venerdì 30 ottobre 2009

Mio padre, John Lennon


Non ho mai conosciuto mio padre.
Se ne è andato troppo presto, quando io e Paulette avevamo solamente diciotto mesi. Non che agli fratelli sia andata meglio: avevano rispettivamente dieci e sette anni, nemmeno il tempo di ricordarselo, dopo.
Si è ammazzato di lavoro. Eppure il dottore glielo aveva detto piu' volte, di andarci piano, dopo il primo, leggero, infarto. Aveva compiuto cinquant'anni due settimane prima.
Quello che mi resta è un album di cuoio, ormai sdrucito, con i ricordi di una vita.
Una collezione di pallide fotografie in bianco e nero, sbiadite, e i documenti del periodo in cui fu partigiano nelle valli tra il Luretta e la Pietra Parcellara.
Il Capitan Bologna.
Medaglia d'argento al Valor Militare per la Resistenza.
(Talmente sentita, che hanno sbagliato persino il cognome, hanno scritto MANZANI)
C'è anche un trafiletto, poco piu' di sei righe, sul Dizionario dei Concittadini Illustri.
Bella roba.
Avrei preferito che avesse continuato a tenerci sulle ginocchia, mentre leggeva il giornale seduto a tavola.

Una bella mattina di ottobre.
Il sole è improvvisamente sbucato dalla fitta coltre di nubi che nei giorni scorsi ci ha impedito di guardare oltre il cielo.
E' il periodo giusto per mettere a dimora i crochi e i tulipani. Sandy ne ha presi un paio di sacchetti pieni. Ci sono anche due esemplari di aglio selvatico. L'anno scorso ne abbiamo piantato uno, e quella specie di patata spelacchiata è diventato un fusto alto piu' di un metro, con in cima un fiore lilla, grosso come un arancio.
Agnese mi aiuta a smistare i semi e i bulbi nelle varie buche che mi sono preparato, con l'ausilio di un badile e di un piccone.
Le piace aiutarmi, anche se poi si stufa subito.
E allora si mette a preparare la pappa per i suoi figli, stamattina ne ha addirittura quattro: due barbie, un altro bambolotto - un bambolotto inquietante, un umanoide cyber che muove le labbra e piange lacrime finte, e che se gli butti uno strano liquame grigiastro in bocca lui poi si caga addosso - e addirittura un orsachiotto di pezza.
Se vuoi puoi essere mio marito, mi dice mentre accarezza l'orsachiotto.
Se proprio insisti, abbozzo io. A dire il vero, quattro figli mi sembrano un pò troppi. Tutti in una volta, poi.
Quando rientriamo in casa ci mettiamo in cucina a disegnare con i pennarelli.
Dopo un pò mi dice: devo far vedere i miei disegni alla nonna Giulia.
Ok, rispondo io, e intanto mi alzo per prepararmi un caffe'. Quando viene a trovarci glieli facciamo vedere.
Poi mi chiede: ma la nonna non ha un marito?
Lo aveva, rispondo io. Adesso non c'è piu'.
Ah, fa lei. E come si chiamava?
Giovanni.
Ah.
Era mio padre, aggiungo io (lo sapete anche voi, i bambini faticano assai a entrare nel complesso meccanismo delle parentele. E Agnese non fa certo eccezione, anzi diciamo pure che gli alberi genealogici non sono il suo forte).
Lei resta lì, immobile, lo sguardo fisso su un punto qualunque della nuda parete d'intonaco.
Sembra perplessa.
D'altro canto, come non comprenderla: suo padre si chiama Giovanni, suo fratello si chiama Giovanni, e suo nonno come si chiamava? Giovanni. La Madonna che fantasia, potrebbe pensare. Un paio di Madonne le ha gia' tirate, infatti, fortunatamente senza aggettivi.
Ma poi si lascia distrarre dalla radio che gracchia una musica conosciuta.
Cerco di spostare l'antenna nella speranza di ricevere meglio il segnale, mentre lei canticchia sullo sfondo.

Torno fuori per stendere un pò di terriccio con il rastrello, e poi innaffio l'aiuola scura e polverosa.
Rientro in casa e accendo la televisione. Su Mtv c'è un programma sui Beatles. Deve essere un anniversario di qualche cosa, perchè per tutta la mattina mettono dei vecchi filmati, interviste e materiali d'archivio.
C'è anche un video nel quale quattro pupazzi - a immagine e somiglianza dei Fab Four - suonano Ticket to ride e A day in the life.
Agnese guarda il video rapita. Io nel frattempo le massaggio la pancia, dovreste provarla anche voi, è morbida come la pasta delle pizza dopo che è lievitata per un intero pomeriggio.
Chi sono?, mi chiede.
Dei musicisti, rispondo. Si chiamavano Beatles. In Italiano vuol dire: scarafaggi.
Che schifo.
Guarda, le dico, quello lì si chiamava Paul, sì, insomma, Paolo. Quello con i capelli piu' lunghi si chiamava Giorgio. Quello invece era Ringo. Ringo Starr. Suonava i tamburi. E quello là in fondo era John, Giovanni. Anche lui adesso non c'è piu'.
Giovanni?, ripete stupita.
Sì, Giovanni.
Lei resta in silenzio, ma io mi accorgo che sta macchinando qualche idea strampalata in quella sua testolina di cazzo, e infatti dopo qualche istante mi chiede:
Ma era lui tuo papa'?
Io rido forte. Chi? John Lennon?
Anche lei ride, adesso.
No, non era lui, rispondo io accarezzandole i capelli, sottili e castani come i miei.
E intanto i quattro pupazzi, sullo schermo in 16:9, attaccano With a little help from my friends.

Verso sera, esco di nuovo per fare legna. Il sole è sparito all'orizzonte, e la temperatura è scesa improvvisamente. Meglio accendere il camino.
Sono lì che scelgo con cura i pezzi di carpino e robinia dalla catasta sotto il pergolato nascosto dal gelsomino, che poi è un falso gelsomino, qualsiasi cosa voglia dire, e intanto ripenso a John Lennon.
Cazzo, avrebbe potuto essere davvero mio padre.
In fondo era del '40.
Anche se non ce la vedo molto, la Giulia, con il vecchio John. E poi cosa cazzo è andata a fare a Liverpool?
Però.
Però non si sa mai.

Prendo la Scenìc e vado giu' in paese a comprare un pò di insetticida, anche se siamo un pò fuori stagione c'è un'invasione di formiche rosse.
Fuori dall'emporio, c'è un gippone parcheggiato con due ruote sul marciapiede. Si apre la portiera e scende un uomo di mezz'età, corporatura robusta e un principio di chierica sul cranio.
Mi guarda senza alcuna espressione particolare.
Io ricambio il suo sguardo ottuso e poi gli dico: John Lennon era mio padre.
E lui: chi, quell'hippy sciroccato che cantava tutte quelle cazzate sulla pace e sull'amore universale?
Immagina un mondo senza possessi/mi chiedo se ci riesci/senza necessità di avidità o fame/La fratellanza tra gli uomini/Immagina tutta le gente/condividere il mondo intero....
Stronzate.

Brutta bestia, l'invidia.

Mentre torno in macchina mi dico, 'fanculo, adesso chiamo McCartney.
Cazzo, Macca, gli dico, quand'è che mi mandi i diritti d'autore delle ultime compilation?
Lui balbetta qualcosa di incomprensibile. Deve essere ancora incazzato per la storia della dicitura "Lennon/McCartney" sui dischi. Secondo lui, andrebbe ribaltata, almeno per i pezzi che in realtà, così dice, ha scritto lui. Non gli hanno mai spiegato la proprietà commutativa.
Macca? Mi senti?
Devi chiedere a Yoko, mi risponde lui dopo una lunga pausa. Ho già datto tutto a Sean e a Julian.
Non fare il furbo con me, gli faccio, domattina voglio il bonifico.
Poi gli detto il codice IBAN:

I
T
6
0
R
...
Ma la cornetta adesso suona a vuoto.
Tuuu... tuu....

Ha messo giu', quel bastardo.
Che gran figlio di puttana.
Te l'avevo detto che non dovevi fidarti di lui, papà.


IMMAGINE DA:
http://www.robertoagostini.it/uploads/images/Ritratti/john%20lennon.jpg

giovedì 15 ottobre 2009


Un altro anno se ne e´andato via, ormai, e sino a ora non ci ha regalato grandi capolavori, anche se come sempre tanta buona musica.
Per questo motivo le aspettative sul nuovo, terzo album degli Editors - l´eventuale album della maturita´artistica - erano molto alte. A nostro giudizio, infatti, la band di Birmingham è una delle migliori, seppur poco originale, tra i tanti presunti "fenomeni" del revival wave britannico di questo scorcio di inizio secolo.
Per questo motivo, dunque, è lecito essere piuttosto delusi dalla deriva sinfonica di "In This Light And On This Evening", dove le consuete e cupe atmosfere dark-wave vengono innaffiate da un proluvio di tastiere e sintetizzatori anni '80 (Depeche Mode/Ultravox/Human League): come quando i Joy Division - dopo la morte di Ian Curtis – diventarono i New Order (noi, e´ovvio, preferiamo i primi).
Non sono molti i brani che vanno bene: "The Big Exit", che non sfigurerebbe in "Kid A" o in "Amnesiac", e soprattutto "The Boxer", il brano piu' ricco di pathos, che fa venire in mente l'espressionismo decadente del Bowie della trilogia berlinese. E poi la title-track, con una notevole coda elettronica, e la conclusiva, sobria, "Walk the fleet road", sulla quale tuttavia aleggia il fantasma dei Crime & City Solution.
Tutto il resto, soffre maledettamente, sotto un'inutile e monumentale - a volte persino stucchevole - sovrastruttura sintetica.

Grande è il rammarico, se si pensa a quello che avrebbe potuto essere.
La settimana scorsa abbiamo infatti avuto la fortuna di ascoltare un loro breve set acustico su RadioDue, durante il quale Tom Smith, con la sua voce piena e tenebrosa, ha entusiasmato il pubblico con alcune interpretazioni da brividi.
Persino "Papillon", il loro pur nuovo singolo – ballabilissimo e quindi battutissimo in radio - e´stata resa in una versione tesa e vibrante: sembrava Johnny Cash cantare, di nuovo, un pezzo dei Nine Inch Nails...

Per ora prendiamo quello che viene - cara di grazia - anche se speriamo che in futuro gli Editors si possano sottoporre a una cura dimagrante.
Restiamo, fiduciosi, in attesa del loro "Nebraska".

LIONE, ULTIMA PARTE




mercoledì 14 ottobre 2009

State bene voi


Sotto zero anche stamattina.
Ma almeno non c'è da spalare la neve, malgrado le previsioni catastrofiche di tutti quei fottuti metereologi. Sarà una precipitazione epocale, ci ripetevano da giorni. Una nevicata senza precedenti.
Invece niente.
Un pò me lo aspettavo, ieri notte ero sceso sino al fiume per una passeggiata con il cane, e il fragore assordante della piena rimbombava sotto un sipario stellato talmente ampio da sembrare finto.
Impiego del tempo per raschiare il ghiaccio dal parabrezza dell'auto.
Il motore si avvia al primo colpo.
La vecchia Renault non dimostra i suoi anni e le miglia percorse e, dopo aver avanzato a strappi solo all'inizio, si arrampica decisa sulla strada impervia e piena di buche.

In paese non c'è anima viva.
Le serrande delle botteghe sono ancora abbassate, e il benzinaio è nascosto nel suo bugigattolo in lamiera metallica, al caldo di una stufetta elettrica difettosa.
Incrocio lo Scuolabus sulla provinciale. Alzo un cenno di saluto all'autista, che poi è anche il cantoniere e persino il necroforo, nelle comunità piccole bisogna arrangiarsi, e il materiale umano a disposizione è quello che è.
Cerco una stazione decente, ma la radio gracchia a ripetizione.
Alla fine mi rassegno ad ascoltare - un'altra volta - l'ultimo dei Massive Attack.
Il sole si alza tardi e timidamente filtra tra i rami spogli delle fitte boscaglie alle pendici del passo appenninico.
Sullo sfondo, un jet squarcia con il suo vapore biancastro il cielo limpido e pulito.
Contro luce, la montagna mostra i suoi muscoli.
Invincibile.

Un altro paese.
L'insegna lampeggiante della farmacia indica la temperatura: meno quattro.
Una pattuglia dei Carabinieri resta immobile nel mezzo del piazzale di asfalto crepato. All'interno dell'abitacolo, un agente legge il giornale scaldandosi con il motore diesel acceso al minimo.
Gran lavoratore.
Abbandono l'auto sul marciapiede e scendo per acquistare due marche da bollo. La tabaccheria è un vero e proprio bazar: vendono funghi secchi, caciotte nostrane, riviste di costume, biancheria intima, giocattoli passati di moda. Come un drugstore della remota frontiera americana.
Mi avvicino al bancone.
C'è qualcuno?, chiedo senza ottenere risposta.
Ehi, c'è qualcuno?, ripeto alzando la voce.
Mentre osservo gli scaffali senza curiosità mi accorgo che nel negozio c'è un freddo bestiale. Improvvisamente, da dietro una porta dal vetro zigrinato di colore brunito compare una signora anziana che mi viene incontro malvolentieri. Indossa una buffa cuffia colorata, tre o quattro maglioni, uno sull'altro, e almeno tre paia di calzettoni di lana, oltre a un paio di pantofole di velluto a coste sottili.
Mi serve in silenzio, dopo un vago sorriso di benvenuto, e allora mi accommiato piu' rapidamente possibile.

Oltrepasso i campi innevati e gli orti addormentati, con le file di cavoli protette dal gelo con teli di plastica trasparente. Le cataste di fascine sono allineate lungo i filari di gelsi, freschi di potatura. Un gruppo di oche grasse e zoppicanti si avvicinano al bordo della strada.
Arrivo a destinazione che non sono nemmeno le dieci.
Dopo un paio di tentativi andati a vuoto, individuo l'ufficio giusto, che si trova in fondo a un ballatoio sospeso nel vuoto. Le antiche lastre di pietra basaltina sono rese scivolose dal ghiaccio, e così avanzo a piccoli passi. Non bastasse, sulla balaustra in ferro battuto c'è un cartello con la scritta: vietato appoggiarsi alla ringhiera.
Devo consegnare una pratica per richiedere un'Autorizzazione al Vincolo Idrogeologico.

Una volta, un agente immmobiliare che doveva trascrivere una clausola su una bozza di compromesso che recitava, piu' o meno, che "l'atto di compravendita era vincolato all'approvazione, da parte delle autorità competenti, del Piano dell'Assetto Idrogeologico", scrisse invece "all'approvazione del Piano dell'Assetto Ideologico". Non so se fu colpa del correttore automatico di Word, avete presente quella graffetta del cazzo che compare all'improvviso e modifica le parole a suo piacimento, sta di fatto che rileggendo piu' volte l'atto, lui non ci trovava nulla da ridire.
Piano dell'Assetto Ideologico.
Non suona male.
Roba da far rabbrividire George Orwell.
Roba da dittature serie.
Era un tipo niente male, quel mediatore. L'unico che ho conosciuto che non portasse scarpe a punta di vernice nera. Era solito darti una pacca sulle spalle, e dirti: Allora, tutto bene, caro architetto? Eh, sì, sta bene lei, caro architetto. Diceva sempre così a tutti, stai bene tu, caro te, state bene voi, cari voi.
(Si racconta che una sera fu invitato a cena da una coppia di amici che viveva con la madre di lei in casa, costretta da oltre un decennio dentro un polmone d'acciaio, e che non appena pronunciò la fatidica frase fu buttato fuori di casa a metà pasto, senza esitazioni, anzi: a calci nel culo).

Il tecnico non c'è.
La mattina va a fare fisioterapia.
Sa, recentemente ha avuto problemi col ginocchio, gli dava continuamente fastidio e così ha dovuto sottoporsi a un piccolo intervento chirurgico, mi spiega una sua collega, per nulla imbarazzata. La tipa non sospetta nemmeno che c'è qualcuno, come il sottoscritto, che deve fare un'ora e mezzo di strada per arrivare sino lì, in quel suo ufficio del cazzo, nel buco del culo del mondo, che alle pareti ci hanno persino attaccato anche la propaganda del candidato del centrodestra alle ultime elezioni provinciali, il che non mi aiuta a mantenere la calma e dunque a rapportarmi con lei con la dovuta educazione.
Sa, è un pò sovrappeso, e quindi le articolazioni sono sempre sotto sforzo.
Non so per quale ragione del cazzo, ma la tipa pensa che il quadro clinico di quel lardoso geometra possa in qualche modo suscitare il mio interesse.
Ah, beh, certo, rispondo io, cercando inultilmente di nascondere la mia irritazione.
E quando arriverebbe?, chiedo dopo una lunga pausa.
Verso le undici, risponde lei allontanandosi per andare a rispondere al telefono.

Non mi rimane che incamminarmi verso la piazza. Fa ancora freddo, e allora mi infilo in un bar qualsiasi. Presso il tavolino piu' vicino all'uscita, due avventori di mezz'età restano seduti a leggere la Gazzetta. Merda, altra brutta notizia. Devo controllare le formazioni, ho il match decisivo al Fantacalcio e non so ancora che Mourinho schiererà Balotelli e Thiago Motta.
Ordino un caffè e prendo posto su uno sgabello.
Dietro a un paravento decorato in modo floreale, un gruppo di donne discute del caso Morgan. Secondo me hanno fatto bene a lasciarlo a casa, dice la piu' giovane. A me sta antipatico, è arrogante e canta male, aggiunge, ma si vede benissimo che mente e che si farebbe scopare da lui, seduta stante, sui divanetti imbottiti del bar.
Un'altra ribatte che invece buttarlo fuori è ingiusto. Se si droga sono fatti suoi, proclama.
Scopro di non avere un'opinione al riguardo.
Mi viene in mente un titolo di Cuore, anno 1991 o 1992: I Beatles si drogavano. Mino Reitano no. Vogliamo parlarne?
Al bancone c'è una donna ancora giovane che continua a lamentarsi del tempo. Quest'anno non sono potuta andare via per via della malattia di mia madre, proclama piu' volte, ma l'anno prossimo scappo a novembre in una qualche isola caraibica e fino a marzo non torno. Ah, vi avverto, fino a marzo non mi vedete piu', ripete lei mentre la barista annuisce severamente.
Sembra quasi una minaccia.
Fosse per me, puoi stare via anche il resto dell'anno, sbuffa sarcastico uno dei due lettori della Gazzetta.
L'altro se la ride sotto i baffi.
Fratello, mi stai simpatico, sul serio, vorrei dirgli io, ma ti prego, lasciami leggere quella Gazzetta del cazzo, che devo vedere se gioca Balotelli.

sabato 10 ottobre 2009


Il mondo, alle volte, gira proprio alla rovescio.
Succede allora che il nuovo singolo dei Kings Of Convenience – strepitoso il loro nome, da catena di ipermercati di bassa marca - balzi in testa, nel giro di poche settimane, alla chart (“50 Songs”) di Radio Deejay, una delle emittenti piu’ danzereccie dell’etere nostrano: addirittura davanti a Muse, Robbie Williams e Madonna.
Però.
Al primo approccio, “Mrs Cold” non è che una delicata ballata minimal, com’è nelle loro corde. Provando a riascoltarla, questa sorta di groove al rallentatore inizia a entrarmi nelle orecchie, inesorabilmente. Al terzo ascolto non ne posso piu’ fare a meno: mi scopro a tamburellare le dita grassocce sul volante, mentre torno a casa, e attraverso lo specchietto osservo la bambina muovere ritmicamente la testa e canticchiare parole a casaccio.
Non a caso, per il duo di Bergen (Norvegia) si tratta de “il disco pop più ritmico che sia mai stato fatto senza percussioni né batteria”.

Strano destino, comunque, per questi due ragazzi assolutamente normali. Li ricordo, ormai diversi anni fa, sul palco del Fillmore di Cortemaggiore. Eirik Glambek Bøe, timido e riservato, suonare e cantare con lo sguardo fisso sul pavimento. E poi Erlend Øye, il prototipo dello sfigato, uno che Nick Hornsby inserirebbe senza esitazioni nella speciale classifica degli “Uomini Piu’ Patetici Del Mondo”, danzare sinuoso, sotto il palco, in uno strepitoso finale (inaspettatamente) elettronico.

“Declaration Of Dependance” è il loro terzo album da studio, dopo un lungo il periodo di inattività, durante il quale i due hanno dato libero spazio a progetti alternativi, e non delude certo le attese.
I pionieri del cosiddetto “New Acoustic Movement” ci regalano ancora una bellissima collezione di malinconiche ballate a là Simon&Garfunkel, in cui trovano spazio atmosfere pacate e intimiste, alcuni rimandi (“Renegade”, “Me In You”) alla scena cool londinese anni ’80 (Style Council, Everything But The Girl) e i consueti arrangiamenti scarni ed essenziali, sebbene qua e là compaiono viole e violoncelli (“Peacetime Resistance” e “Boat Behind”, ovvero il secondo singolo, scritta durante il concerto di Bari nel 2004).

Il tour promozionale toccherà anche in Italia per due date:
* mercoledì 28 ottobre all'Auditorium Conciliazione di Roma;
* giovedì 29 al Conservatorio di Milano.

venerdì 9 ottobre 2009

lunedì 5 ottobre 2009

QUASI COME KEROUAC, 10


July, 26th (TERZA PARTE)

A Chinle non c'è che un brutto fast food, ancora arredato con i divanetti in plastica colorata e un vecchio juke-box, come se da un momento all'altro dovessero saltare fuori Ralph e Fonzie.
Per il resto, le solite baracche prefabbricate, una pompa di benzina, uno steccato che si perde all'orizzonte. E un muro di intonaco scrostato, alla cui sommità qualcuno ha fissato del filo spinato.

Le due dopo mezzogiorno.
Silenzio assoluto.
Sembra di essere sospesi nel nulla.

Abbandoniamo la Toyota in uno spiazzo di terra polverosa nei pressi del Visitor Center e scendiamo lungo un sentiero scosceso.
Il Canyon de Chelly non è certo il Grand Canyon.
E' un canyon minore.
Monumento naturale e storico di grande importanza, è protetto dal 1931. Occupa una superficie di 336 chilometri quadrati, a un'altitudine di 1800 metri.
In ogni caso, non è frequentato da orde di turisti armati di videocamera, e per questo la sua visita è davvero sorprendente.
Ci inabissiamo tra pareti di roccia rossastra, che il fiume ha eroso, inesorabile, nel corso dei millenni. Davanti a noi si aprono scorci spettacolari.
All'improvviso, riusciamo a scorgere il fondovalle, inaspettatamente verde e rigoglioso, tutt'ora coltivato a mais e manioca dai (pochi) autoctoni superstiti. Sperdute in un letto di sabbia dorata, si stagliano le rovine di un antica città Navajo, forse di origine medievale, detta de "l'Antilope" per via del recente ritrovamento di graffiti raffiguranti quello e altri animali selvatici (l'alce, il cervo, il bisonte, l'orso), graffiti eseguiti con ogni probabilità nella prima metà del XIX Secolo.
Tra le vie tortuose del piccolo villaggio Anasazi, tra le abitazioni rupestri diroccate, vediamo aggirarsi alcuni nativi, sono conciati come i pellerossa nei peggiori film western dell'epoca d'oro di Hollywood, e sembrano dei fantasmi che hanno smarrito la propria strada e la propria storia.
Anche qui tutto è in vendita, persino l'orgoglio.
Tutt'attorno c'è una grande desolazione.
D'altro canto, eravamo preparati al peggiore dei possibili scenari. La nostra guida ci aveva avvertito: miseria e alcolismo sono le piaghe che affliggono queste antiche popolazioni. Tra tutte le minoranze etniche presenti negli Stati Uniti, restano quelli con la più bassa speranza di vita alla nascita, il più basso reddito pro capite, il più alto tasso di disoccupazione.

Un vecchio Navajo, coricato sulla sabbia che si scalda al sole, ci chiede l'elemosina.
All'ingresso del parco, un cartello consigliava ai turisti di non dare nulla ai questuanti e ai mendicanti.
Ci frughiamo nelle tasche e gli diamo quel pò di spiccioli che riusciamo a trovare.
Per la modica cifra di un dollaro, annuncia trionfalmente un altro lì accanto, è possibile fotografarlo.
Cazzo vuoi che sia un dollaro.
Se vogliamo riprendere anche sua moglie, che rimane seduta dietro a una bancarella di collanine colorate, lo sguardo assente a fissare il vuoto, dobbiamo pagare il doppio: due dollari in tutto.

La facciamo?
La facciamo.


Un'ora di crepuscolo
avvolta dal fuoco sacro
e in Te entrerò, Spirito delle Sabbie.
La tua notte rinfreschi il desiderio
di stare tra la mia gente, adesso.


(Nostalgia di casa, canto Navajo)

Fotografia: http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Canyon_de_Chelly,_Navajo.jpg

venerdì 2 ottobre 2009

giovedì 1 ottobre 2009