sabato 22 maggio 2010

3+3=6


E’ un periodo di collaborazioni inaspettate e contaminazioni feconde.
Ben vengano, in un periodo come questo, in ultima analisi caratterizzato dall’assenza di album indimenticabili, di quelli da portarsi dietro in una fantomatica isola deserta (che poi magari arrivi là per ascoltarti in santa pace, che so, “Rock Bottom” di Robert Wyatt o “Blonde On Blonde” di Bob Dylan, e improvvisamente piombano lì, a romperti i coglioni, Daniele Battaglia - chi cazzo sarà mai, poi, Daniele Battaglia? - e Aldo Busi, Massimo Ciavarro o Giucas Casella).

L’ex-leader dei Talking Heads non è certo nuovo a questo tipo di scommesse: basti qui ricordare il seminale My Life In The Bush Of Ghost, inciso con Brian Eno (ovvero: l’incontro di due geni musicali che dà vita a un autentico capolavoro) e i lavori con Mogway, Paul Simon e Ruicky Sakamoto.
Con il celebre Dj inglese (al secolo Norman Quentin Cook) ed ex-membro degli Housemartins, egli costruisce un vero e proprio concept album ("Here Lies Love"), ovvero un ciclo di canzoni dedicate alla controversa figura di Imelda Marcos, amante della bella vita e vedova dell'ex-dittatore delle Filippine, già portato a teatro sotto forma di musical a partire dal 2007. Album sovraccarico e tutto sommato un po’ faticoso: ci sono la dance, il funk elettronico degli esordi, gli ovvi aromi sudamericani, e anche inutili barocchismi; soprattutto, una serie impressionanti di vocalists femminili che, pazientemente in attesa del loro turno, danno voce a Imelda e alle altre donne importanti della sua vita: Natalie Merchant, Cindy Lauper, Tori Amos, Martha Wainwright, Kate Pierson dei B52’S, Florence & The Machine.

Dopo dodici anni alla guida degli Amparanoia, la cantante Andalusa Amparo Sánchez intraprende la carriera solista chiedendo aiuto ai Calexico, ai quali ella aveva prestato la sua splendida voce in Inspiración (sull’album "Carried to Dust"). Il risultato non poteva che essere eccellente: "Tucson Habana" è un disco elegante e raffinato, caldamente consigliato anche dall’amico Big, con una malinconica atmosfera latina appena venata da accenti jazz e blues, e – sullo sfondo – il riconoscibile contributo dei maestri Burns e Convertino, rispettivamente alla batteria e alla chitarra.

Ma la palma del connubio piu’ inedito e sorprendente se la guadagnano i bravi Okkervil River di Will Sheff, qui ad accompagnare il clamoroso rientro – dopo quindici anni di silenzio, caratterizzati da tragedie personali e da un profondo travaglio interiore - di Roky Erickson, ex-leader (è tutta una parata di ex…) della garage-band californiana dei 13th Floor Elevators (come non ricordare You’re Gonna Miss Me?, uno dei brani migliori dell’esaltante stagione dei Sixties).
Sheff, con un lavoro di ascolto certosino, ha scelto una manciata di brani tra gli oltre cento composti dal suo vecchio idolo, e si è offerto di accompagnarlo con la sua band per una rivisitazione di alto livello, tendenzialmente lo-fi, con echi di psichedelia, rithm’n blues e hard-rock.

Giovanni Battista Menzani
www.cjmoleskine.blogspot.com

domenica 16 maggio 2010

sabato 15 maggio 2010


Il colore viola del titolo raffigura alla perfezione il romanticismo tenebroso e crepuscolare della band newyorkese (originaria di Cincinnati, Ohio), con il passar del tempo assurta – al pari dei concittadini Interpol, il cui atteso nuovo disco è previsto a breve - da icona indie a “classico” del nuovo rock made in U.S.A.
Dare un seguito allo splendido e fortunatissimo Boxer (2007: con perle quali Mistaken For Strangers e Fake Empire, utilizzata da Obama per la campagna presidenziale del 2008) era un’impresa alquanto ardua.
I National – al debutto sulla storica label 4AD - optano per una linea di sostanziale continuità, con la consueta, raffinata miscela di post-punk, canzone d’autore e rock intellettuale (Joy Division, Leonard Cohen, Tindersticks), e per questo motivo non mancheranno di essere accusati di scarso coraggio: scelgono cioè di non voler tentare forzatamente la strada del nuovo, della sperimentazione, con il rischio di dar vita a creature incompiute o pasticciate (l’ultimo Editors, ad esempio).
Tuttavia, rispetto al recente passato, il loro sound appare talvolta meno claustrofobico e teso, e vira verso suoni e arrangiamenti piu’ ariosi e sofisticati, addirittura epici (Little Faith, England).
L’album si apre laddove i fratelli Dessner e Deavevano lasciato, con l’atmosfera cupamente dark di Terrible Love, le chitarre abrasive e la voce lamentosa del barbuto Matt Berninger (oltre a lui, la band è formata da una doppia coppia di fratelli: Aaron e Bryce Dessner; Scott e Bryan Devendorf) a tenere banco; l’opener track è, insieme al primo singolo Bloodbuzz Ohio, tra i brani maggiormente in linea con i fasti di Boxer.
Sorrow è invece la prima – in ordine temporale - di una serie di ballate malinconiche e struggenti (la bellissima Runaway – originariamente intitolata Karamazov e dedicata a Dostoyevsky - Lemonworld con quell’irresistibile coda: D-D-D-D-D-D-D-D, oltre alla conclusiva Vanderlyle Crybaby Geeks) che confermano il loro mestiere.
Chi ne avesse voglia, può cercare sul tubo la loro recente esibizione al Letterman Show (puntata del 13.05.10): hanno eseguito la languida Afraid Of Everyone con la partecipazione straordinaria di Sufjan Stevens per il backing vocals.

venerdì 14 maggio 2010

Cancrena, 05


In piedi vicino alla finestra della mia stanza da letto, raschiarata dalla luce di una vecchia lampada al kerosene, intravvedo il leggero pendio del prato e, poco oltre, un timido raggio di sole finalmente squarciare il tetro sipario di nuvole nere - finalmente una tregua.
Ho quasi finito di preparare i miei bagagli.
Non è una cosa facile: riporre le mie cose nelle valigie mi provoca emozioni intense, la mente si riempe di ricordi indelebili.

I nipoti del vecchio si presentarono - in formazione completa - per il giorno delle esequie. Impettiti e spocchiosi, nei loro abiti scuri da funerale.
Ricordo il silenzio che precedette la sepoltura. Il vento tirava violento sino a spazzare le cime dei cipressi del viale del piccolo camposanto.
La cerimonia fu dignitosa, considerate come si erano messe le cose all'inizio.
Il giorno successivo al decesso, quei maledetti avevano battuto il territorio per chiese e cimiteri, alla ricerca del conto piu' basso. Con questa crisi, persino i preti si fanno la guerra e noi dobbiamo aprofittarne, si dicevano tra loro mentre misuravano a passi la stanza del vecchio ormai senza vita. Un parroco di pianura offrì loro persino un comodo pagamento rateale, e una tessera a punti, valida anche per battesimi, comunioni, cresime e matrimoni: alla decima cerimonia avevi diritto a un'undicesima gratis.
Uomini che non conoscono la vergogna.

Fu allora che mi impuntai, e pretesi di seppellire il vecchio qui, nella sua terra, tra la sua gente.

Alla fine era venuto il momento di fare i conti.
L'appuntamento dal notaio fu fissato venti giorni esatti dopo il funerale.
Un nipote ragioniere era stato eletto il portavoce degli eredi. Era un tipo agguerrito, con un completo nuovo acquistato all'ipermercato e un foulard di seta nel taschino del gilet. Nervosamente, si rigirava tra le dita un piccolo codice di leggi, sul quale aveva appuntato una serie di segnalibri colorati. Al suo fianco erano schierati gli altri nipoti, con le loro consorti dal trucco un pò pesante.
Dall'altra parte del grande tavolo di legno massiccio, io sola. Cominciarono a tremarmi le gambe.
Il notaio, un omuncolo basso e secco con evidenti problemi di forfora, aprì la cassaforte, estrasse i documenti e, senza troppi preamboli, lesse con un filo di voce le estreme volontà del decujus, scandendo il ritmo con una serie infinita di omissis.

Il testamento del vecchio mi escludeva in modo definitivo.
Le sue proprietà spettavano ai suoi nipoti, suoi legittimi eredi, che adesso sembravano decisamente piu' sollevati e annuivano con la testa alla lettura del documento.

Eppure il vecchio...
Ti lascio questa vecchia casa, mi aveva detto in tono solenne nemmeno un mese prima, tu sei l'unica che puo' ancora evitarle una fine rovinosa e senza gloria.
Io mi ero buttata in lacrime ai suoi piedi: sentivo di non meritarlo.
Lui mi aveva accarezzato i capelli, sottili e castani come quelli di mia madre, che li raccoglieva sempre all'indietro in una lunga coda sin'oltre le scapole e la schiena, e mi aveva comandato di rialzarmi in piedi.
Non piagnucolare così, Cristo, aveva detto, mi fai venire voglia di cambiare idea.

E io lo so, che il vecchio non ha cambiato idea.

(Il parroco mi aveva avvertito. Mi aveva detto di non coltivare grandi aspettative. Sospettava che il notaio si sarebbe accordato con i parenti e che avrebbe fatto sparire l'originale del testamento, sostituendolo con un altro contraffatto ad arte. Sono cose che succedono, da queste parti, mi aveva detto sconsolato).

Sì, le cose dovevano essere andate così.
E così rimasi senza nulla (ma nulla meritavo).

Un'uggiosa mattina di ottobre ricevetti dalle mani del postino una raccomandata. Mentre firmavo l'avviso di ricevimento, lessi l'indirizzo del mittente in calce alla busta bianca e immacolata: erano loro.
Senza tanti preamboli, mi ringraziavano del lavoro svolto al servizio del loro amato nonno e mi lasciavano una settimana di tempo per far su le mie cose e lasciare la casa.
Temevano che io decidessi di rimanere quì ancora del tempo, che occupassi questa casa in modo abusivo, e quindi fecero sparire tutti i documenti e tutte le bollette e chiamarono dei tecnici per disdire i contratti del gas e della corrente elettrica.
Fecero murare l'ingresso del locale caldaia.
Fecero mettere dei piombini sui contatori della corrente elettrica.
Fecero tagliare i tubi del gas.

Prima di andare a dormire, mi sciacquo le ascelle con l’acqua gelida del fontanazzo giù in cortile, quello con la vasca in graniglia e il rubinetto di bronzo a forma di testa d'aquila.
Al buio, asciugo i capelli appoggiandoli con cautela alla vecchia stufa di ghisa, e intanto osservo la credenza con gli sportelli di vetro colorato, la credenza sulla quale il vecchio aveva attaccato con il nastro adesivo le fotografie della sua famiglia: riunioni di famiglia, ritratti di uomini e donne con l'abito della festa, scatti sfocati di bambini appena nati, gruppi chiassosi di ragazzi vestiti da piccoli ometti.
Mi avvicino e le osservo con attenzione, ancora una volta, assaporando ogni immagine e ogni ricordo come se quelli fossero ricordi miei, i ricordi della mia vita.
Strano, penso allora, di fotografie mie e della mia famiglia non ne conservo neppure una.

Fuori, cade ancora la pioggia.

mercoledì 12 maggio 2010


Frettolosamente catalogato nella categoria “Folk Inglese”, o Psych-Folk, questo debutto omonimo degli Erland & The Carnival è un’autentica rivelazione.

La stravagante band è composta da Erland Cooper, cantautore originario delle Isole Orcadi (Scozia), da Simon Tong (ex The Verve, The Good, The Bad & The Queen) e David Nock (The Orb, Fireman) e si è ispirata – nella scelta del nome - al compositore jazz Jackson C. Frank e alla sua My name is Carnival, la cui notevole cover è stata inserita nella tracklist dell’album.

Abilissimi nel mischiare i generi e le influenze piu’ disparate – tutto in un frullatore: organetti a là Doors; la psichedelia ’70: Love, Kaleidoskope; echi Pink Floyd prima maniera; il folk inglese ‘60/’70: Pentangle, Fairport Convention; il country sinfonico di Ennio Morricone, sempre piu’ di moda negli ultimi tempi – gli E&TC ripropongono un repertorio di brani tratti dalla tradizione folkloristica d'oltremanica (su tutte: l’ottima Was You Ever See, Love Is A Killing Thing; One morning fair, classico gallese qui in chiave rock; Tramps And Hawkers, che riporta alla mente addirittura il primo Tim Buckley - quello di Hallucinations, per intenderci), rivisitati con sbalorditiva intensità, originalità e freschezza.

A questo aggiungono alcune perle d’autore: la ballata fricchettona Disturbed This Morning, la lisergica The Echoing Green e The Sweeter The Girl The Harde, un garage che recupera una meravigliosa e scanzonata atmosfera sixties, tanto che non avrebbe certamente sfigurato nella mitica raccolta Nuggets.

Infine, Trouble In Mind, ovvero uno straordinario pezzo di indie-pop che – in un paese normale – sarebbe puntualmente in testa alle classifiche e alle heavy rotation di radio e tv.

Per noi di PiacenzaSera, Erland & The Carnival si inserisce di prepotenza nella lista dei migliori album di questo inizio di 2010.
E potrebbe restarci a lungo.

venerdì 7 maggio 2010


Ancora il Canada sugli scudi.

Dallo sterminato paese al nord degli USA – popolato, a giudizio degli yankees, da boscaioli dalla barba lunga dediti all’abuso di alcol e di sciroppo d’acero (l’ho assaggiato in una stanza d’albergo a Toronto, è terribile) – arrivano due nuovi album degni della nostra attenzione.

I Woodpigeon (ancora il nome di un uccello, come nel caso degli ottimi Shearwater, recensiti qualche tempo fa su PcSera) sono un collettivo che arriva da Calgary, cittadina altrimenti nota per le recenti Olimpiadi invernali.

La loro terza fatica, intitolata Die Stadt Muzikanten, è una buona raccolta di canzoni folk prevalentemente acustico a là C.S.N.&Y. (la title-track, Empty-Hall Sing-Along, Morningside), anche se non mancano improvvise accelerazioni elettriche (Such A Lucky Girl, Duck Duck Goose).

Purtroppo per noi, solamente per il mercato giapponese e per i primi acquirenti on-line dell’album, è stato offerto un album di dodici bonus track registrate con l’onnipresente Steve Albini, contenente una sequenza (sembra…) di brani grintosi e robusti, come da tradizione del vecchio Steve, e assai differenti dallo stile dell’album.

I Thee Silver Mt. Zion, da Montreal, sono invece una costola – o side-project – dei piu’ celebri Godspeed You Black Emperor!, alfieri post-rock, a giudizio di scrive uno dei progetti piu’ significativi, in assoluto, del decennio scorso.

L’opener There Is A Light e la conclusiva Piphany Rambler sono due lunghe suite che ripropongono il prog dilatato e magniloquiente tipico della casa madre.

I Built Myself A Metal Bird, invece, è un episodio decisamente piu’ ruvido, con il canto sincopato di Efrim in puro stile Pere Ubu.

Infine c’è spazio per una sequenza di brani piu’ rilassati e ipnotici, arrangiati con un proluvio di archi e chitarre, pensati come ipotesi diverse da svilupparsi a partire dallo stesso concetto: Kollapz Tradixional (Thee Olde Dirty Flag), Collapse Traditional (For Darling) e Kollaps Tradicional (Bury 3 Dynamos).

martedì 4 maggio 2010