martedì 20 dicembre 2011

Il pagellone del 2011



20
TOM WAITS – Bad As Me
VINICIO CAPOSSELA – Marinai, Profeti e Balene
Il paragone ad alcuni non piacerà, ma se esiste un Tom Waits italiano, allora quello è Capossela. L’ultima opera del cantautore lucano – recensito in esclusiva per PiacenzaSera dall’amico Big - è un concept che ha per tema il mare, con particolare riferimento alle opere di Melville e la mitologia omerica, aperto a un’incredibile varietà di sonorità.
E anche quel vecchio bastardo di Waits non tradisce le attese: probabilmente non aggiunge nulla di nuovo al suo vasto repertorio, ma stupisce ancora con la sua musica elegante e desolata, in equilibrio tra ballate pianistiche di sconfinata dolcezza - seppur avvolte dal fumo e dalla polvere - e i suoi blues sporchi, bislacchi e asimmetrici.

19
TINARIWEN - Tassili
GROUP DOUEH – Zaina Jumma
Dall’Africa nera due dischi bellissimi.
I TINARIWEN, dal Mali, sono ormai noti anche qui da noi.
Tassili – il loro disco più malinconico e intimista - ripropone il celebre Tishuomarem, ovvero un’imperdibile miscela di world-music, tradizioni tuareg e desert-blues.
I GROUP DOUEH, dalla Mauritania, sono invece una sorpresa. Per usare le parole di Storiadellamusica.it: percussioni indigene, reiterazioni psichedeliche, bordone di organo tenuto in sottofondo, richiami tribali, ghirigori afro di acustica che vanno a disegnare complessi raga poliritmici, FARNK ZAPPA che rilegge l’antico folklore aurale dei beduini.

18
THE DECEMBERISTS – The King Is Dead
Girerà a lungo sui nostri Ipod: terminava così la nostra recensione, lo scorso gennaio.
E così è stato.
La band di Portland, Oregon, riscopre le radici e l’amore per la tradizione folk-rock in una calorosa e calda profusione di mandolini, fise e armoniche a bocca: una sorta di Bringing It All Back Home, insomma.

17
ANNA CALVI – Anna Calvi
Le charts inglesi vedono la lotta tra ADELE e FLORENCE & THE MACHINE, ma il gentil sesso non domina solamente nel pop – seppur sofisticato - da classifica.
Prendiamo l’eccellente esordio di Anna Calvi, nuova sacerdotessa dark osannata da BRIAN ENO e NICK CAVE: una produzione assai raffinata, quasi perfetta, che forse toglie un po’ di calore all’interpretazione di Anna, a tratti quasi glaciale.

16
ELBOW - Build A Rocket Boys!
LOW – C’mon
Le stelle polari dei primi sono i capostipiti dell’art-rock britannico colto e ambizioso: ENO, FRIPP, WYATT, SYLVIAN. E soprattutto GABRIEL.
Vero: svanito l’effetto novità, qua e là affiora il manierismo o un’enfasi ingiustificata, o una certa magniloquenza. La stessa critica mossa anche ai GENESIS: e noi che abbiamo amato alla follia Foxtrot e Selling England By The Pound ci teniamo stretti anche gli ELBOW.
Reduci da un’improvvida svolta elettronica, i LOW tornano alle loro radici, ovvero alle sonorità slowcore (SLINT, CODEINE) che ne avevano caratterizzato i fulgidi esordi.

15
VACCINES – What Did You Except From The Vaccines?
Si sono guadagnati, indubbiamente, il Grammy – dovrebbero inventarlo, se già non esiste - come miglior titolo dell’anno: “Che cosa vi aspettavate dai Vaccines?”, tante e tali erano le aspettative per il loro esordio. Questi esponenti della working class londinese suonano un garage-rock godibile e divertente (STROKES), con venature dark e similitudini con la scena wave (FRANZ FERDINAND), mettendo insieme una manciata di pezzi niente male.
Poi, per passare alla storia (del Dio Rock, si intende) servirà ben altro.

14
M83 – Hurry Up, We’re Dreaming
Esponenti del cosiddetto revival shoegaze – insieme agli ZOLA JESUS, che qui collaborano nell’intro di apertura al doppio album – i francesi M83 hanno letteralmente diviso la critica, raccogliendo stroncature feroci e commenti estasiati (Midnight City è addirittura il pezzo dell’anno per Pitchfork e per Stereogum).
A noi piace la loro elettronica così epica, in sospensione, tra MERCURY REV e MY BLOODY VALENTINE.

13
IRON & WINE - Kiss Each Other Clean
DESTROYER - Kaputt
IRON&WINE è il moniker del texano Sam Beam, giunto al quarto album. Frettolosamente catalogato sotto l’etichetta folk-rock, propone una grande varietà di soluzioni sonore: arrangiamenti orchestrali, standard jazz, ballate West Coast, blues e pulsioni etniche.
DESTROYER sta invece per DAN BEJAR, da Vancouver, Canada.
Il suo è un soft-rock assai elegante e rarefatto, dall’atmosfera vagamente jazzy e caratterizzato da sezioni ritmiche anni ottanta.

12
KASABIAN - Velociraptor
Vallo a sapere, il motivo per cui i Kasabian non godano qui da noi di buona stampa.
Forse perché fondamentalmente sono degli stronzi: atteggiamento strafottente, cantato arrogante e look tamarro.
Velociraptor conferma la band di Leicester come una delle migliori del panorama britannico, certamente meno ripetitivi rispetto alle next big things d’oltremanica dello scorso decennio (ARCTIC MONKEYS, BLOC PARTY, KAISER CHIEFS).
Insomma, saranno pure stronzi, questi Kasabian, ma sanno fare tutto e bene.

11
THE WEEKND – House Of Balloons
Il progetto The Weeknd risponde al nome del cantante canadese Abel Tesfaye, di evidenti origini eritree.
Il suo mixtape di debutto è totalmente autoprodotto, ha una bellissima cover vintage ed è disponibile sul web in free download.
Uno straordinario R&B elettronico.

10
GIRLS – Father, Son, Holy Ghost
Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
La band di Christopher Owens - cresciuto nella setta Children of God e poi "riscattato" da un milionario di San Francisco – replica il successo dei primi lavori con una nuova cavalcata psichedelica ed elettrica, permeata da un suono old e da un’attitudine hipster.
Una delle nuove grandi band americane.

09
MEGAFAUN - Megafaun
REAL ESTATE - Days
A completare il trionfo dell’Americana, altre due bands eccezionali.
I REAL ESTATE provano a colmare la nostra nostalgia per le chitarre jingle-jangle alla BYRDS e CSN&Y intrecciando arpeggi acustici cesellati con finezza e grande bravura.
I MEGAFAUN, dalla North Carolina, con questo disco omonimo ci regalano uno straordinario compendio enciclopedico del rock a stelle e strisce.

08
J. MASCIS - Several Shades Of Why
MASCIS esibisce una strepitosa zazzera fluente e color grigio cenere, ed è il leader dei DINOSAUR JR, band campione del noise primi anni ’90: tra i reduci di quella straordinaria stagione, ottimi anche i lavori di STEPHEN MALMKUS (ex PAVEMENT) e BILL CALLAHAN (ex SMOG).
Questo disco acustico conferma la sua ritrovata vena compositiva. Depurate dai consueti muri di chitarrone, da feedback e scariche violente di amplificatori, restano le sue melodie, piacevoli e struggenti, e la sua voce nasale, indolente, sempre piu’ clone dell’idolo di sempre, NEIL YOUNG.

07
VERDENA - Wow
I ragazzi di Albino (Bergamo) sono diventati grandi: superata la fase di sterile copiatura del modello SONIC YOUTH, danno alle stampe un mastodontico lavoro composto da ben ventisette pezzi brevi e concisi, che non annoia mai grazie a una notevole varietà (e maturità) compositiva e a continui cambiamenti di scena.
Assolutamente il disco italiano dell’anno.

06
FLEET FOXES – Helplessness Blues
Il blues della vulnerabilità è il secondo album per il combo di Seattle, una delle rivelazioni di questo scorcio di inizio millennio, e propone ancora uno straordinario folk barocco e allo stesso tempo leggero, morbido e flautato, fatto di cori e melodie ariose; solidamente ispirato al mondo hippy degli anni ’70.

05
JAMES BLAKE – James Blake
Il giovanissimo (1989) e talentuoso Dj e produttore inglese – inserito dalla BBC al secondo posto del "Sound of 2011" – spacca letteralmente con le sue basi dubstep e il suo minimalismo elettronico, mai troppo compiaciuto o sintetico, ma anzi permeato da una vena soul (è cresciuto ascoltando STEVIE WONDER, D’ANGELO e SLY & FAMILY STONE) e da una voce capace di bassi profondi e di calde intonazioni.
Il gospel come dovrebbe suonare nel XXI secolo.

04
ST. VINCENT
Annie Clark, 28 anni, utilizza un nick name preso bizzarramente in prestito dal Saint Vincent’s Catholic Medical Center, ovvero l’ospedale in cui morì il poeta Dylan Thomas – colui che ispirò lo pseudonimo a un certo ROBERT “BOB” ZIMMERMANN.
La polistrumentista texana ci regala uno dei dischi più belli e intensi dell’anno: la sua musica è tecnicamente perfetta, onirica e glaciale, grazie all’abbandono delle sovraincisioni che avevano appesantito le opere del recente passato; non mancano persino i ritornelli-killer, come nel singolo danzereccio Cruel.

03
P.J. HARVEY – Let England Shake
La dispora OASIS (Noel solista, Liam con i BEADY EYE) si traduce in musica leggera e nostalgica, i COLDPLAY si divertono a duettare con RIHANNA e sbancano le classifiche di vendita, i RADIOHEAD si sono involuti in un’elettronica minimale di classe, tuttavia ostica e monocorde.
Tra i big della scena britannica, optiamo per l’ennesimo capolavoro di Polly Jean.
Let England Shake mette d’accordo tutti, ed entra in tutti polls di fine anno.
E chi siamo noi, per lasciarlo fuori?

02
WILCO – The Whole Love
I migliori rappresentanti dell’Americana contemporanea tornano con un nuovo capolavoro per la loro neonata etichetta, dBpm.
L’apertura è eccezionale, con Art Of Almost, un funky elettrico da lasciare senza fiato, senza alcun dubbio uno dei brani dell’anno.
Dopo, si torna alla normale amministrazione WILCO.
Una normale amministrazione di altissimo livello, si intenda: da oltre 15 anni registrano dischi ispirati e ottimamente suonati.

01
BON IVER – Bon Iver, Bon Iver
Vittoria per distacco per Justin Vernon.

Non era facile dare un seguito a For Emma, Forever Ago. Si trattava di una raccolta di esili ed eteree canzoni, composte dal leader ritiratosi in un capanno isolato del Wisconsin dopo una delusione amorosa e al termine di una lunga malattia. Questo secondo album eponimo – anzi doppiamente eponimo, Vernon preferisce chiamarlo Bon Iver, Bon Iver – non cade nel tentativo di ripetere quel mood unico e irripetibile, ma invece arricchisce il loro repertorio di nuove trame, di un sound piu’ strutturato, di arrangiamenti piu’ sofisticati e orchestrali, senza però tradire gli elementi più tipici del suo stile ormai codificato: la voce in falsetto, trattata grazie all’uso del vocoder e a sovraincisioni multiple, le suggestive e malinconiche melodie a cavallo tra la tradizione folk ed emotività soul, una comunicatività unica malgrado i testi quasi incomprensibili.
Nel frattempo è infatti arrivato il successo, quello con la S maiuscola, e da lì collaborazioni illustri ed eterogenee e attestati di stima. Insomma, deve aver pensato Justin: cosa cazzo ci torno a fare in quel fottuto capanno del Wisconsin?
Siamo in presenza di un vero artista: BON IVER è – in campo musicale - la cosa piu’ bella che ci è capitata da qualche anno a questa parte.

domenica 11 dicembre 2011

Real Estate


E' quasi tempo di chiudere l'anno - basta di finirla, diceva quel tale – ed è quasi il momento di stendere la consueta playlist di fine anno; c’è ancora il tempo, tuttavia, per segnalare ai lettori alcune uscite recenti.

Da Manchester - orfana ormai da secoli dellaMadchester che fu - arrivano i Wu Lyf, acronimo per "World Unite! Lucifer Youth Foundation!”, ovvero molto di più di una semplice band: sono un centro sociale, una società di produzione, una no profit, un collettivo anarchico di artisti e graffitari.
Sound energico seppur cupo e dalle venature dark-punk, il disco piace per la sua compattezza e per una scrittura già matura, non scevra da una certa magniloquenza da musica sacra (vedi profusione di organi e cori millenaristici e/o apocalittici, a là Swans e Crime and City Solution).

In concomitanza con l’uscita di un mastodontico Greatist Hits dei R.E.M. - ce ne era proprio bisogno? Trentasette brani straordinari che ripercorrono tutta la straordinaria carriera del gruppo di Athens, e tre inediti non irresistibili: We All Go Back To Where We Belong, A Month Of Saturdays e Hallelujah (tranquilli, non è l’ennesima cover da Cohen) – i Real Estate di Matthwe Mondanile provano a colmare la nostra nostalgia per le chitarre jingle-jangle alla Byrds e CSN&Y.
Bella cover (l’argomento, ovvio, è la speculazione edilizia), arpeggi acustici - semplici e forse un poco monocordi - eppure cesellati con finezza e grande bravura.
Con il tempo, alcuni brani entrano nel cuore: Easy, It’s Real, Municipality, Wonder Years e infine la splendida Younger Than Yesterday (dicevamo dei Byrds…)

Per ultimi gli Atlas Sound, progetto collaterale di Bradford Cow, leader dei Deerhunter e figura emergente del movimento indie.
Meno rumorosi e più onirici rispetto agli autori di Halcyon Digest, uno dei dischi più incensati del 2010, propongono un folk psichedelico leggero e fluido, persino acquatico – a noi vengono in mente lo Steve Hillage di Fish Rising e certe cose dei Gong –, come suonato in apnea.
Soffice ed elegante, la colonna sonora ideale per una stressante giornata di lavoro in ufficio.

domenica 4 dicembre 2011

Bad



Il buonismo - ai tempi del governo tecnico - torna inevitabilmente alla ribalta, e fortuna che ci sono in giro ancora dei cattivi.

Come Lou Reed e i Metallica, ad esempio.
Se avete visto la copertina di alcune riviste in edicola, con quella foto in cui i nostri sfoggiano un look total black e dei ghigni da duri di periferia, un brivido avrà percorso la vostra schiena.
E che dire della cover di Lulu (ispirata da una piece teatrale composta dal tedesco Frank Wedekind oltre cento anni fa, sul girovagare sbandato di una ragazza afflitta e tossica), con un’inquietante manichino femminile dalle braccia monche e una scritta che pare fatta con il sangue?
Cattivissimi.
La strombazzata collaborazione tra i mostri sacri del metal e il leggendario ex-leader dei Velvet Underground si rivela tuttavia un album mastodontico, rumoroso, troppo; e lungo, lunghissimo; a volte inutile; spesso mortalmente noioso.
Confessiamo di non essere riusciti a completarne l’ascolto.

Un altro a essere indiscutibilmente cattivo è Tom Waits: voce rauca e aura da bohemien maledetto, abuso costante di alcol e tabacco, pessime frequentazioni.
Il suo nuovo lavoro, a quasi sette anni da Real Gone, si intitola infatti Bad As Me.
Il cantautore di Pomona non tradisce le attese.
Probabilmente non aggiunge nulla (o quasi) di nuovo al suo ormai vasto repertorio, ma è innegabile come egli sia ancora capace di affascinare e di ammaliarci con la sua musica elegante e desolata, giocando con misura ed equilibrio all’eterno dualismo - mai sopito - tra le ballate pianistiche di sconfinata dolcezza, seppur avvolte dal fumo e dalla polvere (New Year’s Eve, Kiss Me, Pay Me) e i blues sporchi, bislacchi e asimmetrici (la title-track, Hell Broke Luce e il trittico di partenza Chicago, Raised Right Man e Talking At The Same Time, che ci riporta ai capolavori degli anni Ottanta, quelli di Rain Dogs per intenderci).

Insomma: cattivo sì, ma non patetico.