUTTONS – Slow focus
DARKSIDE - Psychic
A Bristol fanno stanza anche i Fuck Buttons, autori di straordinarie cavalcate elettroniche.
I loro fottuti bottoni ci regalano strumentali tra la psichedelica e il krautrock, con echi dreamy e di danze tribali.
Colonna sonora di un futuro alle porte.
Notevole anche il disco dei Darkside:
Ambient? Elettronica d’avangiardia? Chambertronica?
Al diavolo le etichette, lasciatevi conquistare dai suoni e dalle atmosfere del nuovo progetto di Nicholas Jaar.
10
MUM - Smilewound
I Mum sono noti per la bizzarria degli arrangiamenti, un mix ben amalgamato tra tecnologia digitale e strumenti tradizionali, alcuni recuperati alle fiere locali del vintage.
La loro è una musica fiabesca, quasi in sospensione, una psichedelia minimale e misurata come solo dei gentili ragazzi del Nord Europa - vengono dall’Islanda - possono immaginare.
9
MASSIMO VOLUME - Aspettando i barbari
A distanza di ormai vent’anni dalle prime folgoranti poesie in musica, i bolognesi Massimo Volume riescono ancora a stupire e a emozionare.
Le liriche di Clementi sono di alto livello – “Ora che la sera/Accorcia le ombre/Noi ci ritiriamo/E di fronte allo specchio/Come spose/Ci acconciamo/In onore dei barbari” – manifesto impietoso di un tempo corrotto come il nostro.
8
VAMPIRE WEEKEND - Modern vampire of the city
Ne abbiamo spesso parlato male, in passato. Li avevamo accusati di non volere crescere. E invece i ragazzi newyorchesi sono diventati grandi, ma grandi davvero. Un bel passo in avanti per un disco godibile: il migliore pop in circolazione.
7
THESE NEW PURITANS - Field of reeds
Altra band sperimentale e assai interessante, i These New Puritans arrivano da Southend-on-Sea.
Il loro terzo album è lontano dalla nu-wave degli esordi, e suona come un meraviglioso post-rock espressionista e quasi dark, con orchestrazioni raffinate e minimali.
“Fragment Two” e “V (Island Song)” le gemme assolute dell’album.
6
KANYE WEST - Yeezus
Il genere non ci fa strepitare, ma come si può definire il genere di un disco come “Yeezus”: un sound più minimale rispetto al passato, ripulito e portato all’essenziale, quasi sperimentale; tracce di psichedelica e di suoni sixties - addirittura un sample di “Strange fruit”, nella versione di Nina Simone; ospiti illustri come Frank Ocean e Justin Vernon - aka Bon Iver -, tra i nostri preferiti.
E un diluvio di fuck: “Fuck you and your corporation/Y’all niggas can’t control me”, che nemmeno il Grande lebowski.
Insomma, lui è davvero gradasso (“I am God” (featuring God), “I just talked to Jesus, he said, ‘what up Yeezus?’” – oppure: "Ora, faccio solamente ciò che voglio, quando voglio, come cazzo voglio. Vaffanculo è il mio messaggio"), però è impossibile non ammettere che è proprio bravo.
(Fuck).
5
BILL CALLAHAN - Dream river
MARK KOZELEK & DESERTSHORE - Mark Kozelek & Desertshore
Chi ha detto che non nascono più grandi cantautori?
Bill Callahan, ad esempio, è uno di quelli che in futuro potrebbe essere affiancato a Cohen, Waits, Newman, Dylan…
L’ex leader degli Smog ha un magnifico timbro vocale, quasi baritonale, con il quale interpreta in modo personale e sofisticato le sue canzoni quiete, minimali, notturne. Canzoni che parlano della grande periferia americana, di praterie sconfinate e di motel fatiscenti, di lunghe strade che si perdono all’orizzonte e di pickup sgangherati. Canzoni che narrano di solitudine e paura, di angoscia e alienazione.
Prolifico come pochi, l’ex Red House Painters e Sun Kil Moon è uscito nel 2013 addirittura con due album. Il più notevole nasce dalla sua collaborazione con i Desertshore. Qui l’atmosfera è meno rilassata e più elettrica, il tono meno monocorde, c’è spazio per cambi di ritmo e divagazioni.
4
ARCTIC MONKEYS - AM
La band di Sheffield abbandona l’indie degli esordi ed emigra in America. Il suono ora è più maturo, scarno ed essenziale, la scrittura è più complessa.
L’album si apre con una spettacolare doppietta, “Do I wanna Know?” e “R U Mine?” - due domande, come a dire, risposte non ne abbiamo – e si chiude con una mielosa “Mad sounds” che termina in un Ullallà-ù di cui le scimmie sembrano non avere vergogna, a dimostrazione di una maturità raggiunta.
(Chissà cosa ne penseranno i fan della prima ora, quelli del clubbing più duro).
3.
NICK CAVE & THE BAD SEEDS - Push the sky away
Era dai tempi del bellissimo “No More Shall We Part” che l’artista australiano non trovava una simile ispirazione.
“Push the Sky Away”, quindicesimo album ufficiale del nostro con i Bad Seeds (che nel frattempo hanno perso Bargeld e Harvey, ma ritrovato Adamson), è un clamoroso ritorno alle atmosfere languide e rarefatte dei suoi capolavori.
2.
JAMES BLAKE - Overgrown
“Overgrown” (ovvero: cresciuto troppo, o troppo alla svelta - Blake è del 1988) è il significativo titolo del nuovo lavoro di questo enfant prodige della scena dubstep londinese.
Una voce emozionante, struggente, matura e personale. Brani minimali e aspri, quasi spettrali, e poche concessioni a ritmi più sincopati e a un’elettronica house.
Un nuovo grandissimo cantautore. Un esploratore delle più intime emozioni, con squarci di luce pura. Quasi sacra.
1
ARCADE FIRE - Reflektor
“Reflektor” non e’ il disco dance della straordinaria band di Montreal, Canada.
E’ molto di più.
C’è più ritmo, e c’è un’atmosfera più serena e rilassata rispetto agli esordi, forse per merito del clima caraibico della Giamaica, dove il disco è stato registrato, e di Haiti, paese di provenienza di Régine Chassagne. Loro stessi ammettono: “Ci piace ballare, ma la musica dance è così stupida”. La co-produzione di Murphy degli LCD Soundsystem ha fatto il resto. C’è più glam, e lo stesso Win Butler appare sempre più consapevole del suo ruolo di star internazionale. Ci sono infine i rimandi letterari - il mito di Orfeo, Camus - e alla scultura di Rodin.
C’è, soprattutto, l’ambizione di voler dimostrare a tutti la propria forza.
Pronti a entrare nell’olimpo dei grandi.
ATOMS FOR PEACE - Amok
Snobbata dalla critica, la nuova band di Thom Yorke (Radiohead) propone un’elettronica d’avanguardia, in cui - rispetto al recente passato - appare più solida la base ritmica. La monolitica continuità dell’album è interrotta da episodi notevoli quali “Stuck together pieces”, il singolo (atipico, come singolo) “Judge jury and executioner” e “Unless”, il manifesto della nuova stagione della disillusione: ”Non me ne potrebbe fregare di meno”.
24
DAFT PUNK - Random Access Memories
DISCLOSURE - Settle
Ecco invece due dischi sopravvalutati.
Il caso più clamoroso è quello del duo parigino dei Daft Punk, incensati da VIP, gente comune e nostalgici della disco ‘80. Moroder addirittura in un cameo parla di “the sound of the future”. A noi invece sembrano a volte una stanca riedizione dei Kraftfwerk, e il loro suono metallico pare la colonna sonora di vecchi videogames come Nibbler o Donkey Kong. I pezzi più belli, le collaborazioni con Panda Bear e Gonzales.
Molte parole si sono fatte anche per il debutto dei londinesi Disclosure. In patria sono i nuovi idoli della scena underground danzereccia. Tre-quattro cose da ricordare, come “When a fire start sto burn”, “Latch” e “January”. E, anche qui, tante cose già sentite altrove.
23
DAUGHTER - If You Leave
Incidono per la 4AD, sinonimo di garanzia. Siamo in territori dark, musica da camera scarna, tormentata e delicatamente malinconica, testi poco allegri (eufemismo) e claustrofobici ("Fin dall’infanzia sono preda della forza di un’orribile malinconia, la cui profondità trova la sua vera espressione nella corrispondente capacità di nasconderla sotto apparente serenità e voglia di vivere").
Riferimenti del nuovo millennio: St.Vincent, Soap&Skin, Bon Iver, XX.
22
PEARL JAM - Lightning Bolt
Il solito disco onesto dei Pearl Jam.
21
DEPECHE MODE - Delta machine
La band di Gore recupera le sonorità cupe e claustrofobiche di uno splendido passato (“Black celebration” e “Songs of faith and devotion”), ammiccando alle atmosfere dark anni ’80 e al minimalismo tech della nuova scena elettronica (Autechre, Four Tet, Seefeel).
Quello che colpisce è la perfezione quasi assoluta del sound.
20
DAVID BOWIE - The Next Day
Un nuovo giorno. Partire dal (glorioso) passato e guardare al futuro.
Un Bowie in gran forma.
19
NATIONAL - Trouble Will Find Me
Ripetersi senza ripetersi è sempre difficile.
Tuttavia, la loro raffinata miscela di post-punk, canzone d’autore e rock intellettuale (Joy Division, Leonard Cohen, Nick Cave, Tindersticks) pur non essendo rivoluzionaria funziona sempre alla grande.
18
DEERHUNTER - Monomania
Non può essere eletto capolavoro di una carriera ormai decennale, ma “Monomania” è un concentrato di sonorità made in USA: echi lontani dei Sessanta (Love, Byrds), il lo-fi psichedelico a là Flaming Lips e Sebadoh, il Beck più casinista e artistoide, addirittura il garage degli Stooges (e dei Fall di Mark E Smith).
17
FOALS - Holy fire
Uno dei gruppi inglesi più interessanti degli ultimi tempi, almeno per chi scrive, amante del prog-rock (King Crimson, i primi Genesis, i Van der Graaf) e della scuola di Canterbury (e qui troviamo rimandi all’opera del maestro Bob Wyatt). Ascolto più che gradevole, sul quale spiccano almeno due gemme come “Bad Habit” e la minimale “Stepson”, ballata ipnotica e ripetitiva, oltre al singolo “Inhaler” - che ricorda i Jane’s Addiction.
16
DELOREAN - Apar
Arrivano dai Paesi Baschi e prendono il nome dalla macchina del tempo di “Ritorno al Futuro”.
Suonano un dreampop di gran classe.
15
IRON & WINE - Ghost on ghost
JOHN GRANT - Pale Blue Ghosts
Ovvero: Fantasmi 2.0
Abbandonato il folk da strada degli esordi, Iron&Wine prosegue il suo percorso verso un sound ricco ed elegante, jazzato, con riferimenti come Donald Fagen e Paul Weller, Calexico e Paul Simon.
Ex-leader degli Czars, Grant si era appena messo alle spalle una fase a dir poco turbolenta della sua vita quando scopre di essere sieropositivo. Smarrite le ultime, poche, certezze, da alle stampe il suo secondo album solista: discontinuo, cupo, drammatico, a tratti ancora magico.
14
MY BLOODY VALENTINE - MBV
Capostipiti della scena shoegaze, gli irlandesi tornano dopo ben 22 anni: è subito trionfo di critica e pubblico.
Meritatissimo.
“MBV” riprende il filo interrotto, costruendo muri di chitarre elettriche e di feedback a fare da sfondo a melodie eteree e ipnotiche.
13
ANNA CALVI - One breath
JULIA HOLTER - Loud city song
Le donne dell’anno.
Per la prima, autrice inglese di origini italiane, è stato scomodato Jeff Buckley.
Per la seconda, dal Michigan, addirittura Robert Wyatt.
Curiosi?
12
GOLDFRAPP - Tales of us
Nativa del Middlesex, Alison Goldfrapp è la splendida voce dell’omonimo duo, da sempre avvicinato dalla critica alla scena di Bristol.
Dopo un lungo silenzio, “Tales of us” è, più che una collezione di brani musicali, una vera e propria raccolta di racconti, dieci tracce dedicate ad altrettanti personaggi.
Musica da camera, senza tempo.
11
FUCK BUTTONS – Slow focus
DARKSIDE - Psychic
A Bristol fanno stanza anche i Fuck Buttons, autori di straordinarie cavalcate elettroniche.
I loro fottuti bottoni ci regalano strumentali tra la psichedelica e il krautrock, con echi dreamy e di danze tribali.
Colonna sonora di un futuro alle porte.
Notevole anche il disco dei Darkside:
Ambient? Elettronica d’avangiardia? Chambertronica?
Al diavolo le etichette, lasciatevi conquistare dai suoni e dalle atmosfere del nuovo progetto di Nicholas Jaar.
10
MUM - Smilewound
I Mum sono noti per la bizzarria degli arrangiamenti, un mix ben amalgamato tra tecnologia digitale e strumenti tradizionali, alcuni recuperati alle fiere locali del vintage.
La loro è una musica fiabesca, quasi in sospensione, una psichedelia minimale e misurata come solo dei gentili ragazzi del Nord Europa - vengono dall’Islanda - possono immaginare.
9
MASSIMO VOLUME - Aspettando i barbari
A distanza di ormai vent’anni dalle prime folgoranti poesie in musica, i bolognesi Massimo Volume riescono ancora a stupire e a emozionare.
Le liriche di Clementi sono di alto livello – “Ora che la sera/Accorcia le ombre/Noi ci ritiriamo/E di fronte allo specchio/Come spose/Ci acconciamo/In onore dei barbari” – manifesto impietoso di un tempo corrotto come il nostro.
8
VAMPIRE WEEKEND - Modern vampire of the city
Ne abbiamo spesso parlato male, in passato. Li avevamo accusati di non volere crescere. E invece i ragazzi newyorchesi sono diventati grandi, ma grandi davvero. Un bel passo in avanti per un disco godibile: il migliore pop in circolazione.
7
THESE NEW PURITANS - Field of reeds
Altra band sperimentale e assai interessante, i These New Puritans arrivano da Southend-on-Sea.
Il loro terzo album è lontano dalla nu-wave degli esordi, e suona come un meraviglioso post-rock espressionista e quasi dark, con orchestrazioni raffinate e minimali.
“Fragment Two” e “V (Island Song)” le gemme assolute dell’album.
6
KANYE WEST - Yeezus
Il genere non ci fa strepitare, ma come si può definire il genere di un disco come “Yeezus”: un sound più minimale rispetto al passato, ripulito e portato all’essenziale, quasi sperimentale; tracce di psichedelica e di suoni sixties - addirittura un sample di “Strange fruit”, nella versione di Nina Simone; ospiti illustri come Frank Ocean e Justin Vernon - aka Bon Iver -, tra i nostri preferiti.
E un diluvio di fuck: “Fuck you and your corporation/Y’all niggas can’t control me”, che nemmeno il Grande lebowski.
Insomma, lui è davvero gradasso (“I am God” (featuring God), “I just talked to Jesus, he said, ‘what up Yeezus?’” – oppure: "Ora, faccio solamente ciò che voglio, quando voglio, come cazzo voglio. Vaffanculo è il mio messaggio"), però è impossibile non ammettere che è proprio bravo.
(Fuck).
5
BILL CALLAHAN - Dream river
MARK KOZELEK & DESERTSHORE - Mark Kozelek & Desertshore
Chi ha detto che non nascono più grandi cantautori?
Bill Callahan, ad esempio, è uno di quelli che in futuro potrebbe essere affiancato a Cohen, Waits, Newman, Dylan…
L’ex leader degli Smog ha un magnifico timbro vocale, quasi baritonale, con il quale interpreta in modo personale e sofisticato le sue canzoni quiete, minimali, notturne. Canzoni che parlano della grande periferia americana, di praterie sconfinate e di motel fatiscenti, di lunghe strade che si perdono all’orizzonte e di pickup sgangherati. Canzoni che narrano di solitudine e paura, di angoscia e alienazione.
Prolifico come pochi, l’ex Red House Painters e Sun Kil Moon è uscito nel 2013 addirittura con due album. Il più notevole nasce dalla sua collaborazione con i Desertshore. Qui l’atmosfera è meno rilassata e più elettrica, il tono meno monocorde, c’è spazio per cambi di ritmo e divagazioni.
4
ARCTIC MONKEYS - AM
La band di Sheffield abbandona l’indie degli esordi ed emigra in America. Il suono ora è più maturo, scarno ed essenziale, la scrittura è più complessa.
L’album si apre con una spettacolare doppietta, “Do I wanna Know?” e “R U Mine?” - due domande, come a dire, risposte non ne abbiamo – e si chiude con una mielosa “Mad sounds” che termina in un Ullallà-ù di cui le scimmie sembrano non avere vergogna, a dimostrazione di una maturità raggiunta.
(Chissà cosa ne penseranno i fan della prima ora, quelli del clubbing più duro).
3.
NICK CAVE & THE BAD SEEDS - Push the sky away
Era dai tempi del bellissimo “No More Shall We Part” che l’artista australiano non trovava una simile ispirazione.
“Push the Sky Away”, quindicesimo album ufficiale del nostro con i Bad Seeds (che nel frattempo hanno perso Bargeld e Harvey, ma ritrovato Adamson), è un clamoroso ritorno alle atmosfere languide e rarefatte dei suoi capolavori.
2.
JAMES BLAKE - Overgrown
“Overgrown” (ovvero: cresciuto troppo, o troppo alla svelta - Blake è del 1988) è il significativo titolo del nuovo lavoro di questo enfant prodige della scena dubstep londinese.
Una voce emozionante, struggente, matura e personale. Brani minimali e aspri, quasi spettrali, e poche concessioni a ritmi più sincopati e a un’elettronica house.
Un nuovo grandissimo cantautore. Un esploratore delle più intime emozioni, con squarci di luce pura. Quasi sacra.
1
ARCADE FIRE - Reflektor
“Reflektor” non e’ il disco dance della straordinaria band di Montreal, Canada.
E’ molto di più.
C’è più ritmo, e c’è un’atmosfera più serena e rilassata rispetto agli esordi, forse per merito del clima caraibico della Giamaica, dove il disco è stato registrato, e di Haiti, paese di provenienza di Régine Chassagne. Loro stessi ammettono: “Ci piace ballare, ma la musica dance è così stupida”. La co-produzione di Murphy degli LCD Soundsystem ha fatto il resto. C’è più glam, e lo stesso Win Butler appare sempre più consapevole del suo ruolo di star internazionale. Ci sono infine i rimandi letterari - il mito di Orfeo, Camus - e alla scultura di Rodin.
C’è, soprattutto, l’ambizione di voler dimostrare a tutti la propria forza.
Pronti a entrare nell’olimpo dei grandi.
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