domenica 28 novembre 2010


Poi dopo un proluvio di campionamenti e di rumorismi, di distorsioni e di feedback, di sperimentazioni e di alchimie indie-troniche (Neil Young e Sufjan Stevens, per non fare nomi), uno è normale – come dice Totti: lo avete notato?, inizia tutte le frasi con “è normale che…” – che torna a cercare il sano e classico rock’n’roll, quello di duechitarreilbassoelabatteria, pochi fronzoli e niente strane idee in testa.
E allora eccoci servito il terzo album della band canadese dei Black Mountain, Wilderness Heart, omaggio esplicito e non troppo originale ai maestri Led Zeppelin – nella loro versione piu’ folk, quella di Tangerine - e Black Sabbath. Piu’ diretto rispetto ai lavori precedenti, si fa piacere per i duetti canori e le sonorità sixties di The Hair Song (notevole il videpclip, in heavy rotation su b:n) e Buried By The Blues.

Una proposta ancor piu’ interessante arriva da una zona limitrofa al Canada, ovvero Seattle, Washington, un tempo gloriosa culla del movimento grunge e oggi con la vicina Portland, Oregon (Tu Fawning, Menomena, Decemberists: a questo proposito, l’attessisima uscita del loro The King Is Dead è slittata all’inizio di gennaio) di nuovo mecca della scena indie statunitense.

Bizzara band composta da sette musicisti capelloni - spesso e volentieri anche barbuti –, gli Hey Marseilles propongono un fantastico folk orchestrale con un’ottima sezione di fiati, violoncelli e una fisarmonica, memore della lezione dei maestri Decemberists e di Okkervil River.
A dispetto del loro nome, che lascerebbe presagire un gusto un po’ francese, magari retrò, essi rivolgono però la loro attenzione alla grande tradizione celtica: non a caso sul loro sito è possibile ammirarli in una recente session acustica al Doe Bay Fest 2010, svoltosi alle Isole Orcadi (http://www.heymarseilles.com/home/).
Il loro disco d’esordio, intitolato To Travel And Trunks, si rivela un ascolto piacevolissimo, ovvero oltre un’ora di ballate malinconiche rivisitate con piglio quasi progressive (Cannonballs, Someone To Love) o con stile cantautoriale (You Will Do For Now); il tono rimane bucolico e naif , piuttosto dimesso ma non cupo, comunque molto lontano dal clima spesso caciarone e ad alto tasso alcolico di parte della scena indie-folk britannica (Mumford & Sons).

giovedì 25 novembre 2010

martedì 23 novembre 2010

Persino l'Oregon è meglio che qui


Puntualmente, in questo periodo esce una serie impressionante di lavori in grado di scombussolare, e anche di sovvertire, la ormai costruenda classifica di fine anno, che uno già ci mette il suo bell’impegno perché non è mica facile, men che meno quest’anno che in giro non ci sono padroni (e forse nemmeno padroncini).

Uno di questi lavori è senza dubbio l’album d’esordio (per la loro label personale, la Provenance Records) dei Tu Fawning, splendidi outsider da Portland, Oregon
Si sono fatti conoscere come supporters dei piu’ noti Menomena - anche loro di Portland, Oregon - autori nel corso del 2010 di Mines, un interessante art-rock con inclinazioni progressive e pulsazioni etniche.

Hearts On Hold è un disco dalla venatura dark.

L’incedere marziale della opener Multiply A House chiarisce da subito il contesto: il lamento funebre di Corrina Repp riporta alla mente la irripetibile stagione di This Mortail Coil e Dead Can Dance. La successiva The Felt Sense mette in mostra invece un drumming teso e nervoso, droni tastieristici e un coro campionato di indubbia efficacia. Ma è con il tango da cabaret di Sad Story e, ancor piu’, con la sobria The Mouth Of Young (con un canto a la’ Nico e una soluzione ritmica schizoide) che ci rendiamo conto di essere davanti a un piccolo capolavoro.

Il disco si mantiene su livelli ottimi, con una Apples and Oranges in territori Arcade Fire, la litania di Just Too Much, la quasi psicho Lonely Nights (non a caso qualcuno ha scomodato i Flaming Lips) e la suggestiva Diamond In The Forest – già edita in passato per sola voce e piano – quasi un omaggio ai maestri Menomena.

Il finale è eccelso, con una I Know You Know che mescola con sapienza sfumature anni Quaranta (Billie Holiday), chitarre abrasive e fisarmoniche gitane, cori terribilmente tetri e un trip-hop tipo Portishead.

Che dire: li ritroveremo nel classificone, e molto in alto, penso.

mercoledì 10 novembre 2010

sabato 6 novembre 2010

The loner


Alienato e disturbato, a tratti persino paranoico, la nuova ed ennesima fatica di Neil Young è un ascolto tutt’ altro che scontato.
Cavallo pazzo – stavolta senza i fidi Crazy Horse - canta con voce straziante accompagnato solo dalla sua chitarra – mai così distorta – e da una sequenza di rumori, feedback, riverberi elettronici ed echi (il titolo Le Noise è una sin troppo esplicita dichiarazione di intenti, oltre a un gioco di parole con il nome del produttore Daniel Lanois). L’artista canadese, d’altro canto, non è nuovo ad amplificatori a balla e ad arrangiamenti noisy: da qui la stima smisurata e incondizionata di band storiche come Nirvana e Sonic Youth (e nostra). La particolarità, stavolta, è che in nessuno degli otto pezzi della scaletta compaiono le percussioni.
La sensazione è che la sovrastruttura – sobria e non invadente, ricca di sottili sfumature - messa in piedi dall’alchimista Lanois aiuti sia i brani piu’ deboli e prevedibili (Someone’s Gonna Rescue Me, Angry World) sia quelli invece davvero notevoli, come l’opener Walk With Me, il singolo Hitchhiker e la conclusiva, oscura, Rumblin’.
Convincono meno le consuete ballate acustiche, ovvero la delicata Love And War – dal testo terribilmente retorico: “ho visto un sacco di giovani uomini andare in guerra e lasciare un sacco di giovani spose ad aspettarli. Le ho viste cercare di spiegare ai loro figli e ho visto un sacco di loro non riuscirci. Hanno cercato di spiegare perché perché il papà non tornerà mai più a casa…” - e la lunga e un tantino noiosa Peaceful Valley Boulevard.
Noi di PiacenzaSera salutiamo dunque uno dei nostri eroi di sempre, apprezzandone il coraggio e la voglia di sperimentare, di mettersi continuamente in discussione.
Diciamo la verità, non avremmo in nessun caso infierito su di lui.
E’ come quando un vecchio zio a cui vogliamo bene ci mostra orgoglioso i suoi presunti progressi con il pennello: davanti ai suoi paesaggi bucolici in acrilico, con le vacche al pascolo o le barchette che solcano il fiume, mica possiamo dirgli che sono delle croste abominevoli.
Gli diciamo:
Uhm, niente male, zio. No, davvero, mi piace.
E’…. e’…. è…. sì, mi piace.
Sul serio.

mercoledì 3 novembre 2010

Brugole pop


Hanno la colpa di aver riempito le case di tutto il mondo – che dico: dell’universo – di poltrone sfoderabili POANG e di librerie EXPEDIT, di KLINSBO, KLIPPAN e di LJUSDAL.
Per non parlare degli imballaggi di cartone e di tutte quelle fottute brugole, chi non ha in casa almeno una trentina di brugole dell’Ikea?
Per questo motivo gli svedesi si meritano – se esiste una giustizia divina – le pene dell’inferno sino all’eternità.
Ciò malgrado, negli ultimi tempi gli scandinavi si sono fatti notare per una scena pop viva e vegeta.
I Radio Dept sono un terzetto di Lund che ha dato alle stampe il terzo album (Clinging To A Scheme) verso l’inizio dell’anno, per l’etichetta apripista Labrador. Suonano un pop sofisticato e malinconico, senza grosse pretese o ambizioni, ma straordinariamente piacevole: spiccano nella scaletta Never Follow Suite, con una base elettronica soft e la danzereccia David, mentre This Time Around ha un incipit che ricorda la mitica Victoria dei Kinks e poi si apre a un’atmosfera shoegaze (My Bloody Valentine, Ride).
Interessanti anche i JJ, che bissano il successo di critica dell’album di debutto (JJ N.2, che seguiva l’EP di debutto intitolato semplicemente JJ N.1) anch’essi guardando alla madre Inghilterra: dreamy-pop dall’accento minimale per questi ragazzi di cui si sa poco o nulla, persino la cover dell’album è tutta bianca con la semplice dicitura JJ N.3.
Per ultimi i Sonnets, il cui recente Western Harbour Blue è stato eletto disco del mese di settembre su Ondarock.it.
Questi cinque ragazzi di Malmoe sono i paladini del cosiddetto New Cool, ovvero un vero e proprio revival del sound britannico anni ’80 (Style Council, Aztec Camera, Everything But The Girl, Prefab Sprout); l’album è grazioso e si fa ascoltare, tuttavia le influenze sono talmente marcate da risultare in diversi momenti persino imbarazzanti.
Fate attenzione: il grande maestro Paul Weller potrebbe chiedere i danni.

lunedì 1 novembre 2010