domenica 20 dicembre 2009

Il pagellone del 2009


1. ANTONY & THE JOHNSONS – The Crying Light
Dopo i fasti estivi con la dance degli Hercules And Love Affair e la sontuosa collaborazione con Bjork, Antony ritorna con un’opera che abbandona arrangiamenti pop e melodie facili per recuperare una dimensione prettamente cantautoriale.
Il disco contiene dieci meravigliose e delicatissime ballate pianistiche nelle quali ancora una volta emergono la sua intensa classe, la sua profonda spitualità, la sua inquietante drammaticità, e infine il suo splendido timbro vocale, quasi da baritono, per il quale è difficile trovare riferimenti o paragoni.
Per Diamanda Galas, “ogni emozione nel pianeta è in quella sua voce meravigliosa”.
Anche se, forse, lui è proprio di un altro pianeta…


2. EELS – Hombre Lobo
Di giorno, Mr. E compone ballate acustiche di rara intensità, come da copione classico.
Di notte, invece, il nostro - già in copertina in versione licantropo con una strepitosa e fottutissima barba – incide con straordinaria irruenza una serie di brani piu’ cazzuti, ruvidissimi, quasi hard: pezzi registrati in presa diretta, senza sovraincisioni, nel suo scantinato; suonano infatti davvero al limite del lo-fi (Beck), quasi come un bootleg di bassa qualità, oltre a essere tempestati da ululati famelici alla Stooges o alla Suicide.
E’ un tipo così, Mr. E.
Un genio stampalato e persino un po’ disadattato, talmente estraneo alle logiche dello show-biz. E’ per questo che lo seguiamo sempre con maggiore affetto.


3. SOAP&SKIN – Lovetune For Vacuum
Il popolo indie ha (forse) trovato l’erede di Antony & the Johnsons.
Per la verità, con il talentuoso newyorchese questa ex-bambina prodigio di soli diciannove anni - cresciuta in un piccolo villaggio di allevatori di mucche della Stiria (Austria) e il cui vero nome è Anja Plaschg - condivide solamente una voce fuori dal comune, eterea e terrificante, un total-look piuttosto dark - viso tumefatto e pallido, abiti neri, sguardo inquietante - e una certa aura da artista maledetta, perennemente in preda a un grande tormento interiore.
Il suo album di debutto è oscuro, tetro, profondamente malinconico. Interprete sensibile e terribilmente matura, Soap&Skin stupisce per la sua grande potenza espressiva e per i suoi testi intrisi di ingenuo romanticismo.

4. DINOSAUR Jr - Farm
Poche storie: “Farm” è un album bellissimo, ancor piu’ bello perché non ce lo aspettavamo proprio, dopo le scottanti delusioni della loro piu’ recente discografia.
I dinosauri sono tornati con la consueta prepotenza e con gli ingredienti che li hanno resi grandi: solidi muri di chitarrone e scariche violente di amplificatori nascondono melodie piacevoli, rese talvolta struggenti dalla voce trascinata di un J. Mascis indolente e apparentemente svogliato come ai bei tempi.
Con “Farm” sfiorano il podio e battono, nella categoria dei superclassici, Pearl Jam di “Backspacer” e i Sonic Youth di “The Eternal”.
PS: Inutile lamentarsi che i dischi dei Dinosaur Jr sono tutti uguali. Loro sono i soliti cazzoni: prendere o lasciare.

5. THE DUCKWORTH LEWIS METHOD – The Duckworth Lewis Method
Il nuovo progetto dell’irlandese Neil Hannon - già leader dei Divine Comedy - e di Thomas Shaw - leader dei Pugwash - è un grottesco concept album sul gioco piu’ tradizionale ed esclusivo per gli inglesi, il cricket, del quale il Ducwworth Lewis rappresenta un complicato metodo algoritmico per calcolare il punteggio di una partita interrotta causa maltempo.
Leggerezza e ironia, eleganza innata e humour in stile british, pop cristallino e allegria scanzonata: questo album potrebbe essere un’ottima colonna sonora di Little Britain o, ancor meglio, di Monty Pithon.

6. ANIMAL COLLECTIVE - Merriweather Post Pavilion
Strani personaggi, quelli del Collettivo, la cui carriera artistica è legata in modo indissolubile alla scena alternativa-sperimentale di New York.
Il folk bucolico e un po’ freak degli esordi lascia ora spazio a nuovi scenari elettronici, tutt’altro che convenzionali, che si esplicitano in un autentico magma sonoro, ovvero un flusso continuo e ininterrotto di melodie acide e trip stranianti, la cui base ritmica è spesso costituita da rumorismi primitivi e da tappeti di percussioni tribali.
(Santo Cielo, ma cosa ho scritto?)

7. HOPE SANDOVAL - Through The Devil Softly
La voce suadente e sensuale della cantante di origine messicana, ex-leader dei Mazzy Star, è il valore aggiunto di questo “Through The Devil Softly”, che sin dal titolo e dal nome della band che la accompagna (The Warm Invenctions) si preannuncia un ascolto caldo e soffice.
L’ideale per queste gelide notti d’inverno.

8. MUMFORD&SONS – Sigh No More
La capitale inglese, non appena ci si allontana dal sound ormai appiattito del cosiddetto revival wave, offre nuovi spunti interessanti.
Tra le bands della nuova scena folk (vedi anche: The Leisure Society, Fanfarlo), i Mumford&Sons debuttano sulla lunga distanza attingendo a un repertorio classico e tradizionale e - pur non brillando per originalità – muovendosi con mestiere tra intonazioni gospel e pezzi piu’ festaioli e spensierati (con dosi massicce di banjo e mandolino) per i quali sono stati scomodati Pogues e Waterboys.

9. KINGS OF CONVENIENCE - Declaration Of Dependance
Per il duo di Bergen (Norvegia) si tratta de “il disco pop più ritmico che sia mai stato fatto senza percussioni né batteria”.
I pionieri del cosiddetto “New Acoustic Movement” ci regalano un’altra bellissima collezione di malinconiche ballate a là Simon&Garfunkel, in cui trovano spazio atmosfere pacate e intimiste, alcuni rimandi alla scena cool londinese anni ’80 (Style Council, Everything But The Girl) e i consueti arrangiamenti scarni ed essenziali.

10. THE DECEMBERISTS – The Hazards Of Love
Un altro disco dalla chiara ispirazione progressive (sempre sia lodato il prog-rock!).
Il nuovo lavoro della band di Portland, Oregon, è così ricco di improvvise accelerazioni e di continui cambi di ritmo da riportare alla mente i Jethro Tull di “Acqualung”.
Concepito inizialmente come musical, “The Hazards Of Love” è una rock-opera di vecchio stampo, che rinnova la tradizione inaugurata da capolavori come “Tommy” e “Quadrophenia” dei Who e “Arthur” dei Kinks.


11. EDITORS – In This Light And On This Evening

Il classico bicchiere mezzo vuoto.
Le aspettative sul nuovo, terzo album degli Editors erano molto alte, e dunque è lecito essere piuttosto delusi e persino rammaricati dalla deriva sinfonica di "In This Light And On This Evening", dove le consuete e cupe atmosfere dark-wave vengono innaffiate da un proluvio di tastiere e sintetizzatori anni '80 (Depeche Mode/Ultravox/Human League), ovvero un'inutile e monumentale - a volte persino stucchevole - sovrastruttura sintetica.
Come quando i Joy Division - dopo la morte di Ian Curtis – diventarono i New Order (noi, e´ovvio, preferiamo i primi).

12. BRUCE PENINSULA – A Mountain Is A Mouth
Mentre i capofila Arcade Fire sono ormai assurti a icona dell’indie-pop internazionale piu’ intelligente e raffinato, dal Canada arrivano numerose altre buone notizie, tra le quali questo eclettico e bizzarro ensemble che ci regala un pop quasi chiesastico, con imponenti cori femminili e una voce solista a metà strada tra Tom Waits e Nick Cave.

13. MI AND L’AU – Good Morning Jockers
Lei finlandese, lui francese; lei modella, lui musicista: Mira Anita Mathilda Romantschuk e Laurent Leclere si incontrano a Parigi, dove diventano coppia nella vita e nella musica, prima di isolarsi nei boschi della Finlandia a comporre le loro canzoni spoglie e raccolte, intessute su chitarra acustica, voce e pochissimo altro.
Scoperti da Michal Gira (Swans).

14. PATRICK WOLF – The Backelor
Nella categoria “canzone d’autore”, Wolf prevale sui bravi Barzin, Andrew Bird e Matthew Scott grazie a un’opera eclettica, che mescola con sapienza un’impostazione classica, basi elettroniche e barocchismi dandy.

15. CHEER ACCIDENT - Fear Draws Misfortune
Come i Mountains dell’ottimo “Coral”, i Cheer Accident arrivano da Chicago, Illinois, e propongono un indie-prog palesemente ispirato alla grande tradizione del progressive britannico ’70 (King Crimson e soprattutto Van Der Graaf Generator), oltre che al free-jazz della Scuola di Canterbury (Gong e Soft Machine).

16. DENTE – L’Amore Non E’ Bello
Questo ragazzo di Fidenza ci sta simpatico. Sì, è vero, probabilmente non è un originalone, ma i suoi pezzi hanno una leggerezza fuori dal comune.
Nella speciale sezione Italia, prevale di un soffio su “Carboniferous” degli Zu.

17. MUM - Sings Along To Song You Don’t Know
Realizzato tra la natìa Islanda, la Finlandia e l’Estonia, il nuovo lavoro dei Mum propone una sapiente miscela tra il consueto elettro-ambient, istanze pop e rimandi alle tradizioni narrative popolari, nella quale un climax giocoso e onirico segna un’inversione di rotta rispetto al passato.

18. FUCK BUTTONS – Tarot Sport
Il duo di Bristol sbaraglia la nutrita concorrenza (Memory Tapes, Neon Indian e i portoghesi Gala Drop) nella categoria: elettronica.

19. TINARIWEN - Imidiwan: Companions
Un prezioso scrigno di crossover afro-rock, tra inaspettate venature blues e canti di ribellione incentrate sul desiderio di libertà del popolo tuareg (i Tinariwen sono un gruppo di nomadi nativi del Mali e costretti - oltre trent’anni fa - a emigrare in Algeria e Libia a causa di una gravissima carestia).

20. BILL CALLAHAN - Sometimes I Wish We Were An Eagle
(A ex equo): IGGY POP – The Preliminaires
L’ex-leader dei seminali Smog compone brani acustici di bellezza sontuosa ed estrema delicatezza.
A ex equo, la vecchia iguana e i suoi notevoli “preliminari”, ispirati al romanzo “La possibilità di un'isola” del francese Houellebecq.

venerdì 18 dicembre 2009

Dicembre

Il lampeggiante giallastro dello spazzaneve si riflette, a intermittenza, sul vetro appannato dell'ingresso.
Metto il naso fuori di casa.
La neve scende dal cielo, senza tregua, e una soffice coltre bianca copre ogni cosa.
Persino lo zerbino è sommerso di neve, eppure è sotto un portico profondo quasi tre metri.
In mezzo al campo immacolato, oltre il ruscello, c'è un coniglio gigante. Ha le orecchie appuntite e il muso sembra un teschio argentato. C'è anche Nonna Morte, con la sua zazzera bianca, che attraversa la strada innevata con le sue pantofole per andare a controllare la buca delle lettere.
Danno Donnie Darko stasera.

Non resta che mettersi a spalare il vialetto di casa, domattina, se vorremo uscire di qui, prima o poi.
Badile e sale grosso.
Con quell'idiota del cane che ti fissa annoiato. Non fa un cazzo dalla mattina alla sera, quel cane bastardo. Se ne resta sempre lì, sdraiato nella neve, a raffrescarsi le palle. Quando non è attaccato al computer per chattare su facebook.

Penso: la neve, a metà dicembre, ci sta.
Non è necessario essere esperti di metereologia per rendersene conto.
Eppure, è bello potersi tutte le volte sorprendersi, come se fosse la prima volta, assaporare lo stupore nel viso della gente che goffa sale e scende dal marciapiede cercando di farsi strada tra i cumuli e le lastre di ghiaccio, godere lo spettacolo dei fiocchi che avvolgono la statale illuminata dai fari allo xeno delle auto che avanzano a strappi.

Penso allo stupore di Agnese, la mattina del 13 dicembre.
Si è svegliata molto presto (probabilmente non aveva chiuso occhio tutta la notte per la tensione). Ha aperto la porta con gli occhi gonfi di sonno e si è trovata davanti, sul pavimento ancora freddo del corridoio, una fila di caramelle - le ha messe giu' sua mamma, davvero una bella scenografia - che portavano alla scala e poi, seguendo le caramelle giu' dalla scala in soggiorno, e infine sino al grande tavolo della sala da pranzo, dove facevano bella mostra i giocattoli ancora incartati.
Ha mangiato la carota!, ha urlato lei, riferendosi all'asino.
Santa Lucia, invece, si è fatta fuori una fetta di crostata al cioccolata - che però non l'ha fatta Sandy, che fa sempre un sacco di torte grandiose, ma l'abbiamo presa all'ipermercato in offerta speciale - e poi, povera donna, le è toccato bere un bicchiere di ginger.
Sì, il ginger, quella spuma rossa e un pò amara che si beveva un secolo fa nei bar tipo il Domus o il Parisienne - il primo era sotto casa, l'altro all'inizio di via Tibini - bar con i tavoli di formica e il regolamento del giuoco delle carte fissato con le puntine a muri scrostati, insieme a cartelli con scritte tipo: E' VIETATO SPUTARE PER TERRA, bar con i biliardi con ancora le buche e i gessetti azzurri da strofinare sulla punta delle stecche, bar con il distributore delle nocciole tostate, con le sanagola e i boeri, che vincevi sempre, mica come adesso che non si vince mai un cazzo.
Poteva andarle peggio.
Potevamo prepararle quello strano intruglio che era solito trangugiarsi mio nonno, Cristo santo, quell'uomo mescolava lo sciroppo d'orzata e quello di tamarindo con acqua fredda da frigo, la madonna se faceva schifo. Passavamo le estati nella sua casa di campagna, a pochi passi da qua, quella con i finti mattoncini rossi appicciacti sulle pareti e le tapparelle bianche: sempre stato un geometra da spendere poco. Era un tipo scorbutico ma capace anche di tenerezze. Dovevamo sempre farlo vincere a carte, se no s'incazzava di brutto. Ogni mattina andava a far la spesa a Rivergaro con la Fiat 128 Sport giallo senape - quella col doppio faro tondo posteriore, uno superclassico del design italico - e quando tornava suonava il clacson come un pazzo finchè non correvamo ad aiutarlo a scaricare il baule. Alle volte lo accompagnavamo in paese, nella discesa giu' dal ponte di Statto metteva la folle per risparmiare la nafta, quel taccagno.

Agnese è rimasta soddisfatta.
Santa Lucia le ha portato la Cuccio-clinica®, una specie di ospedale per piccoli animali con una veterinaria alta bella e bionda. La osservo mentre gioca. Borbotta qualcosa e sbuffa. E' alle prese con un caso disperato. Un cavallo con un femore rotto. Vedrai che starai meglio, sussura al cavallino accarezzandogli la criniera.
Tutto come copione: Agnese aveva chiesto Cuccio-clinica® nella sua letterina, dopo una serie indicibile di tormenti interiori e di clamorosi voltafaccia. D'altro canto, non bastassero tutti quegli ignobili spot pubblicitari - in quelle che dovrebbero essere fasce orarie protette - adesso ti inviano a casa anche dei cataloghi illustrati di giocattoli. Tipo il Postal Market (chi non se lo ricorda? Il mio vicino di banco alle elementari si tirava le seghe sfogliando le pagine di biancheria intima...). Un giocattolo per ogni pagina, foto grande a colori, e ognuno con il suo bel codice in neretto: per semplificare la scelta e non sbagliare gli ordini.

Cara Santa Lucia,
ti prometto che sarò brava con il papà e la mamma.
Per favore portami:

- CHT 74524
- FTG 05938
- GTD 98735


(Chissà, forse ci sono anche gli ippopotamini affamati.)

domenica 13 dicembre 2009

Il paese si scopre ogni giorno sempre piu’ incattivito, ostile e intollerante verso i diversi, sempre piu’ ostaggio di una classe dirigente rozza e analfabeta.
Non stupisce, allora, che il sindaco di un piccolo paese lombardo decida di ribattezzare “White Christmas” (sic!) una sorta di caccia ai clandestini e agli stranieri irregolari, in nome del Natale.
Vogliamo soltanto iniziare a fare pulizia, si è giustificato lui peggiorando la situazione.
Siamo in missione per conto di Dio, direbbe Belushi.
In risposta al clima imperante da caccia alle streghe, il nostro consueto appuntamento musicale è dedicato ad alcuni dischi usciti nell’anno in corso e provenienti dalle piu’ svariate parti del globo terrestre.

Recentemente scoperto dall’immenso Jim Jarmush, Mulatu Astatke è il re dell’ethio jazz, mirabile fusione tra l’esperienza jazz piu’ classica e i suoni della sua Etiopia, un mix ricco di fascino danzante e influenzato dalla strumentazione e dai ritmi africani. Il suo incontro con gli Heliocentrics, eterogeneo collettivo guidato dal drummer Malcom Catto, propugnatore di un energico mix jazz-funk e noto per alcune collaborazioni con Madlib e Dj Shadow, ci regala l’ottimo “Inspiration Information Vol 3”: per alcuni siti specializzati è uno dei dischi dell’anno.
Ancora dall’Africa.
L’amico Gigio segnala i Tinariwen, un gruppo di nomadi nativi del Sahara (nord-est del Mali) e costretti - oltre trent’anni fa - a emigrare in Algeria e Libia a causa di una gravissima carestia. Il loro “Imidiwan: Companions” è un prezioso scrigno di crossover afro-rock, tra inaspettate venature blues e canti di ribellione incentrate sul desiderio di libertà del popolo tuareg.
Sempre il Gigio consiglia i Gilzene & the Blue Light Mento Band, il cui reggae di "Sweet Sweet Jamaica", sarebbe – sono parole sue – una bomba assoluta e inoltre la raccolta intitolata “Calypso @ Dirty Jim's / The Music & the Film", con la quale si è cercato ricreare lo spirito dell’isola di Trinidad negli anni '50, riunendo i veterani e le leggende viventi del calypso (Calypso Rose, Relator, Bomber, Mighty Terror e Lord Superior) per una straordinaria notte di grande musica.
Il viaggio del compositore etno-folk Beirut nel continente sudamericano - in Messico, per la precisione - ha invece prodotto due Ep piuttosto noiosi.
Spostandoci in Asia, merita il giusto riconoscimento anche “Slumdog Millionaire”, soundtrack dell’omonimo film di Danny Boyle, premio Oscar 2009 per la migliore colonna sonora originale - anche se a dire il vero il disco è uscito negli ultimi giorni del 2008 - composta da A.R. Rahman con il contributo di altri musicisti indiani come Tanvi Shah, M.I.A., Madhumitha, Alka Yagnik.

Un breve cenno, infine, a una gemma misconosciuta di questo anno che sta lentamente per finire. “Gala Drop” è l’album omonimo di un trio di musicisti di Lisbona (Nelson Gomes, Afonso Simões e Tiago Miranda) che propone un’affascinante miscela di sonorità e di influenze apparentemente inconciliabili. Sentite cosa scrive su di loro Ondarock.it:
“Se negli anni ‘80 Jon Hassell coniò la locuzione “fourth world” per descrivere la sua miscela di suoni retro-futuristi, allora questa dei Gala Drop è musica del quinto o sesto mondo (…) Immaginate una fusione a freddo di dub giamaicano, tribalismo bucolico alla Animal Collective ultima maniera, minimalismo percussivo alla Urban Sax, suggestioni esotiche Soul Jazz Records (Konk, Rekid, Grupo Oba Ilu) e kosmische musik alla Cluster, il tutto immerso nelle bolge sintetiche degli Heldon.
Insomma, musica da fuori di testa per gente fuori di testa”.

(L'opera è di Gerhard Richter)

giovedì 3 dicembre 2009

A Milano piove da Dio


A Milano piove da Dio.
Cammino sul marciapiede, sul fianco di un muro scrostato e ricoperto di firme scarabocchiate con lo spray. Le auto procedono a velocità folle, schizzando l'acqua lurida e fredda sui miei pantaloni buoni.
La strada è resa sdrucciolevole dalla pioggia - lo so bene io che ho letteralmente aperto il cofano di una Uno Sting (argento metalizzato, mica cotica) su una panchina in calcestruzzo armato sul lungomare di Galway, Ireland - e poco piu' in là c'è un tamponamento a catena. Sfreccia un'autoambulanza con la sirena accesa.
Sotto i piloni del sottopassaggio ferroviario, un ragazzino con il cranio rasato e la tuta mimetica sta attaccando un manifesto (abusivo) di Forza Nuova.
C'è una grande fotografia di una donna stesa in terra, dolorante e piena di sangue, vittima di uno stupro, e le scritte:

E se fosse tua figlia?
E se fosse tua moglie?

Poi sotto: Sgomberare tutti i campi Rom, subito.

Osservo il ragazzino che intinge il pennello nel barattolo di colla, è poco piu' di un adolescente, non ha nemmeno un filo di barba, e intanto penso:
Se TU fossi mio figlio, caro ragazzo, ti prenderei a calci nel culo fino alla settima generazione.

Proseguo costeggiando anonimi caseggiati. Recinzioni in ferro arrugginito, muretti in calcestruzzo crepato e sgretolato, cortili d'asfalto invasi dalle sterpaglie. Ancora non siamo pronti per Expo 2015, temo.
Alla fermata del tram trovo riparo sotto una pensilina in plexiglass. Salgo sul numero due, puntualissimo. Mi piace leggere un libro stando seduto su quelle vecchie panche di legno massiccio e intanto osservare - attraverso il finestrino - la frenesia della gente là fuori. Cazzo, è spavenosa la percentuale di quelli che, mentre camminano con passo frettoloso, parlano al cellulare. Bisognerà fare una statistica, un giorno di questi.
Alzo gli occhi dal libro e la mia attenzione si sposta su una signora anziana con una vistosa parrucca colore rubino e un altrettanto strano turbante, che sembra fatto di stracci per la polvere.
Lei mi guarda e sorride.
Io ricambio, goffamente, e lei mi sorride ancora.
C'è da tenerselo stretto, un sorriso da parte di una sconosciuta, di questi tempi.

Scendo a Cordusio e mi incammino in direzione del Duomo. Ci sono un sacco di fottuti giapponesi in giro, riuniti in drappelli sotto la pioggia a fotografare le vetrine delle boutique d'alta moda. Ed è ancora primo pomeriggio.
La mostra di Hopper a Palazzo Reale è una mezza delusione. Tante opere minori, tanta grafica, mentre dei grandi dipinti a olio ci sono solo quelli del Whitney di New York, che ho già visto, anzi mancano addirittura i piu' belli. Manca soprattutto il celebre Nighthawks, del 1942, citato a piu' riprese da Wenders e da altri.
Non un evento all'altezza di una grande capitale europea, insomma.
Le didascalie ai lati delle opere esposte definiscono Hopper il poeta dell'anonimato e dell'isolamento delle metropoli - da non confondersi con la solitudine, scrivono i curatori. Sottolineano il suo "peculiare universo malinconico, solitario, metafisico e al contempo materiale", le sue "atmosfere vuote, silenziose, rarefatte, ovvero perfetti contenitori dell'esistenzialismo e della incomunicabilità invalicabile dell'uomo moderno".
Nulla da eccepire.

Sul metro del ritorno, raccolgo da un sedile vuoto una di quelle freepress che distribuiscono all'interno delle stazioni.
A pagina quattro trovo una notizia che mi colpisce.
Riguarda Francisco.
Figlio di immigrati messicani, Francisco soffre di una rara forma di autismo e vive con la sua famiglia - il padre è bracciante, la madre fa le pulizie - a Bensonhurst, Brooklyn, New York.
E' scappato di casa per paura di un rimprovero per un brutto voto, con solo una tessera della metro e dieci dollari in tasca.
Un budget risibile, che lui ha centellinato molto scrupolosamente negli undici giorni durante i quali è rimasto sempre sottoterra, sui treni, mangiando gli snack piu' a buon mercato prelevati dai distributori automatici. Per non farsi trovare, Francisco ha tolto la batteria dal cellulare. I genitori hanno immediatamente dato l'allarme, mobilitando parenti, polizia e consolato, che in realtà si sono mossi con un pò in ritardo, di un messicano gli importa poco, si sa.
Lo hanno ritrovato nei dintorni di Coney Island.

Immagino Hopper ritrarre Francisco sulla banchina, mentre è intento a scegliere dal distributore automatico un Mars, un KitKat o un sacchetto di patatine.
Il dubbio che divora Francisco.
Cazzo, il Kit Kat costa dieci centesimi meno, pensa alla fine.
E allora vada per il Kit Kat.
Poi Francisco che si allontana verso la scala mobile che lo riporta al livello superiore, dove si va a coricare su una panca di marmo ghiacciata, mentre un branco di umanoidi scorre eterea al suo fianco, di corsa, per rincorrere il vagone in arrivo giù al binario.

Potrà sembrare strano, ma durante questi undici giorni nessuno ha mai rivolto la parola a Francisco.
No, non lo trovo affatto strano, ha spiegato lui: a nessuno frega nulla del mondo e delle altre persone.


martedì 1 dicembre 2009


In madrepatria sono già dei fenomeni.
Attesissimi all’esordio dopo una mezza manciata di singoli di successo, Fanfarlo e Mumford&Sons se la cavano alla grande anche sulla lunga distanza.
Sulla scia dei The Leisure Society - autori nel 2009 dell’ottimo The Sleeper - hanno l’indubbio merito di spostare l’attenzione della critica e del pubblico sul nuovo folk-rock britannico e di dimostrare che la scena Londinese in particolare – non appena ci si allontana un po’ dal sound ormai stanco e stereotipato di gran parte del revival wave – è viva e vegeta.
I primi, molto apprezzati da David Bowie, pur dovendo il loro nome a un titolo di un racconto di Baudelaire propongono un sound prevalentemente acustico, tutt’altro che maledetto.
Nel loro Reservoir trovano spazio anche la leggerezza melodica del pop scandinavo - il leader della band è nativo della Svezia - ma anche basi ritmiche elettriche (Fire Escape e soprattutto Luna): i Fanfarlo stessi hanno ribattezzato il loro genere come “folk-disco”.
Tra i brani migliori anche l’opener I’m a Pilot – ecco spiegato perché qualcuno li ha definiti gli Arcade Fire inglesi… - la darkeggiante Drowning Men e Finish Line, che sembra rubata ai Talking Heads.
I Mumford&Sons condividono con loro l’amore per archi, fiati e fisarmoniche, pur attingendo a un repertorio piu’ classico e tradizionale.
Il disco – quasi cinquanta minuti di musica - scorre via piacevolmente, pur non brillando per originalità, tra preghiere laiche con intonazioni gospel (Sigh No More e Timshel), ballate languide e malinconiche alla Hothouse Flowers (Awake My Soul e White Blank Page) e pezzi piu’ festaioli e spensierati con dosi massicce di banjo e mandolino (Little Lion Man e Roll Away Your Stone) per i quali sono stati scomodati Pogues e Waterboys.
Consigliati agli amanti del genere, e anche a chi in questi anni ha apprezzato il lavoro di bands come Okkervil River e Bon Iver.

sabato 28 novembre 2009

sabato 21 novembre 2009


“Una caleidoscopica avventura musicale attraverso il favoloso e a volte sciocco mondo del cricket”.
La definizione degli stessi autori – ovvero un concept album sul gioco piu’ tradizionale ed esclusivo per gli inglesi, del quale il Ducwworth Lewis rappresenta un complicato metodo algoritmico per calcolare il punteggio di una partita interrotta causa maltempo - a prima vista potrebbe bastare per considerarlo un disco buono solo per una certa, stanca e fuori moda, aristocrazia britannica, un disco buono per le serate intime tra il Principe Carlo e la sua bella (…) Camilla, insomma.
E invece, questo nuovo progetto dell’irlandese Neil Hannon - già leader dei Divine Comedy - e di Thomas Shaw - leader dei Pugwash - si rivela già al primo ascolto come una delle piu’ gradite sorprese di questo 2009 che volge al termine.

Leggerezza e ironia, eleganza innata e humour in stile british, pop cristallino e allegria scanzonata: questo album potrebbe essere un’ottima colonna sonora di Little Britain o, ancor meglio, di Monty Pithon – chi scrive è un fan sfegatato del genio comico di Cleese, Gilliam e compagni (www.pythonline.com); chi non li conoscesse è pregato di procurarsi al piu’ presto una copia de “Alla ricerca del Sacro Graal” o “Il Senso della Vita”.

Tantissimi i gioielli di questa misconosciuta opera rock.
The Age Of Revolution parte su uno strepitoso campionamento anni ’50; Gentlemen & Players e Mason On The Boundary sono raffinati brano pop artigianale, tra Kinks e XTC; Meeting Mr. Miandad è un singolo atipico: divertente il video nel quale i sorvolano i deserti a bordo di una mongolfiera realizzata con un vecchio furgone VW, alla caccia del fantomatico campione pakistano di cricket, tal Miandad, in perfetto stile Monty Pithon, appunto. Jiggery Pockery è una filastrocca bislacca, Flatten The Ray un refuso dei Beatles mistici innamorati del sitar e della cultura indiana. Test Match Special sembra non una cover di Bowie, ma addirittura un cameo dello stesso Duca Bianco (ho spulciato le note di copertina, non è così).
Su tutte, The Nightwatchman, una ballata di classe sopraffina, uno dei brani piu’ belli dell’anno, in assoluto.

giovedì 19 novembre 2009

Ritorno in Valnure

Il virus HNV1 ha decimato la scuola del paese, senza alcun riguardo per i piu' piccoli e i piu' deboli, anzi.
Stamattina, in tutto ci sono sette bambini.
Solo una in quinta, che infatti se ne ritorna mestamente a casa.
Le maestre ci guardano come a chiederci, cosa li lasciate qui a fare? Sembrano un poco contrariate dal fatto che qualcuno ha deciso di portare ugualmente i propri figli a scuola. Dopo un rapido consulto telefonico con Sandy, decido di lasciare la bambina a scuola. Io potrei anche portarmela dietro, ma in ogni caso, c'è un suo compagno equadoregno i cui genitori lavorano entrambi, iniziano la mattina presto, non sapremmo come raggiungerli, adesso.
Così bacio Agnese sulla fronte, scendo la scalinata in travertino e mi incammino verso l'osteria, dove per bere un caffè aspetto che la barista termini una tutt'altro che urgente conversazione telefonica.
Scusami, mi fa, dopo aver riagganciato. Era mia madre, mi chiama sempre, piu' volte al giorno. Anche durante il lavoro. Mi ripete sempre le stesse cose.
Io le dico che invece mia madre non chiama mai, deve avere un'allergia verso il telefono. Il giorno del mio compleanno la devo chiamare io, per consentirle di farmi gli auguri, aggiungo.
Quest'anno, mi racconta lei, per spiegarmi come sbrigare la faccenda dei fiori da portare al cimitero per i morti, la mia ha iniziato a chiamarmi in agosto. Mi ha elencato il tipo di crisantemi, il loro numero, il colore, la composizione che voleva per la tomba di mio padre. Sono dovuta andarli a prenotare a metà settembre, non puoi immaginarti la faccia della fiorista.
Io sorrido e, mentre mi gusto il mio caffè bollente, penso: è brutto rimanere da soli.
Poi ripenso alla lista degli sms che Paulette, qualche giorno fa, ha abilmente trascritto dalla cartella degli sms inviati del portatile di mia madre:

Sono spr pr
No biondi
Buona pasqua (qui evidentemente qualcuno l'ha aiutata, ndr)
Tut

Niente male, cazzo, la vecchia.

Prima di andarmene do' un'occhiata alla gazzetta e poi scambio due chiacchiere con gli altri avventori.
C'è una tipa che che smanetta su una macchinetta del videopoker, passa le sue mattine su quella dannata macchinetta. Ancora un pò e ci lascia giu' anche le mutande.
C'è il mister, lo prendo in giro per la classifica piuttosto deludente. Quattro punti. Sei gol subiti anche domenica scorsa, nel derby con il Marsaglia. Lui si lamenta del campo pesante. Si lamenta dell'arbitro, che è un testa di cazzo,l'ha sempre detto, lui, che è u testa di cazzo. Si lamenta che non hanno un portiere. Perchè non convinci il Gio, mi fa. Viene a finire il campionato titolare in seconda, poi torna alla base. Mah, aggiunge lui alla fine, non so se me lo danno in prestito.

C'è un uomo di mezz'età - uno che non ho mai visto qui in giro - che ha appena finito di leggere il giornale appoggiato al bancone.
Ce l'ha con il computer, con internet e con tutte quelle diavolerie elettroniche. Adesso i ragazzi non escono piu' di casa, sentenzia, si parlano attraverso le chat e quelle robe lì, ditemi voi se è normale. Io pago il mio caffè e intanto rispondo che certe cose non sono il diavolo, che come per tutte le cose l'importante è non abusarne, e che comunque certi strumenti possono aiutare i piu' timidi a mettersi in relazione con gli altri. Lui scrolla la testa. Ci credo poco, mi fa.
Io non sono Matusalemme, ho solo cinquantacinque anni, però davvero non li capisco, aggiunge dopo una lunga pausa.
Poi, con una strana espressione da posseduto dipinta in volto, afferma:
Io sono credente: per me, una bella Ave Maria al mattino, recitata bene, è molto meglio che un pomeriggio intero passato sul computer.
Infine inizia a raccontarmi di una sua conoscente di Bettola che negli anni Sessanta è emigrata a Nuova York - così ha detto lui, Nuova York - e che là si è fatta una vita, figli, lavoro e tutto quanto. Sua figlia, che nel frattempo si è anche lei sposata con un americano, qualche anno fa è tornata in Valnure per presentare al marito i suoi parenti piacentini. Sono rimasti piu' di un mese. Lui si collegava tutti i giorni con il computer e svolgeva da lì il suo lavoro. Vuoi sapere come è andata a finire? La sua ditta, una ditta americana che opera nel settore delle telecomunicazioni, gli ha chiesto di rimenere in Italia. Per loro era il massimo della comodità, il fatto che ci sono sei-sette ore di differenza nel fuso permetteva ai suoi colleghi di arrivare in ufficio e trovare già tutto pronto.
Vedi?, gli faccio io, riferendomi alla nostra conversazione di prima.
Lui annuisce pensieroso.
Quest'uomo non ha le idee chiare, penso io.

Sono quasi le nove.
Saluto tutti e me ne vado, e mentre raggiungo la macchina ripenso a quello che ha detto quell'uomo.
Che cazzo avrà voluto dire, poi, con la storia dell'Ave Maria.
Ma perchè non la lascia fuori, la Santissima Vergine, da certi discorsi?

sabato 14 novembre 2009


Fine anno senza botti clamorosi, è un fatto.
Ecco quello che passa il convento: il terzo, sbiadito ma discreto, Arctic Monkeys, un pessimo Muse, il solito doppio album mastodontico dei Flaming Lips, un tutto sommato anonimo Yo La Tengo.
E allora su consiglio dell’amico Big – perché Big è uno che la sa lunga - optiamo per il nuovo, secondo, album di Hope Sandoval – quasi otto anni dopo “Bavarian Fruit Bread” – già front-woman di gruppi seminali come Opal e Mazzy Star.
La voce suadente e sensuale della cantante californiana (nata da famiglia di origine messicana) è da sempre una delle piu’ richieste in ambito pop-rock: nel suo curriculum vanta infatti collaborazioni illustri (Air, Death In Vegas, Vetiver, Chemical Brothers), in futuro parteciperà al prossimo Weather Underground dei Massive Attack.

Questo “Through The Devil Softly” sin dal titolo e sin dal nome della band che la accompagna (The Warm Invenctions, con Colm O’Ciosoig, ex-drummer dei My Bloody Valentine, e con la collaborazione fissa di Alan Browne al basso e quella occasionale di altri esperti musicisti) si preannuncia un ascolto caldo e soffice.
La raffinata “Blanchard” apre con grande classe la tracklist, “Wild Roses” è una ballata in puro stile West Coast, e “For The Rest Of Your Life” un blues cupo e rarefatto.
Il disco non scende mai di tono, con un susseguirsi di melodie minimaliste, fragili arpeggi acustici e passaggi country appena sussurrati, sino al meraviglioso picco finale: l’elettrica "Trouble", a seguire “Fall Aside", una litania lisergica con banjo e organo e, in chiusura, "Satellite", una ninnananna in bassa fedeltà, con la voce di Hope che sembra filtrata attraverso un microfono difettoso.
Abbiamo la sensazione che ci terrà compagnia spesso, nelle prossime lunghe serate invernali.

venerdì 13 novembre 2009

VERSO DRESDEN


L'autostrada, deserta, costeggia immensi pascoli, sporadicamente delimitati da folte boschine. Non ci sono campi coltivati. Nonostante sia diretto verso sud. Nemmeno un campo di patate. Nessun edificio, nemmeno. Nessun capannone.
Non si vede anima viva.
Solamente i pali zincati della linea elettrica a tenermi compagnia.
In lontananza, un campanile - esile, con il solito bulbo a cipolla alla sua sommità - segnala ogni tanto la presenza di un borgo o di una piccola città.
La nebbia sale lentamente, l'alba si è alzata da ore ormai, e improvvisamente appare alla mia vista un'auto distrutta e capovolta nella scarpata. C'è un ragazzo seduto tra le sterpaglie, indossa il giubbino arancio fosforescente e si tiene la testa tra le mani. Se l'è vista brutta, lo stronzo. Tutto sommato, se l'è cavata con poco.
La polizei cerca di sogmbrare la carreggiata dai pezzi di lamiera e di plastica nera, mentre la carcassa fuma poco lontano.
Io rallento l'andatura, potrebbero aver bisogno. Una donna bionda di mezz'età, un pò impiccata nella sua divisa color sabbia di qualche taglia in meno, mi fa cenno di proseguire.
Curiosamente, la strada è invasa da arance e mandarini.
Ripensandoci, anche il tedesco che mi ha centrato un paio di anni fa a Merano - invadendo improvvisamente la mia corsia durante un sorpasso ad alta velocità, malgrado il fondo bagnato da una pioggerellina autunnale - aveva il baule stipato di cassette di mandarini. Lui sembrava pieno di cocaina e passeggiava avanti e indietro nervosamente, e anche la bagascia teutonica che sedeva al suo fianco aveva gli occhi lucidi. L'idiota aveva distrutto un'Audi da svariati bigliettoni da mille - optional esclusi - e però sembrava preoccupato per i suoi mandarini del cazzo.
La lezione di oggi è: in Germania è pericoloso trasportare mandarini e agrumi in generale.
Forse che qui i mandarini contengono sostanze speciali?
Sì, forse si sono inventati i mandarini lisergici.
Beh, fosse così, si potrebbe cambiare idea sul discorso OGM...
In fondo, perchè no?

Ora il tappeto di cemento ruvido taglia in due le colline, e un pallido sole fa capolino nella fitta coltre grigiastra all'orizzonte.
L'ingresso a Dresda risulta agevole oltre misura. Il navigatore della Nissan mi aiuta a orientarmi, non lo si puo' negare, ma il fatto è che non sono nemmeno le dieci di sabato mattina, e Dresda sembra una città fantasma.
Le strade sono sgombre, è impossibile trovare un locale aperto per un caffè. Mi guardo attorno e mi accorgo che gli scuri e le persiane delle case sono tutti ancora chiusi.
Oltre il fiume solcato da vecchi barconi di legno appare uno scenario spettacolare di cupole e di guglie barocche.
Una sinfonia di pietre e di marmi anneriti dallo smog e dall'incuria.
Persino gli edifici che sono stati ricostruiti dopo i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale sono avvolti in una sottile patina di cenere.
Lascio l'auto sotto il ponte e salgo la riva destra dell'Elba per raggiungere la prima tappa, ovvero la sinagoga ebraica. Pur essendo sabato, la trovo chiusa. Non che io sia così ferrato sulle abitudini dei rabbini: il mio faro, in questo campo, è Walter.
Shomer shabbos!
Niente tornei di bouling al sabato!
Non se ne parla proprio.
(Quando il Drugo gli fa notare che lui in realtà non è ebreo, Walter risponde: sì, ma lo era la mia ex-moglie)
Mentre mi avvicino, mi tolgo la mia chefia azzurrina che uso come foulard, per rispetto, certo, ma anche perchè ho anche un pò paura.
Il complesso è interessante, due parallepipedi ermetici e rivestiti in pietra calcarea e deformati rissetto al loro asse di simmetria. Mi fa venire in mente la famosa cabina di controllo del traffico ferroviario di Herzog&deMeuron, a Basilea.
Il tram - o metropolitana leggera - scorre sui binari proprio a fianco del cortile della sinagoga, prima di avventurarsi sul ponte e verso i sontuosi palazzi neoclassici della riva sinistra. I vagoni si bloccano a pochi metri da me. Si aprono le porte scorrevoli. Scende uno studente con l'iPod e una bici da corsa in braccio.
Tornando alla macchina, mi sorpassa una vecchia Trabant bicolore, crema e giallo canarino. Da paura.
Percorro le grandi vie alberate della Dresda del socialismo reale. Queste strade hanno una sezione enorme, talmente fuori scala. Però sono gradevoli. I grandi casermoni in cemento armati sono stati interamente rivestiti con facciate continue in alluminio, in acciaio porcellanato, con ceramiche colorate all'eccesso. Li hanno infiocchettati per bene, insomma. Spesso con scarsi risultati estetici.
Roba da rimpiangere Honecker.

domenica 8 novembre 2009

BERLIN: SAD SONG, 01


Il cielo sopra Milano, osservandolo attraverso l'oblò appannato dalla condensa, mi appare come una striscia lunga e sottile di colore grigio-marroncino, dai contorni poco sfumati. Un orrido magma di polveri sottoli e di gas tossici.
Sembra una pennellata di smalto opaco. O tirata con un pantone.
Tinta RAL 1024, direi.

Il Boeing della AirBerlin si è appena alzato in volo dopo una breve rincorsa sulla pista d'asfalto lucido. Come cazzo farà, poi.
Ora sorvoliamo il cuore pulsante della Nazione Padana.
La Brianza, da questo posto privilegiato d'osservazione, altro non è che una marmellata indigesta di villette bifamiliari e capannoni prefabbricati, di outlet e multisale cinematografiche, agglomerati semiurbani che si susseguono senza soluzione di continuità, separati solo da svincoli autostradali.
Qui, dall'alto, sembra un'enorme macchia scura, come un tumore.
Rovisto nel borsello di cuoio nero nella vana ricerca dell'ultima fatica di Palahniuk, regalo di compleanno degli amici per i 41. Quest'anno niente lanci in paracadute o altre robe da uomini veri, cazzo, solo buoni libri. Ma è meglio che non ci penso, Cristo, sono sospeso in aria a quasi 10.000 metri di altezza, su questo cigolante mostro metallico bianco lucente. Roba da cagarsi addosso.
Sfoglio le prime pagine, cercando la giusta concentrazione, e intanto ripenso all'incontro con un ragazzo brasiliano, stamattina all'aeroporto. E' procuratore federale, di stanza a Brasilia, ma vive per lo piu' a San Paolo, la città piu' bella e stimolante del Brasile, dice lui. Mi aggancia lui in coda al Check-In. E' preoccupato, visibilmente preoccupato, per il fatto che il peso dei suoi bagagli possa superare - e lo supera, ampiamente - il limite consentito. Suda freddo. Sul suo carrello ci sono due enormi borsoni pieni di vestiti e una valigia stracolma, praticamente tenuta insieme con il nastro adesivo. Meglio non avvicinarsi troppo, penso io, sembra sul punto di eruttare una moltitudine di mutande e di calzini sporchi.
Ci accordiamo che, in caso di problemi, io mi accollo una parte dei suoi pacchi.
Fortunatamente non ce n'è bisogno. La hostess della AirBerlin lo guarda un pò di traverso, scuote la testa, ma poi lo lascia passare.
Il giovane avvocato di San Paolo passerà tre giorni a Berlino e poi tornerà in Sudamerica, a casa sua. E' reduce da una settimana a Barcellona e da ben tre settimane a Milano.
E in queste tre settimane, a Milano, cazzo hai fatto?, gli domando.
Shopping, mi risponde lui.
Allora gli chiedo: ma non sei stato a Venezia? A Firenze? Cazzoneso, a Mantova?
No.
No?, ripeto io incredulo.
Sono stato a Serravalle Scrivia, mi risponde lui dopo una pausa di riflessione. Lui non è per nulla imbarazzato.
Ah, faccio io. Come dire: sticazzi.
Ci suono buoni prezzi, mi spiega. Ho preso un sacco di roba, all'Outlet.
Porca troia, e poi dici che la situazione puo' solo migliorare, qui stiamo andando dritti verso il baratro, e neanche ce ne accorgiamo.
Dopo una sequenza di sbadigli, decidiamo di prendere un caffè nell'unico bar aperto. Lui mi racconta un pò del suo lavoro, io del mio. Bello, fare l'archiettto, fa lui. Gli chiedo di Niemeyer. Mi piace il suo lavoro, commenta lui. Non a tutti piace, a Brasilia. Cazzo, dico io, se non sbaglio i conti dovrebbe avere qualcosa come 102 anni, chioso io. A un certo punto lui interrompe la conversazione e, come un animale in cerca della sua preda, il suo sguardo si fionda verso una vetrina scintillante di un negozio Tax Free.
Mi chiede se puo' lasciarmi i suoi bagagli a mano, evidentemente di me si fida, e poi si allontana per andare a controllare il prezzo di una valigia di pelle di Ermenegildo Zegna.
Al suo ritorno, è rincuorato. L'ho pagata venti euro di meno, mi fa.
Molto bene, lo assecondo io.
No, davvero, sai com'è. Se qui fosse costata di meno, molto di meno, ci sarei rimasto molto male.
Eh sì, balbetto io. Poi tiro fuori una scusa tipo: devo chiamare casa, mia nonna sta male, devo cercare un telefono.
Lo saluto con una stretta di mano e mi accommiato da lui con estrema rapidità.
Di coglioni come lui, ne abbiamo a fiotti, qui da noi.

sabato 7 novembre 2009

Il clamoroso successo di XFactor e degli altri talent-show – un vero e proprio monumento al marketing in campo musicale - è sintomo della situazione in cui versa il mercato discografico del nostro paese.
La scena rock è esangue, se si esclude qualche caso limitato ed eccezionale, spesso di portata locale (il jazz-metal degli Zu di Carboniferous, ad esempio, oppure il bravo Dente o i Casa, band vicentina che propne un insolito krautrock e titoli come “Nick Drake” e “Padre nostro/Motoraduno”). I segnali sono evidenti. Manuel Agnelli decide di portare gli Afterhours persino a Sanremo (sic), mentre il Vasco nazionale, sempre piu’ bolso e sovrappeso, coverizza senza provare vergogna “Creep”, ribaltandone peraltro il significato originario.
Ma quello che colpisce di piu’ è che la grande scuola dei cantautori sembra essere rimasta senza parole davanti allo scenario di un paese che attraversa un periodo di declino, etico e morale, senza precedenti. Escono solo live/compilation/best of/greatist hits, magari arricchiti da qualche inutile inedito o b-side, espediente questo che rende ancora piu’ fastidiose e odiose queste operazioni commerciali. Fabrizio De Andrè lo aveva previsto con largo anticipo: “voi che avete cantato sui trampoli e in ginocchio/coi pianoforti a tracolla travestiti da Pinocchio/voi che avete cantato per i longobardi e per i centralisti/per l’Amazzonia e per la pecunia/nei palastilisti/e dai padri Maristi/voi avete voci potenti/lingue allenate a battere il tamburo/voi avevate voci potenti/adatte per il vaffanculo”, e anche Francesco Guccini era da un po’ che si era rotto: “La piccola infelice si è incontrata con Alice/ad un summit per il canto popolare/Marinella non c' era, fa la vita in balera/ed ha altro per la testa a cui pensare”.

In un così desolante scenario, il nuovo album di Samuele Bersani, “Manifesto abusivo” - che si avvale delle collaborazioni di Dalla, Pacifico, Bollani, Angelo Conte e Cammariere - rappresenta senza dubbio una bella boccata d’ossigeno.
Dal punto di vista melodico, le composizioni del cantautore romagnolo rimangono asimmetriche, spesso sbilenche, anche se con il tempo ha imparato a smussare i tratti piu’ bislacchi e naif. Gli arrangiamenti sono tra i piu’ classici e maturi del suo repertorio, tuttavia non sempre all’altezza dei testi, intelligenti e delicati, ironici e amari. Ci è capitato di leggere sul web, e ci sentiamo di condividere: se Samuele Bersani incontrasse un Lucio Battisti, probabilmente ogni disco sarebbe un capolavoro. Nessuno in Italia scrive testi come i suoi. “Manifesto abusivo” è un ritratto della contemporaneità va ascoltato con il libretto sottomano.
Tra i brani, spiccano i due singoli – “Un periodo pieno di sorprese” e “Ferragosto”, brano scritto con Sergio Cammariere e da quest’utimo già inciso quattro anni fa – e le canzoni d’amore (finito) “Valzer nello spazio” (“mi auguro di aver davanti un momento in cui potrò ignorarti/come una cartella sopra il monitor lasciata senza titolo/cancellarti non mi viene in mente/me ne pentirei di sicuro all'infinito”) e “Fuori dal tuo riparo”(“potrei promettere/parole d’effetto a oltranza/mantenendo l’impegno ma/se ti stringessi poi la mano per circostanza sul bracciolo di un cinema/da me stesso mi sentirei deluso/faresti bene a dirmi/e adesso vattene a fanculo”). Una citazione speciale anche per “16:9”, con un’inusitata coda alla Coldplay, e per “A Bologna”, un grido di denuncia verso la politica dei divieti in corso nella sua città adottiva: “la metamorfosi spaventa come/chitarre elettriche col distorsore/le orecchie dei nostalgici, delle cariatidi/e di chi nasce già conservatore/vecchio nel cuore”).
L'edizione speciale dell'album disponibile su ITunes contiene inoltre la cover de ''Il bombarolo'' di Fabrizio De Andrè, con l’accompagnamento di Stefano Bollani al pianoforte.
In fondo, è una bella sensazione, sapere di non essere solo nelle mani di Morgan.

venerdì 30 ottobre 2009

Mio padre, John Lennon


Non ho mai conosciuto mio padre.
Se ne è andato troppo presto, quando io e Paulette avevamo solamente diciotto mesi. Non che agli fratelli sia andata meglio: avevano rispettivamente dieci e sette anni, nemmeno il tempo di ricordarselo, dopo.
Si è ammazzato di lavoro. Eppure il dottore glielo aveva detto piu' volte, di andarci piano, dopo il primo, leggero, infarto. Aveva compiuto cinquant'anni due settimane prima.
Quello che mi resta è un album di cuoio, ormai sdrucito, con i ricordi di una vita.
Una collezione di pallide fotografie in bianco e nero, sbiadite, e i documenti del periodo in cui fu partigiano nelle valli tra il Luretta e la Pietra Parcellara.
Il Capitan Bologna.
Medaglia d'argento al Valor Militare per la Resistenza.
(Talmente sentita, che hanno sbagliato persino il cognome, hanno scritto MANZANI)
C'è anche un trafiletto, poco piu' di sei righe, sul Dizionario dei Concittadini Illustri.
Bella roba.
Avrei preferito che avesse continuato a tenerci sulle ginocchia, mentre leggeva il giornale seduto a tavola.

Una bella mattina di ottobre.
Il sole è improvvisamente sbucato dalla fitta coltre di nubi che nei giorni scorsi ci ha impedito di guardare oltre il cielo.
E' il periodo giusto per mettere a dimora i crochi e i tulipani. Sandy ne ha presi un paio di sacchetti pieni. Ci sono anche due esemplari di aglio selvatico. L'anno scorso ne abbiamo piantato uno, e quella specie di patata spelacchiata è diventato un fusto alto piu' di un metro, con in cima un fiore lilla, grosso come un arancio.
Agnese mi aiuta a smistare i semi e i bulbi nelle varie buche che mi sono preparato, con l'ausilio di un badile e di un piccone.
Le piace aiutarmi, anche se poi si stufa subito.
E allora si mette a preparare la pappa per i suoi figli, stamattina ne ha addirittura quattro: due barbie, un altro bambolotto - un bambolotto inquietante, un umanoide cyber che muove le labbra e piange lacrime finte, e che se gli butti uno strano liquame grigiastro in bocca lui poi si caga addosso - e addirittura un orsachiotto di pezza.
Se vuoi puoi essere mio marito, mi dice mentre accarezza l'orsachiotto.
Se proprio insisti, abbozzo io. A dire il vero, quattro figli mi sembrano un pò troppi. Tutti in una volta, poi.
Quando rientriamo in casa ci mettiamo in cucina a disegnare con i pennarelli.
Dopo un pò mi dice: devo far vedere i miei disegni alla nonna Giulia.
Ok, rispondo io, e intanto mi alzo per prepararmi un caffe'. Quando viene a trovarci glieli facciamo vedere.
Poi mi chiede: ma la nonna non ha un marito?
Lo aveva, rispondo io. Adesso non c'è piu'.
Ah, fa lei. E come si chiamava?
Giovanni.
Ah.
Era mio padre, aggiungo io (lo sapete anche voi, i bambini faticano assai a entrare nel complesso meccanismo delle parentele. E Agnese non fa certo eccezione, anzi diciamo pure che gli alberi genealogici non sono il suo forte).
Lei resta lì, immobile, lo sguardo fisso su un punto qualunque della nuda parete d'intonaco.
Sembra perplessa.
D'altro canto, come non comprenderla: suo padre si chiama Giovanni, suo fratello si chiama Giovanni, e suo nonno come si chiamava? Giovanni. La Madonna che fantasia, potrebbe pensare. Un paio di Madonne le ha gia' tirate, infatti, fortunatamente senza aggettivi.
Ma poi si lascia distrarre dalla radio che gracchia una musica conosciuta.
Cerco di spostare l'antenna nella speranza di ricevere meglio il segnale, mentre lei canticchia sullo sfondo.

Torno fuori per stendere un pò di terriccio con il rastrello, e poi innaffio l'aiuola scura e polverosa.
Rientro in casa e accendo la televisione. Su Mtv c'è un programma sui Beatles. Deve essere un anniversario di qualche cosa, perchè per tutta la mattina mettono dei vecchi filmati, interviste e materiali d'archivio.
C'è anche un video nel quale quattro pupazzi - a immagine e somiglianza dei Fab Four - suonano Ticket to ride e A day in the life.
Agnese guarda il video rapita. Io nel frattempo le massaggio la pancia, dovreste provarla anche voi, è morbida come la pasta delle pizza dopo che è lievitata per un intero pomeriggio.
Chi sono?, mi chiede.
Dei musicisti, rispondo. Si chiamavano Beatles. In Italiano vuol dire: scarafaggi.
Che schifo.
Guarda, le dico, quello lì si chiamava Paul, sì, insomma, Paolo. Quello con i capelli piu' lunghi si chiamava Giorgio. Quello invece era Ringo. Ringo Starr. Suonava i tamburi. E quello là in fondo era John, Giovanni. Anche lui adesso non c'è piu'.
Giovanni?, ripete stupita.
Sì, Giovanni.
Lei resta in silenzio, ma io mi accorgo che sta macchinando qualche idea strampalata in quella sua testolina di cazzo, e infatti dopo qualche istante mi chiede:
Ma era lui tuo papa'?
Io rido forte. Chi? John Lennon?
Anche lei ride, adesso.
No, non era lui, rispondo io accarezzandole i capelli, sottili e castani come i miei.
E intanto i quattro pupazzi, sullo schermo in 16:9, attaccano With a little help from my friends.

Verso sera, esco di nuovo per fare legna. Il sole è sparito all'orizzonte, e la temperatura è scesa improvvisamente. Meglio accendere il camino.
Sono lì che scelgo con cura i pezzi di carpino e robinia dalla catasta sotto il pergolato nascosto dal gelsomino, che poi è un falso gelsomino, qualsiasi cosa voglia dire, e intanto ripenso a John Lennon.
Cazzo, avrebbe potuto essere davvero mio padre.
In fondo era del '40.
Anche se non ce la vedo molto, la Giulia, con il vecchio John. E poi cosa cazzo è andata a fare a Liverpool?
Però.
Però non si sa mai.

Prendo la Scenìc e vado giu' in paese a comprare un pò di insetticida, anche se siamo un pò fuori stagione c'è un'invasione di formiche rosse.
Fuori dall'emporio, c'è un gippone parcheggiato con due ruote sul marciapiede. Si apre la portiera e scende un uomo di mezz'età, corporatura robusta e un principio di chierica sul cranio.
Mi guarda senza alcuna espressione particolare.
Io ricambio il suo sguardo ottuso e poi gli dico: John Lennon era mio padre.
E lui: chi, quell'hippy sciroccato che cantava tutte quelle cazzate sulla pace e sull'amore universale?
Immagina un mondo senza possessi/mi chiedo se ci riesci/senza necessità di avidità o fame/La fratellanza tra gli uomini/Immagina tutta le gente/condividere il mondo intero....
Stronzate.

Brutta bestia, l'invidia.

Mentre torno in macchina mi dico, 'fanculo, adesso chiamo McCartney.
Cazzo, Macca, gli dico, quand'è che mi mandi i diritti d'autore delle ultime compilation?
Lui balbetta qualcosa di incomprensibile. Deve essere ancora incazzato per la storia della dicitura "Lennon/McCartney" sui dischi. Secondo lui, andrebbe ribaltata, almeno per i pezzi che in realtà, così dice, ha scritto lui. Non gli hanno mai spiegato la proprietà commutativa.
Macca? Mi senti?
Devi chiedere a Yoko, mi risponde lui dopo una lunga pausa. Ho già datto tutto a Sean e a Julian.
Non fare il furbo con me, gli faccio, domattina voglio il bonifico.
Poi gli detto il codice IBAN:

I
T
6
0
R
...
Ma la cornetta adesso suona a vuoto.
Tuuu... tuu....

Ha messo giu', quel bastardo.
Che gran figlio di puttana.
Te l'avevo detto che non dovevi fidarti di lui, papà.


IMMAGINE DA:
http://www.robertoagostini.it/uploads/images/Ritratti/john%20lennon.jpg

giovedì 15 ottobre 2009


Un altro anno se ne e´andato via, ormai, e sino a ora non ci ha regalato grandi capolavori, anche se come sempre tanta buona musica.
Per questo motivo le aspettative sul nuovo, terzo album degli Editors - l´eventuale album della maturita´artistica - erano molto alte. A nostro giudizio, infatti, la band di Birmingham è una delle migliori, seppur poco originale, tra i tanti presunti "fenomeni" del revival wave britannico di questo scorcio di inizio secolo.
Per questo motivo, dunque, è lecito essere piuttosto delusi dalla deriva sinfonica di "In This Light And On This Evening", dove le consuete e cupe atmosfere dark-wave vengono innaffiate da un proluvio di tastiere e sintetizzatori anni '80 (Depeche Mode/Ultravox/Human League): come quando i Joy Division - dopo la morte di Ian Curtis – diventarono i New Order (noi, e´ovvio, preferiamo i primi).
Non sono molti i brani che vanno bene: "The Big Exit", che non sfigurerebbe in "Kid A" o in "Amnesiac", e soprattutto "The Boxer", il brano piu' ricco di pathos, che fa venire in mente l'espressionismo decadente del Bowie della trilogia berlinese. E poi la title-track, con una notevole coda elettronica, e la conclusiva, sobria, "Walk the fleet road", sulla quale tuttavia aleggia il fantasma dei Crime & City Solution.
Tutto il resto, soffre maledettamente, sotto un'inutile e monumentale - a volte persino stucchevole - sovrastruttura sintetica.

Grande è il rammarico, se si pensa a quello che avrebbe potuto essere.
La settimana scorsa abbiamo infatti avuto la fortuna di ascoltare un loro breve set acustico su RadioDue, durante il quale Tom Smith, con la sua voce piena e tenebrosa, ha entusiasmato il pubblico con alcune interpretazioni da brividi.
Persino "Papillon", il loro pur nuovo singolo – ballabilissimo e quindi battutissimo in radio - e´stata resa in una versione tesa e vibrante: sembrava Johnny Cash cantare, di nuovo, un pezzo dei Nine Inch Nails...

Per ora prendiamo quello che viene - cara di grazia - anche se speriamo che in futuro gli Editors si possano sottoporre a una cura dimagrante.
Restiamo, fiduciosi, in attesa del loro "Nebraska".

LIONE, ULTIMA PARTE




mercoledì 14 ottobre 2009

State bene voi


Sotto zero anche stamattina.
Ma almeno non c'è da spalare la neve, malgrado le previsioni catastrofiche di tutti quei fottuti metereologi. Sarà una precipitazione epocale, ci ripetevano da giorni. Una nevicata senza precedenti.
Invece niente.
Un pò me lo aspettavo, ieri notte ero sceso sino al fiume per una passeggiata con il cane, e il fragore assordante della piena rimbombava sotto un sipario stellato talmente ampio da sembrare finto.
Impiego del tempo per raschiare il ghiaccio dal parabrezza dell'auto.
Il motore si avvia al primo colpo.
La vecchia Renault non dimostra i suoi anni e le miglia percorse e, dopo aver avanzato a strappi solo all'inizio, si arrampica decisa sulla strada impervia e piena di buche.

In paese non c'è anima viva.
Le serrande delle botteghe sono ancora abbassate, e il benzinaio è nascosto nel suo bugigattolo in lamiera metallica, al caldo di una stufetta elettrica difettosa.
Incrocio lo Scuolabus sulla provinciale. Alzo un cenno di saluto all'autista, che poi è anche il cantoniere e persino il necroforo, nelle comunità piccole bisogna arrangiarsi, e il materiale umano a disposizione è quello che è.
Cerco una stazione decente, ma la radio gracchia a ripetizione.
Alla fine mi rassegno ad ascoltare - un'altra volta - l'ultimo dei Massive Attack.
Il sole si alza tardi e timidamente filtra tra i rami spogli delle fitte boscaglie alle pendici del passo appenninico.
Sullo sfondo, un jet squarcia con il suo vapore biancastro il cielo limpido e pulito.
Contro luce, la montagna mostra i suoi muscoli.
Invincibile.

Un altro paese.
L'insegna lampeggiante della farmacia indica la temperatura: meno quattro.
Una pattuglia dei Carabinieri resta immobile nel mezzo del piazzale di asfalto crepato. All'interno dell'abitacolo, un agente legge il giornale scaldandosi con il motore diesel acceso al minimo.
Gran lavoratore.
Abbandono l'auto sul marciapiede e scendo per acquistare due marche da bollo. La tabaccheria è un vero e proprio bazar: vendono funghi secchi, caciotte nostrane, riviste di costume, biancheria intima, giocattoli passati di moda. Come un drugstore della remota frontiera americana.
Mi avvicino al bancone.
C'è qualcuno?, chiedo senza ottenere risposta.
Ehi, c'è qualcuno?, ripeto alzando la voce.
Mentre osservo gli scaffali senza curiosità mi accorgo che nel negozio c'è un freddo bestiale. Improvvisamente, da dietro una porta dal vetro zigrinato di colore brunito compare una signora anziana che mi viene incontro malvolentieri. Indossa una buffa cuffia colorata, tre o quattro maglioni, uno sull'altro, e almeno tre paia di calzettoni di lana, oltre a un paio di pantofole di velluto a coste sottili.
Mi serve in silenzio, dopo un vago sorriso di benvenuto, e allora mi accommiato piu' rapidamente possibile.

Oltrepasso i campi innevati e gli orti addormentati, con le file di cavoli protette dal gelo con teli di plastica trasparente. Le cataste di fascine sono allineate lungo i filari di gelsi, freschi di potatura. Un gruppo di oche grasse e zoppicanti si avvicinano al bordo della strada.
Arrivo a destinazione che non sono nemmeno le dieci.
Dopo un paio di tentativi andati a vuoto, individuo l'ufficio giusto, che si trova in fondo a un ballatoio sospeso nel vuoto. Le antiche lastre di pietra basaltina sono rese scivolose dal ghiaccio, e così avanzo a piccoli passi. Non bastasse, sulla balaustra in ferro battuto c'è un cartello con la scritta: vietato appoggiarsi alla ringhiera.
Devo consegnare una pratica per richiedere un'Autorizzazione al Vincolo Idrogeologico.

Una volta, un agente immmobiliare che doveva trascrivere una clausola su una bozza di compromesso che recitava, piu' o meno, che "l'atto di compravendita era vincolato all'approvazione, da parte delle autorità competenti, del Piano dell'Assetto Idrogeologico", scrisse invece "all'approvazione del Piano dell'Assetto Ideologico". Non so se fu colpa del correttore automatico di Word, avete presente quella graffetta del cazzo che compare all'improvviso e modifica le parole a suo piacimento, sta di fatto che rileggendo piu' volte l'atto, lui non ci trovava nulla da ridire.
Piano dell'Assetto Ideologico.
Non suona male.
Roba da far rabbrividire George Orwell.
Roba da dittature serie.
Era un tipo niente male, quel mediatore. L'unico che ho conosciuto che non portasse scarpe a punta di vernice nera. Era solito darti una pacca sulle spalle, e dirti: Allora, tutto bene, caro architetto? Eh, sì, sta bene lei, caro architetto. Diceva sempre così a tutti, stai bene tu, caro te, state bene voi, cari voi.
(Si racconta che una sera fu invitato a cena da una coppia di amici che viveva con la madre di lei in casa, costretta da oltre un decennio dentro un polmone d'acciaio, e che non appena pronunciò la fatidica frase fu buttato fuori di casa a metà pasto, senza esitazioni, anzi: a calci nel culo).

Il tecnico non c'è.
La mattina va a fare fisioterapia.
Sa, recentemente ha avuto problemi col ginocchio, gli dava continuamente fastidio e così ha dovuto sottoporsi a un piccolo intervento chirurgico, mi spiega una sua collega, per nulla imbarazzata. La tipa non sospetta nemmeno che c'è qualcuno, come il sottoscritto, che deve fare un'ora e mezzo di strada per arrivare sino lì, in quel suo ufficio del cazzo, nel buco del culo del mondo, che alle pareti ci hanno persino attaccato anche la propaganda del candidato del centrodestra alle ultime elezioni provinciali, il che non mi aiuta a mantenere la calma e dunque a rapportarmi con lei con la dovuta educazione.
Sa, è un pò sovrappeso, e quindi le articolazioni sono sempre sotto sforzo.
Non so per quale ragione del cazzo, ma la tipa pensa che il quadro clinico di quel lardoso geometra possa in qualche modo suscitare il mio interesse.
Ah, beh, certo, rispondo io, cercando inultilmente di nascondere la mia irritazione.
E quando arriverebbe?, chiedo dopo una lunga pausa.
Verso le undici, risponde lei allontanandosi per andare a rispondere al telefono.

Non mi rimane che incamminarmi verso la piazza. Fa ancora freddo, e allora mi infilo in un bar qualsiasi. Presso il tavolino piu' vicino all'uscita, due avventori di mezz'età restano seduti a leggere la Gazzetta. Merda, altra brutta notizia. Devo controllare le formazioni, ho il match decisivo al Fantacalcio e non so ancora che Mourinho schiererà Balotelli e Thiago Motta.
Ordino un caffè e prendo posto su uno sgabello.
Dietro a un paravento decorato in modo floreale, un gruppo di donne discute del caso Morgan. Secondo me hanno fatto bene a lasciarlo a casa, dice la piu' giovane. A me sta antipatico, è arrogante e canta male, aggiunge, ma si vede benissimo che mente e che si farebbe scopare da lui, seduta stante, sui divanetti imbottiti del bar.
Un'altra ribatte che invece buttarlo fuori è ingiusto. Se si droga sono fatti suoi, proclama.
Scopro di non avere un'opinione al riguardo.
Mi viene in mente un titolo di Cuore, anno 1991 o 1992: I Beatles si drogavano. Mino Reitano no. Vogliamo parlarne?
Al bancone c'è una donna ancora giovane che continua a lamentarsi del tempo. Quest'anno non sono potuta andare via per via della malattia di mia madre, proclama piu' volte, ma l'anno prossimo scappo a novembre in una qualche isola caraibica e fino a marzo non torno. Ah, vi avverto, fino a marzo non mi vedete piu', ripete lei mentre la barista annuisce severamente.
Sembra quasi una minaccia.
Fosse per me, puoi stare via anche il resto dell'anno, sbuffa sarcastico uno dei due lettori della Gazzetta.
L'altro se la ride sotto i baffi.
Fratello, mi stai simpatico, sul serio, vorrei dirgli io, ma ti prego, lasciami leggere quella Gazzetta del cazzo, che devo vedere se gioca Balotelli.

sabato 10 ottobre 2009


Il mondo, alle volte, gira proprio alla rovescio.
Succede allora che il nuovo singolo dei Kings Of Convenience – strepitoso il loro nome, da catena di ipermercati di bassa marca - balzi in testa, nel giro di poche settimane, alla chart (“50 Songs”) di Radio Deejay, una delle emittenti piu’ danzereccie dell’etere nostrano: addirittura davanti a Muse, Robbie Williams e Madonna.
Però.
Al primo approccio, “Mrs Cold” non è che una delicata ballata minimal, com’è nelle loro corde. Provando a riascoltarla, questa sorta di groove al rallentatore inizia a entrarmi nelle orecchie, inesorabilmente. Al terzo ascolto non ne posso piu’ fare a meno: mi scopro a tamburellare le dita grassocce sul volante, mentre torno a casa, e attraverso lo specchietto osservo la bambina muovere ritmicamente la testa e canticchiare parole a casaccio.
Non a caso, per il duo di Bergen (Norvegia) si tratta de “il disco pop più ritmico che sia mai stato fatto senza percussioni né batteria”.

Strano destino, comunque, per questi due ragazzi assolutamente normali. Li ricordo, ormai diversi anni fa, sul palco del Fillmore di Cortemaggiore. Eirik Glambek Bøe, timido e riservato, suonare e cantare con lo sguardo fisso sul pavimento. E poi Erlend Øye, il prototipo dello sfigato, uno che Nick Hornsby inserirebbe senza esitazioni nella speciale classifica degli “Uomini Piu’ Patetici Del Mondo”, danzare sinuoso, sotto il palco, in uno strepitoso finale (inaspettatamente) elettronico.

“Declaration Of Dependance” è il loro terzo album da studio, dopo un lungo il periodo di inattività, durante il quale i due hanno dato libero spazio a progetti alternativi, e non delude certo le attese.
I pionieri del cosiddetto “New Acoustic Movement” ci regalano ancora una bellissima collezione di malinconiche ballate a là Simon&Garfunkel, in cui trovano spazio atmosfere pacate e intimiste, alcuni rimandi (“Renegade”, “Me In You”) alla scena cool londinese anni ’80 (Style Council, Everything But The Girl) e i consueti arrangiamenti scarni ed essenziali, sebbene qua e là compaiono viole e violoncelli (“Peacetime Resistance” e “Boat Behind”, ovvero il secondo singolo, scritta durante il concerto di Bari nel 2004).

Il tour promozionale toccherà anche in Italia per due date:
* mercoledì 28 ottobre all'Auditorium Conciliazione di Roma;
* giovedì 29 al Conservatorio di Milano.

venerdì 9 ottobre 2009

lunedì 5 ottobre 2009

QUASI COME KEROUAC, 10


July, 26th (TERZA PARTE)

A Chinle non c'è che un brutto fast food, ancora arredato con i divanetti in plastica colorata e un vecchio juke-box, come se da un momento all'altro dovessero saltare fuori Ralph e Fonzie.
Per il resto, le solite baracche prefabbricate, una pompa di benzina, uno steccato che si perde all'orizzonte. E un muro di intonaco scrostato, alla cui sommità qualcuno ha fissato del filo spinato.

Le due dopo mezzogiorno.
Silenzio assoluto.
Sembra di essere sospesi nel nulla.

Abbandoniamo la Toyota in uno spiazzo di terra polverosa nei pressi del Visitor Center e scendiamo lungo un sentiero scosceso.
Il Canyon de Chelly non è certo il Grand Canyon.
E' un canyon minore.
Monumento naturale e storico di grande importanza, è protetto dal 1931. Occupa una superficie di 336 chilometri quadrati, a un'altitudine di 1800 metri.
In ogni caso, non è frequentato da orde di turisti armati di videocamera, e per questo la sua visita è davvero sorprendente.
Ci inabissiamo tra pareti di roccia rossastra, che il fiume ha eroso, inesorabile, nel corso dei millenni. Davanti a noi si aprono scorci spettacolari.
All'improvviso, riusciamo a scorgere il fondovalle, inaspettatamente verde e rigoglioso, tutt'ora coltivato a mais e manioca dai (pochi) autoctoni superstiti. Sperdute in un letto di sabbia dorata, si stagliano le rovine di un antica città Navajo, forse di origine medievale, detta de "l'Antilope" per via del recente ritrovamento di graffiti raffiguranti quello e altri animali selvatici (l'alce, il cervo, il bisonte, l'orso), graffiti eseguiti con ogni probabilità nella prima metà del XIX Secolo.
Tra le vie tortuose del piccolo villaggio Anasazi, tra le abitazioni rupestri diroccate, vediamo aggirarsi alcuni nativi, sono conciati come i pellerossa nei peggiori film western dell'epoca d'oro di Hollywood, e sembrano dei fantasmi che hanno smarrito la propria strada e la propria storia.
Anche qui tutto è in vendita, persino l'orgoglio.
Tutt'attorno c'è una grande desolazione.
D'altro canto, eravamo preparati al peggiore dei possibili scenari. La nostra guida ci aveva avvertito: miseria e alcolismo sono le piaghe che affliggono queste antiche popolazioni. Tra tutte le minoranze etniche presenti negli Stati Uniti, restano quelli con la più bassa speranza di vita alla nascita, il più basso reddito pro capite, il più alto tasso di disoccupazione.

Un vecchio Navajo, coricato sulla sabbia che si scalda al sole, ci chiede l'elemosina.
All'ingresso del parco, un cartello consigliava ai turisti di non dare nulla ai questuanti e ai mendicanti.
Ci frughiamo nelle tasche e gli diamo quel pò di spiccioli che riusciamo a trovare.
Per la modica cifra di un dollaro, annuncia trionfalmente un altro lì accanto, è possibile fotografarlo.
Cazzo vuoi che sia un dollaro.
Se vogliamo riprendere anche sua moglie, che rimane seduta dietro a una bancarella di collanine colorate, lo sguardo assente a fissare il vuoto, dobbiamo pagare il doppio: due dollari in tutto.

La facciamo?
La facciamo.


Un'ora di crepuscolo
avvolta dal fuoco sacro
e in Te entrerò, Spirito delle Sabbie.
La tua notte rinfreschi il desiderio
di stare tra la mia gente, adesso.


(Nostalgia di casa, canto Navajo)

Fotografia: http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Canyon_de_Chelly,_Navajo.jpg

venerdì 2 ottobre 2009

giovedì 1 ottobre 2009

domenica 27 settembre 2009

I Pearl Jam ai tempi di Obama


Il Nemico N.1 – George W. Bush: lui, le sue guerre e le sue bugie - non c’è piu’, ormai, e dunque gli ex-ragazzi di Seattle si vedono costretti, per una volta, ad abbandonare il consueto impegno politico e a virare verso toni meno accesi e vibranti.
Il loro nono lavoro di studio - per il quale è stato richiamato Brendan O'Brien, produttore di “Vs” e “Vitalogy”- ha sì un impatto diretto e immediato, senza fronzoli, ma testi piu’ sereni e ottimisti, anche se qua e là riaffiora una vena malinconica.
Il titolo (“Backspacer”) è ispirato all' omonimo tasto per macchine da scrivere - caduto in disuso negli anni '50 – con le quali Vedder è solito comporre i suoi pezzi, mentre per l’art-work è stato coinvolto il disegnatore “politico” Tom Tomorrow, conosciuto durante la campagna elettorale di Ralph Nader nel 2000.

Il disco – undici brani per poco piu’ di mezz’ora di durata - si apre alla grande con “Gonna see my friend”, un robusto garage-rock alla Stooges. “Got Some” rimane a galla con fatica, grazie a un sound ruvido e all’enorme mestiere della band, mentre “The Fixer” è un singolo spento e prevedibile. Inserita tra due episodi tutto sommato dimenticabili, “Just Breathe” è certamente il clou, una ballata da brividi – con un insolito accompagnamento d’archi - basata su un pezzo strumentale di Eddie Vedder da “Into the Wild", soundtrack dell’omonimo film diretto da Sean Penn. “Unthought Know” inizia bene, con un’unica variazione in costante aumento, “Supersonic” è il pezzo da “pogo” e dimostra - se davvero ce ne fosse il bisogno - la loro incredibile velocità d'esecuzione, e a seguire ci sono il pop sofisticato di “Speed of Sound” (che non è una cover dei Coldplay, anche se forse potrebbe esserlo…) e il pezzone grunge di “Force of Nature”. In chiusura, la soffertissima “The End”, con quel titolo talmente evocativo e impegnativo: avranno almeno chiesto il permesso a James Douglas Morrison, in arte Jim Morrison?

In sintesi, un album che difficilmente potrà passare alla storia, anche della storia della stessa band: in ultima analisi, davvero non si tratta di uno dei loro episodi migliori.
Tuttavia, Vedder e soci sembrano sinceri. Sembrano divertirsi ancora e metterci tutto il loro entusiasmo per fare un rock classico e tradizionale, solido ed emozionante, in una parola: onesto.

Insomma, come cantava Mick Jagger: “It’s only Rock’n’Roll, but I like it”.

giovedì 24 settembre 2009



Diciamo la verità, se non ci fosse Mr. Murdock, la tv ormai potremmo anche tenerla spenta.
L'oasi di Raitre è infatti in trepida attesa dell'Ennesima Grande Epurazione, in nome della libertà di stampa tanto sbandierata dai prezzolati dell'erotomane capo, e il resto del palinsesto via etere è - come dice il cugino Franz - merda pura.
Della quale la Marcuzzi, quella poveretta, che succhia i wurstel in prima serata su Italia Uno è certo uno dei punti piu' bassi mai raggiunti. L'unica soddisfazione è che da lì si può solo risalire.
Solo sul satellite, pur anch'esso dominato in gran parte da robaccia, è ancora possibile trovare qualcosa di buono.
L'altra notte, su Cult, mi sono imbattuto - per esempio - in uno strepitoso (e pluri-premiato) docu-film su uno scriteriato e folle equilibrista, tal Philippe Petit, francese, che nel 1974 camminò o meglio danzò, sospeso in aria, su una corda appositamente tesa tra le due torri gemelle.
Il video - intitolato "Man On The Wire", è del 2008 - mostra immagini bellissime di altre sue imprese storiche, tra cui la passeggiata di Notre Dame a Parigi e quella sul porto di Sidney, con la grandiosa Opera House di Utzon sullo sfondo.
Accompagnato, su Cult, da un'intervista a Paul Auster, visibilmente emozionato.
Imperdibili anche le dichiarazioni di Nixon in un vecchio schermo in bianco e nero, patetico nel suo dire: "Io non sono un imbroglione", di lì a qualche giorno fu costretto a dimettersi.
Cercate il Dvd, è imperdibile.

sabato 19 settembre 2009

Il mio tema


Il castello di Montichiaro è avvolto, spettrale, nella nebbia.
Uno spiraglio di luce, assai debole, filtra tra i boschi che costeggiano il fiume, boschi resi umidi dalla brina mattutina. Sono bastati pochi giorni di pioggia, e già si sono riaperte le frane, dappertutto la strada è invasa da pietre e terriccio: sembra quasi che la montagna non riesca piu’ a restare su, che abbia invece la volontà di cadere, di rotolare a valle.
Non bastassero le frane, un cinghiale ha attraversato la provinciale, l’altra notte, proprio mentre noi tornavamo dalla riunione organizzativa per la scuola. Un bell’esemplare, il pelo folto e grigiastro, le zanne affilate in evidenza. Immobile, illuminato dai fari della nostra auto, a lungo ci ha osservato incuriosito. Trovarselo davanti, così improvvisamente, al buio, dopo una curva, vi assicuro, un po’ vi cagate sotto.
Alla riunione ci dicono che Agnese ha avuto finalmente i suoi maestri unici, quattro maestri unici, per la precisione: la maestra unica di matematica, la maestra unica di italiano, la maestra unica di inglese, il maestro unico di religione.
Crepi l’avarizia.
I loro nomi si sono saputi soltanto nella notte, dopo una lunga e inutile attesa, dopo una serie concitata di fax e telefonate. Tuttavia, non si può sapere se saranno loro ad accompagnarla durante il suo primo anno di scuola: a fine ottobre, per via degli strani meccanismi che regolano la scuola primaria, verranno richiamate le ulteriori code di precari in lista d’attesa, che potrebbero optare per Travo, e dunque lo scenario potrebbe cambiare. Sostituzioni, trasferimenti, e poi i soliti riscorsi, le sentenze del TAR di turno, ecc, e quindi fino a Natale, boh. E’ come il calciomercato di qualche anno fa. Sempre aperto.
Cazzo, mica male come partenza.
Quella di italiano, essendo di ruolo, quella però non cambierà. Deve aver firmato un triennale. A meno che non si svincoli per via della Legge Bosman…
In compenso i tagli – da alcuni piuttosto comicamente definiti “Riforma” – hanno riguardato non solo i docenti ma anche i bidelli, o meglio “personale ATA” o "AFA", non ho capito bene. E’ solo grazie ad alcuni di loro che – pur non essendo a loro richiesto – volontariamente (chissà se Brunetta lo sa) scorrazzano in tutta la valle, da un “plesso” all’altro, se negli ultimi tempi riesco a tenere aperte le scuole qui in montagna, dice sconsolata la direttrice. Ha lo sguardo abbattuto ma un piglio ancora deciso, nonostante tutto.

Il primo giorno di scuola.
Agnese è tranquilla.
Nemmeno un po’ di commozione, nemmeno una lacrima.
Certo, è corsa ad abbracciare sua mamma, appena ha sentito la campanella. La campanella che segnala l’inizio di tutto, un brivido che corre lungo la schiena.
Lo zaino delle Winx è stracolmo di libri, libretti, quaderni e quadernoni. E’ già piu’ pesante di un divanoletto. In fondo allo zaino, ci sono una mela e un succo di pera. Una merenda frugale. Come Pinocchio. O come Vasco. Mica come io e Paulette, che tutte le mattine ci compravamo una focaccina tonda dal vecchio Fumi, che aveva il negozio di alimentari proprio sotto casa. Non a caso, eravamo grassi inquartati. Costava sessanta lire: me lo ricordo bene. Anche se sono passati trentacinque anni. Una vita fa.

L’aula di Agnese è come è sempre stata.
Nulla è cambiato.
Ma nulla davvero.
Ci sono ancora i banchetti con il ripiano di formica verde chiaro, le seggioline di legno curvato, la lavagna con i gessetti colorati e il cancellino a spirale, come quello che ci lanciavamo dietro la schiena appena la maestra si girava, la cattedra con la struttura metallica e il buco tra il top e il laterale, attraverso il quale spiavamo le gambe di quella supplente di matematica. Portava sempre le calze a rete, quella zoccola.
C’è persino la carta geopolitica dell’Europa.
E poi un bellissimo pavimento di graniglia, di quelli di una volta. Solo le vecchie finestre in legno sono state sostituite dalle nuove in PVC. Erano mezze marce e lasciavano passare gelidi spifferi.
E' come fare un viaggio indietro nel tempo.
Anche i nomi dei suoi compagni sembrano arrivare dal passato: Teresa, Edoardo, Letizia, Giorgia.
L'aula non grande, ma i bambini sono solo undici, per cui c'è spazio da buttare. Vi chiederete: così pochi? Da queste parti, trattasi di classe assai numerosa. Perlomeno, è stato scongiurato il rischio di una pluriclasse.
A dire il vero, qualcosa che non quadra c’è: un quadretto di Papa Woityla, sopra la cattedra. Pensavo ci dovessero mettere il presidente della Repubblica. Non che sia un bell’uomo, quello no. Ma insomma. D’altronde, quì, la scuola chiude al mercoledì pomeriggio, perché il parroco fa la dottrina.
Guarda sempre il lato positivo delle cose, CJ. Almeno non c’è il pastore tedesco. Se c’era Nazinger, allora sì, che erano cazzi.
Se c’era Nazinger, mi inversavo sul serio.
Ma, in fin dei conti, cosa ti aspettavi, CJ?
Divanetti in finta pelle? Una tappezzeria etnochic? Tavolini in polipropilene con gambe in acciaio inox, magari disegnati da Philippe Starck? Un maxischermo a cristalli liquidi al posto della lavagna?
Niente di tutto questo, per fortuna.
C’è ancora, nonostante tutto, nonostante i tagli, la cara e vecchia scuola, grazie al cielo.
Ancora qualcosa a cui aggrapparci.

Mentre torniamo a casa, io e Sandra ci chiediamo: cosa starà facendo adesso Agnese?
Pagheremmo per essere là dentro. Sul serio.
L’importante è che si comporti bene, ci diciamo. Che poi, io non lo so se mi comportavo bene, a scuola. Di sicuro, mi toglievo sempre le scarpe, almeno in prima lo facevo, e spesso mi sdraiavo sul pavimento per disegnare. Me lo ripete sempre la mia vecchia maestra, tutte le volte che la incrocio sul sagrato della chiesa. Anche a casa, mi piaceva stare sdraiato sul pavimento - freddo - di marmo del salotto. Un modo di agire non del tutto civile, adesso che ci penso. In compenso, sapevo già leggere e scrivere. Sfido io, con tutti quei temi che ci faceva fare la Manza. Quasi sempre sulla mela. Tema: la mela. Non svariava troppo nei titoli, quella iena.

La scuola di Agnese adesso è lontana, e noi corriamo già. Dobbiamo affrontare il nuovo giorno che avanza. Con meno voglia, stamattina.
Giusto un pensiero sul tempo che scorre troppo in fretta, inesorabilmente.
Ci pensi poco, magari perchè hai ancora pochi capelli bianchi, o perchè ancora hai voglia di fare un pò il cazzone con gli amici, quelli rimasti, quelli veri.
Però passa lo stesso.

Agnese, alla vigilia del suo primo giorno di scuola, mi ha regalato un piccolo cuoricino fucsia – anzi fuffian, come diceva lei quando era piu'piccola – e lo ha attaccato sullo schermo del mio i-Phone.
Così ti ricorderai sempre di me, mi ha detto.
Ok, ho risposto io.
Così ti ricordi me quando sei morto, ha aggiunto.
Le ho sorriso, un sorriso amaro.
Non so se lo prenderò su, sai. Probabilmente, laggiu’ non c’è campo.


E dirò di pietre consumate, di città finite, morte sensazioni,
racconterò le mie visioni spente di fantasmi e gente lungo le stagioni
e canterò soltanto il tempo...