domenica 20 dicembre 2009

Il pagellone del 2009


1. ANTONY & THE JOHNSONS – The Crying Light
Dopo i fasti estivi con la dance degli Hercules And Love Affair e la sontuosa collaborazione con Bjork, Antony ritorna con un’opera che abbandona arrangiamenti pop e melodie facili per recuperare una dimensione prettamente cantautoriale.
Il disco contiene dieci meravigliose e delicatissime ballate pianistiche nelle quali ancora una volta emergono la sua intensa classe, la sua profonda spitualità, la sua inquietante drammaticità, e infine il suo splendido timbro vocale, quasi da baritono, per il quale è difficile trovare riferimenti o paragoni.
Per Diamanda Galas, “ogni emozione nel pianeta è in quella sua voce meravigliosa”.
Anche se, forse, lui è proprio di un altro pianeta…


2. EELS – Hombre Lobo
Di giorno, Mr. E compone ballate acustiche di rara intensità, come da copione classico.
Di notte, invece, il nostro - già in copertina in versione licantropo con una strepitosa e fottutissima barba – incide con straordinaria irruenza una serie di brani piu’ cazzuti, ruvidissimi, quasi hard: pezzi registrati in presa diretta, senza sovraincisioni, nel suo scantinato; suonano infatti davvero al limite del lo-fi (Beck), quasi come un bootleg di bassa qualità, oltre a essere tempestati da ululati famelici alla Stooges o alla Suicide.
E’ un tipo così, Mr. E.
Un genio stampalato e persino un po’ disadattato, talmente estraneo alle logiche dello show-biz. E’ per questo che lo seguiamo sempre con maggiore affetto.


3. SOAP&SKIN – Lovetune For Vacuum
Il popolo indie ha (forse) trovato l’erede di Antony & the Johnsons.
Per la verità, con il talentuoso newyorchese questa ex-bambina prodigio di soli diciannove anni - cresciuta in un piccolo villaggio di allevatori di mucche della Stiria (Austria) e il cui vero nome è Anja Plaschg - condivide solamente una voce fuori dal comune, eterea e terrificante, un total-look piuttosto dark - viso tumefatto e pallido, abiti neri, sguardo inquietante - e una certa aura da artista maledetta, perennemente in preda a un grande tormento interiore.
Il suo album di debutto è oscuro, tetro, profondamente malinconico. Interprete sensibile e terribilmente matura, Soap&Skin stupisce per la sua grande potenza espressiva e per i suoi testi intrisi di ingenuo romanticismo.

4. DINOSAUR Jr - Farm
Poche storie: “Farm” è un album bellissimo, ancor piu’ bello perché non ce lo aspettavamo proprio, dopo le scottanti delusioni della loro piu’ recente discografia.
I dinosauri sono tornati con la consueta prepotenza e con gli ingredienti che li hanno resi grandi: solidi muri di chitarrone e scariche violente di amplificatori nascondono melodie piacevoli, rese talvolta struggenti dalla voce trascinata di un J. Mascis indolente e apparentemente svogliato come ai bei tempi.
Con “Farm” sfiorano il podio e battono, nella categoria dei superclassici, Pearl Jam di “Backspacer” e i Sonic Youth di “The Eternal”.
PS: Inutile lamentarsi che i dischi dei Dinosaur Jr sono tutti uguali. Loro sono i soliti cazzoni: prendere o lasciare.

5. THE DUCKWORTH LEWIS METHOD – The Duckworth Lewis Method
Il nuovo progetto dell’irlandese Neil Hannon - già leader dei Divine Comedy - e di Thomas Shaw - leader dei Pugwash - è un grottesco concept album sul gioco piu’ tradizionale ed esclusivo per gli inglesi, il cricket, del quale il Ducwworth Lewis rappresenta un complicato metodo algoritmico per calcolare il punteggio di una partita interrotta causa maltempo.
Leggerezza e ironia, eleganza innata e humour in stile british, pop cristallino e allegria scanzonata: questo album potrebbe essere un’ottima colonna sonora di Little Britain o, ancor meglio, di Monty Pithon.

6. ANIMAL COLLECTIVE - Merriweather Post Pavilion
Strani personaggi, quelli del Collettivo, la cui carriera artistica è legata in modo indissolubile alla scena alternativa-sperimentale di New York.
Il folk bucolico e un po’ freak degli esordi lascia ora spazio a nuovi scenari elettronici, tutt’altro che convenzionali, che si esplicitano in un autentico magma sonoro, ovvero un flusso continuo e ininterrotto di melodie acide e trip stranianti, la cui base ritmica è spesso costituita da rumorismi primitivi e da tappeti di percussioni tribali.
(Santo Cielo, ma cosa ho scritto?)

7. HOPE SANDOVAL - Through The Devil Softly
La voce suadente e sensuale della cantante di origine messicana, ex-leader dei Mazzy Star, è il valore aggiunto di questo “Through The Devil Softly”, che sin dal titolo e dal nome della band che la accompagna (The Warm Invenctions) si preannuncia un ascolto caldo e soffice.
L’ideale per queste gelide notti d’inverno.

8. MUMFORD&SONS – Sigh No More
La capitale inglese, non appena ci si allontana dal sound ormai appiattito del cosiddetto revival wave, offre nuovi spunti interessanti.
Tra le bands della nuova scena folk (vedi anche: The Leisure Society, Fanfarlo), i Mumford&Sons debuttano sulla lunga distanza attingendo a un repertorio classico e tradizionale e - pur non brillando per originalità – muovendosi con mestiere tra intonazioni gospel e pezzi piu’ festaioli e spensierati (con dosi massicce di banjo e mandolino) per i quali sono stati scomodati Pogues e Waterboys.

9. KINGS OF CONVENIENCE - Declaration Of Dependance
Per il duo di Bergen (Norvegia) si tratta de “il disco pop più ritmico che sia mai stato fatto senza percussioni né batteria”.
I pionieri del cosiddetto “New Acoustic Movement” ci regalano un’altra bellissima collezione di malinconiche ballate a là Simon&Garfunkel, in cui trovano spazio atmosfere pacate e intimiste, alcuni rimandi alla scena cool londinese anni ’80 (Style Council, Everything But The Girl) e i consueti arrangiamenti scarni ed essenziali.

10. THE DECEMBERISTS – The Hazards Of Love
Un altro disco dalla chiara ispirazione progressive (sempre sia lodato il prog-rock!).
Il nuovo lavoro della band di Portland, Oregon, è così ricco di improvvise accelerazioni e di continui cambi di ritmo da riportare alla mente i Jethro Tull di “Acqualung”.
Concepito inizialmente come musical, “The Hazards Of Love” è una rock-opera di vecchio stampo, che rinnova la tradizione inaugurata da capolavori come “Tommy” e “Quadrophenia” dei Who e “Arthur” dei Kinks.


11. EDITORS – In This Light And On This Evening

Il classico bicchiere mezzo vuoto.
Le aspettative sul nuovo, terzo album degli Editors erano molto alte, e dunque è lecito essere piuttosto delusi e persino rammaricati dalla deriva sinfonica di "In This Light And On This Evening", dove le consuete e cupe atmosfere dark-wave vengono innaffiate da un proluvio di tastiere e sintetizzatori anni '80 (Depeche Mode/Ultravox/Human League), ovvero un'inutile e monumentale - a volte persino stucchevole - sovrastruttura sintetica.
Come quando i Joy Division - dopo la morte di Ian Curtis – diventarono i New Order (noi, e´ovvio, preferiamo i primi).

12. BRUCE PENINSULA – A Mountain Is A Mouth
Mentre i capofila Arcade Fire sono ormai assurti a icona dell’indie-pop internazionale piu’ intelligente e raffinato, dal Canada arrivano numerose altre buone notizie, tra le quali questo eclettico e bizzarro ensemble che ci regala un pop quasi chiesastico, con imponenti cori femminili e una voce solista a metà strada tra Tom Waits e Nick Cave.

13. MI AND L’AU – Good Morning Jockers
Lei finlandese, lui francese; lei modella, lui musicista: Mira Anita Mathilda Romantschuk e Laurent Leclere si incontrano a Parigi, dove diventano coppia nella vita e nella musica, prima di isolarsi nei boschi della Finlandia a comporre le loro canzoni spoglie e raccolte, intessute su chitarra acustica, voce e pochissimo altro.
Scoperti da Michal Gira (Swans).

14. PATRICK WOLF – The Backelor
Nella categoria “canzone d’autore”, Wolf prevale sui bravi Barzin, Andrew Bird e Matthew Scott grazie a un’opera eclettica, che mescola con sapienza un’impostazione classica, basi elettroniche e barocchismi dandy.

15. CHEER ACCIDENT - Fear Draws Misfortune
Come i Mountains dell’ottimo “Coral”, i Cheer Accident arrivano da Chicago, Illinois, e propongono un indie-prog palesemente ispirato alla grande tradizione del progressive britannico ’70 (King Crimson e soprattutto Van Der Graaf Generator), oltre che al free-jazz della Scuola di Canterbury (Gong e Soft Machine).

16. DENTE – L’Amore Non E’ Bello
Questo ragazzo di Fidenza ci sta simpatico. Sì, è vero, probabilmente non è un originalone, ma i suoi pezzi hanno una leggerezza fuori dal comune.
Nella speciale sezione Italia, prevale di un soffio su “Carboniferous” degli Zu.

17. MUM - Sings Along To Song You Don’t Know
Realizzato tra la natìa Islanda, la Finlandia e l’Estonia, il nuovo lavoro dei Mum propone una sapiente miscela tra il consueto elettro-ambient, istanze pop e rimandi alle tradizioni narrative popolari, nella quale un climax giocoso e onirico segna un’inversione di rotta rispetto al passato.

18. FUCK BUTTONS – Tarot Sport
Il duo di Bristol sbaraglia la nutrita concorrenza (Memory Tapes, Neon Indian e i portoghesi Gala Drop) nella categoria: elettronica.

19. TINARIWEN - Imidiwan: Companions
Un prezioso scrigno di crossover afro-rock, tra inaspettate venature blues e canti di ribellione incentrate sul desiderio di libertà del popolo tuareg (i Tinariwen sono un gruppo di nomadi nativi del Mali e costretti - oltre trent’anni fa - a emigrare in Algeria e Libia a causa di una gravissima carestia).

20. BILL CALLAHAN - Sometimes I Wish We Were An Eagle
(A ex equo): IGGY POP – The Preliminaires
L’ex-leader dei seminali Smog compone brani acustici di bellezza sontuosa ed estrema delicatezza.
A ex equo, la vecchia iguana e i suoi notevoli “preliminari”, ispirati al romanzo “La possibilità di un'isola” del francese Houellebecq.

venerdì 18 dicembre 2009

Dicembre

Il lampeggiante giallastro dello spazzaneve si riflette, a intermittenza, sul vetro appannato dell'ingresso.
Metto il naso fuori di casa.
La neve scende dal cielo, senza tregua, e una soffice coltre bianca copre ogni cosa.
Persino lo zerbino è sommerso di neve, eppure è sotto un portico profondo quasi tre metri.
In mezzo al campo immacolato, oltre il ruscello, c'è un coniglio gigante. Ha le orecchie appuntite e il muso sembra un teschio argentato. C'è anche Nonna Morte, con la sua zazzera bianca, che attraversa la strada innevata con le sue pantofole per andare a controllare la buca delle lettere.
Danno Donnie Darko stasera.

Non resta che mettersi a spalare il vialetto di casa, domattina, se vorremo uscire di qui, prima o poi.
Badile e sale grosso.
Con quell'idiota del cane che ti fissa annoiato. Non fa un cazzo dalla mattina alla sera, quel cane bastardo. Se ne resta sempre lì, sdraiato nella neve, a raffrescarsi le palle. Quando non è attaccato al computer per chattare su facebook.

Penso: la neve, a metà dicembre, ci sta.
Non è necessario essere esperti di metereologia per rendersene conto.
Eppure, è bello potersi tutte le volte sorprendersi, come se fosse la prima volta, assaporare lo stupore nel viso della gente che goffa sale e scende dal marciapiede cercando di farsi strada tra i cumuli e le lastre di ghiaccio, godere lo spettacolo dei fiocchi che avvolgono la statale illuminata dai fari allo xeno delle auto che avanzano a strappi.

Penso allo stupore di Agnese, la mattina del 13 dicembre.
Si è svegliata molto presto (probabilmente non aveva chiuso occhio tutta la notte per la tensione). Ha aperto la porta con gli occhi gonfi di sonno e si è trovata davanti, sul pavimento ancora freddo del corridoio, una fila di caramelle - le ha messe giu' sua mamma, davvero una bella scenografia - che portavano alla scala e poi, seguendo le caramelle giu' dalla scala in soggiorno, e infine sino al grande tavolo della sala da pranzo, dove facevano bella mostra i giocattoli ancora incartati.
Ha mangiato la carota!, ha urlato lei, riferendosi all'asino.
Santa Lucia, invece, si è fatta fuori una fetta di crostata al cioccolata - che però non l'ha fatta Sandy, che fa sempre un sacco di torte grandiose, ma l'abbiamo presa all'ipermercato in offerta speciale - e poi, povera donna, le è toccato bere un bicchiere di ginger.
Sì, il ginger, quella spuma rossa e un pò amara che si beveva un secolo fa nei bar tipo il Domus o il Parisienne - il primo era sotto casa, l'altro all'inizio di via Tibini - bar con i tavoli di formica e il regolamento del giuoco delle carte fissato con le puntine a muri scrostati, insieme a cartelli con scritte tipo: E' VIETATO SPUTARE PER TERRA, bar con i biliardi con ancora le buche e i gessetti azzurri da strofinare sulla punta delle stecche, bar con il distributore delle nocciole tostate, con le sanagola e i boeri, che vincevi sempre, mica come adesso che non si vince mai un cazzo.
Poteva andarle peggio.
Potevamo prepararle quello strano intruglio che era solito trangugiarsi mio nonno, Cristo santo, quell'uomo mescolava lo sciroppo d'orzata e quello di tamarindo con acqua fredda da frigo, la madonna se faceva schifo. Passavamo le estati nella sua casa di campagna, a pochi passi da qua, quella con i finti mattoncini rossi appicciacti sulle pareti e le tapparelle bianche: sempre stato un geometra da spendere poco. Era un tipo scorbutico ma capace anche di tenerezze. Dovevamo sempre farlo vincere a carte, se no s'incazzava di brutto. Ogni mattina andava a far la spesa a Rivergaro con la Fiat 128 Sport giallo senape - quella col doppio faro tondo posteriore, uno superclassico del design italico - e quando tornava suonava il clacson come un pazzo finchè non correvamo ad aiutarlo a scaricare il baule. Alle volte lo accompagnavamo in paese, nella discesa giu' dal ponte di Statto metteva la folle per risparmiare la nafta, quel taccagno.

Agnese è rimasta soddisfatta.
Santa Lucia le ha portato la Cuccio-clinica®, una specie di ospedale per piccoli animali con una veterinaria alta bella e bionda. La osservo mentre gioca. Borbotta qualcosa e sbuffa. E' alle prese con un caso disperato. Un cavallo con un femore rotto. Vedrai che starai meglio, sussura al cavallino accarezzandogli la criniera.
Tutto come copione: Agnese aveva chiesto Cuccio-clinica® nella sua letterina, dopo una serie indicibile di tormenti interiori e di clamorosi voltafaccia. D'altro canto, non bastassero tutti quegli ignobili spot pubblicitari - in quelle che dovrebbero essere fasce orarie protette - adesso ti inviano a casa anche dei cataloghi illustrati di giocattoli. Tipo il Postal Market (chi non se lo ricorda? Il mio vicino di banco alle elementari si tirava le seghe sfogliando le pagine di biancheria intima...). Un giocattolo per ogni pagina, foto grande a colori, e ognuno con il suo bel codice in neretto: per semplificare la scelta e non sbagliare gli ordini.

Cara Santa Lucia,
ti prometto che sarò brava con il papà e la mamma.
Per favore portami:

- CHT 74524
- FTG 05938
- GTD 98735


(Chissà, forse ci sono anche gli ippopotamini affamati.)

domenica 13 dicembre 2009

Il paese si scopre ogni giorno sempre piu’ incattivito, ostile e intollerante verso i diversi, sempre piu’ ostaggio di una classe dirigente rozza e analfabeta.
Non stupisce, allora, che il sindaco di un piccolo paese lombardo decida di ribattezzare “White Christmas” (sic!) una sorta di caccia ai clandestini e agli stranieri irregolari, in nome del Natale.
Vogliamo soltanto iniziare a fare pulizia, si è giustificato lui peggiorando la situazione.
Siamo in missione per conto di Dio, direbbe Belushi.
In risposta al clima imperante da caccia alle streghe, il nostro consueto appuntamento musicale è dedicato ad alcuni dischi usciti nell’anno in corso e provenienti dalle piu’ svariate parti del globo terrestre.

Recentemente scoperto dall’immenso Jim Jarmush, Mulatu Astatke è il re dell’ethio jazz, mirabile fusione tra l’esperienza jazz piu’ classica e i suoni della sua Etiopia, un mix ricco di fascino danzante e influenzato dalla strumentazione e dai ritmi africani. Il suo incontro con gli Heliocentrics, eterogeneo collettivo guidato dal drummer Malcom Catto, propugnatore di un energico mix jazz-funk e noto per alcune collaborazioni con Madlib e Dj Shadow, ci regala l’ottimo “Inspiration Information Vol 3”: per alcuni siti specializzati è uno dei dischi dell’anno.
Ancora dall’Africa.
L’amico Gigio segnala i Tinariwen, un gruppo di nomadi nativi del Sahara (nord-est del Mali) e costretti - oltre trent’anni fa - a emigrare in Algeria e Libia a causa di una gravissima carestia. Il loro “Imidiwan: Companions” è un prezioso scrigno di crossover afro-rock, tra inaspettate venature blues e canti di ribellione incentrate sul desiderio di libertà del popolo tuareg.
Sempre il Gigio consiglia i Gilzene & the Blue Light Mento Band, il cui reggae di "Sweet Sweet Jamaica", sarebbe – sono parole sue – una bomba assoluta e inoltre la raccolta intitolata “Calypso @ Dirty Jim's / The Music & the Film", con la quale si è cercato ricreare lo spirito dell’isola di Trinidad negli anni '50, riunendo i veterani e le leggende viventi del calypso (Calypso Rose, Relator, Bomber, Mighty Terror e Lord Superior) per una straordinaria notte di grande musica.
Il viaggio del compositore etno-folk Beirut nel continente sudamericano - in Messico, per la precisione - ha invece prodotto due Ep piuttosto noiosi.
Spostandoci in Asia, merita il giusto riconoscimento anche “Slumdog Millionaire”, soundtrack dell’omonimo film di Danny Boyle, premio Oscar 2009 per la migliore colonna sonora originale - anche se a dire il vero il disco è uscito negli ultimi giorni del 2008 - composta da A.R. Rahman con il contributo di altri musicisti indiani come Tanvi Shah, M.I.A., Madhumitha, Alka Yagnik.

Un breve cenno, infine, a una gemma misconosciuta di questo anno che sta lentamente per finire. “Gala Drop” è l’album omonimo di un trio di musicisti di Lisbona (Nelson Gomes, Afonso Simões e Tiago Miranda) che propone un’affascinante miscela di sonorità e di influenze apparentemente inconciliabili. Sentite cosa scrive su di loro Ondarock.it:
“Se negli anni ‘80 Jon Hassell coniò la locuzione “fourth world” per descrivere la sua miscela di suoni retro-futuristi, allora questa dei Gala Drop è musica del quinto o sesto mondo (…) Immaginate una fusione a freddo di dub giamaicano, tribalismo bucolico alla Animal Collective ultima maniera, minimalismo percussivo alla Urban Sax, suggestioni esotiche Soul Jazz Records (Konk, Rekid, Grupo Oba Ilu) e kosmische musik alla Cluster, il tutto immerso nelle bolge sintetiche degli Heldon.
Insomma, musica da fuori di testa per gente fuori di testa”.

(L'opera è di Gerhard Richter)

giovedì 3 dicembre 2009

A Milano piove da Dio


A Milano piove da Dio.
Cammino sul marciapiede, sul fianco di un muro scrostato e ricoperto di firme scarabocchiate con lo spray. Le auto procedono a velocità folle, schizzando l'acqua lurida e fredda sui miei pantaloni buoni.
La strada è resa sdrucciolevole dalla pioggia - lo so bene io che ho letteralmente aperto il cofano di una Uno Sting (argento metalizzato, mica cotica) su una panchina in calcestruzzo armato sul lungomare di Galway, Ireland - e poco piu' in là c'è un tamponamento a catena. Sfreccia un'autoambulanza con la sirena accesa.
Sotto i piloni del sottopassaggio ferroviario, un ragazzino con il cranio rasato e la tuta mimetica sta attaccando un manifesto (abusivo) di Forza Nuova.
C'è una grande fotografia di una donna stesa in terra, dolorante e piena di sangue, vittima di uno stupro, e le scritte:

E se fosse tua figlia?
E se fosse tua moglie?

Poi sotto: Sgomberare tutti i campi Rom, subito.

Osservo il ragazzino che intinge il pennello nel barattolo di colla, è poco piu' di un adolescente, non ha nemmeno un filo di barba, e intanto penso:
Se TU fossi mio figlio, caro ragazzo, ti prenderei a calci nel culo fino alla settima generazione.

Proseguo costeggiando anonimi caseggiati. Recinzioni in ferro arrugginito, muretti in calcestruzzo crepato e sgretolato, cortili d'asfalto invasi dalle sterpaglie. Ancora non siamo pronti per Expo 2015, temo.
Alla fermata del tram trovo riparo sotto una pensilina in plexiglass. Salgo sul numero due, puntualissimo. Mi piace leggere un libro stando seduto su quelle vecchie panche di legno massiccio e intanto osservare - attraverso il finestrino - la frenesia della gente là fuori. Cazzo, è spavenosa la percentuale di quelli che, mentre camminano con passo frettoloso, parlano al cellulare. Bisognerà fare una statistica, un giorno di questi.
Alzo gli occhi dal libro e la mia attenzione si sposta su una signora anziana con una vistosa parrucca colore rubino e un altrettanto strano turbante, che sembra fatto di stracci per la polvere.
Lei mi guarda e sorride.
Io ricambio, goffamente, e lei mi sorride ancora.
C'è da tenerselo stretto, un sorriso da parte di una sconosciuta, di questi tempi.

Scendo a Cordusio e mi incammino in direzione del Duomo. Ci sono un sacco di fottuti giapponesi in giro, riuniti in drappelli sotto la pioggia a fotografare le vetrine delle boutique d'alta moda. Ed è ancora primo pomeriggio.
La mostra di Hopper a Palazzo Reale è una mezza delusione. Tante opere minori, tanta grafica, mentre dei grandi dipinti a olio ci sono solo quelli del Whitney di New York, che ho già visto, anzi mancano addirittura i piu' belli. Manca soprattutto il celebre Nighthawks, del 1942, citato a piu' riprese da Wenders e da altri.
Non un evento all'altezza di una grande capitale europea, insomma.
Le didascalie ai lati delle opere esposte definiscono Hopper il poeta dell'anonimato e dell'isolamento delle metropoli - da non confondersi con la solitudine, scrivono i curatori. Sottolineano il suo "peculiare universo malinconico, solitario, metafisico e al contempo materiale", le sue "atmosfere vuote, silenziose, rarefatte, ovvero perfetti contenitori dell'esistenzialismo e della incomunicabilità invalicabile dell'uomo moderno".
Nulla da eccepire.

Sul metro del ritorno, raccolgo da un sedile vuoto una di quelle freepress che distribuiscono all'interno delle stazioni.
A pagina quattro trovo una notizia che mi colpisce.
Riguarda Francisco.
Figlio di immigrati messicani, Francisco soffre di una rara forma di autismo e vive con la sua famiglia - il padre è bracciante, la madre fa le pulizie - a Bensonhurst, Brooklyn, New York.
E' scappato di casa per paura di un rimprovero per un brutto voto, con solo una tessera della metro e dieci dollari in tasca.
Un budget risibile, che lui ha centellinato molto scrupolosamente negli undici giorni durante i quali è rimasto sempre sottoterra, sui treni, mangiando gli snack piu' a buon mercato prelevati dai distributori automatici. Per non farsi trovare, Francisco ha tolto la batteria dal cellulare. I genitori hanno immediatamente dato l'allarme, mobilitando parenti, polizia e consolato, che in realtà si sono mossi con un pò in ritardo, di un messicano gli importa poco, si sa.
Lo hanno ritrovato nei dintorni di Coney Island.

Immagino Hopper ritrarre Francisco sulla banchina, mentre è intento a scegliere dal distributore automatico un Mars, un KitKat o un sacchetto di patatine.
Il dubbio che divora Francisco.
Cazzo, il Kit Kat costa dieci centesimi meno, pensa alla fine.
E allora vada per il Kit Kat.
Poi Francisco che si allontana verso la scala mobile che lo riporta al livello superiore, dove si va a coricare su una panca di marmo ghiacciata, mentre un branco di umanoidi scorre eterea al suo fianco, di corsa, per rincorrere il vagone in arrivo giù al binario.

Potrà sembrare strano, ma durante questi undici giorni nessuno ha mai rivolto la parola a Francisco.
No, non lo trovo affatto strano, ha spiegato lui: a nessuno frega nulla del mondo e delle altre persone.


martedì 1 dicembre 2009


In madrepatria sono già dei fenomeni.
Attesissimi all’esordio dopo una mezza manciata di singoli di successo, Fanfarlo e Mumford&Sons se la cavano alla grande anche sulla lunga distanza.
Sulla scia dei The Leisure Society - autori nel 2009 dell’ottimo The Sleeper - hanno l’indubbio merito di spostare l’attenzione della critica e del pubblico sul nuovo folk-rock britannico e di dimostrare che la scena Londinese in particolare – non appena ci si allontana un po’ dal sound ormai stanco e stereotipato di gran parte del revival wave – è viva e vegeta.
I primi, molto apprezzati da David Bowie, pur dovendo il loro nome a un titolo di un racconto di Baudelaire propongono un sound prevalentemente acustico, tutt’altro che maledetto.
Nel loro Reservoir trovano spazio anche la leggerezza melodica del pop scandinavo - il leader della band è nativo della Svezia - ma anche basi ritmiche elettriche (Fire Escape e soprattutto Luna): i Fanfarlo stessi hanno ribattezzato il loro genere come “folk-disco”.
Tra i brani migliori anche l’opener I’m a Pilot – ecco spiegato perché qualcuno li ha definiti gli Arcade Fire inglesi… - la darkeggiante Drowning Men e Finish Line, che sembra rubata ai Talking Heads.
I Mumford&Sons condividono con loro l’amore per archi, fiati e fisarmoniche, pur attingendo a un repertorio piu’ classico e tradizionale.
Il disco – quasi cinquanta minuti di musica - scorre via piacevolmente, pur non brillando per originalità, tra preghiere laiche con intonazioni gospel (Sigh No More e Timshel), ballate languide e malinconiche alla Hothouse Flowers (Awake My Soul e White Blank Page) e pezzi piu’ festaioli e spensierati con dosi massicce di banjo e mandolino (Little Lion Man e Roll Away Your Stone) per i quali sono stati scomodati Pogues e Waterboys.
Consigliati agli amanti del genere, e anche a chi in questi anni ha apprezzato il lavoro di bands come Okkervil River e Bon Iver.