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domenica 13 marzo 2011

QUASI COME KEROUAC, 12


July 1994, 27th
La colazione, qui nella Valle degli Dei, consiste in un paio di tazze di the bollente, un blueberry pancakes, ovvero una sorta di bortolina ai mirtilli, uno spicchio di pomplemo rosa e poi kiwi, di kiwi ce n'è quanti ne vogliamo.
Stanotte abbiamo riposato bene, immersi nella tranquillità quasi surreale di questo enorme silenzio che ormai ci accompagna da giorni, e dunque siamo pronti per metterci subito in strada, Statale 98, verso nord.
La strada attraversa il territorio Navaho, tra scenari di ampiezza inusitata e di chiarore abbacinante. Alla nostra sinistra, i Mormon Ridges, sulla destra prima la Grey Mesa e poi la l'Antelope Creek, che ci accompagnerà sino a Page, frequentato porto sul Powell Lake.
Una volta sulla spiaggia, una piccola striscia di sabbia delimitata da una staccionata di legno e da baracche in lamiera, ci spogliamo e abbandoniamo tutti i nostri indumenti, soldi e documenti compresi, in un fagotto nei pressi della risacca, poi ci addentriamo nell'acqua del lago.
Piu' tardi ci imbarchiamo sul Canyon King, un barcone tutto rabberciato e costruito di tavole di legno sbiancate dal sole che ricorda tanto, con la sua grande ruota smaltata di rosso posizionata sulla poppa, i battelli che solcano le acque del Mississippi.
Nessun giocatore d'azzardo, però, e nemmeno i neri che suonano il blues.
Solo turisti bianchi e orientali, con le loro macchinette fotografiche e le coca-cola, i chewing-gum e i sacchetti di chips in mano.
La vecchia imbarcazione costeggia le chiare scogliere e, piu' sopra, le rocce rossastre incombenti, quasi a picco sull'acqua azzurra e limpida che le riflette in nmodo quasi esatto, capovolte, certo, ma esattamente identiche che sembra quasi una suggestione o un miraggio.
Storditi da questo spettacolo, ci lanciamo delle occhiate in segno di approvazione, ammutoliti. Anche per via della temperatura. La morsa del caldo è implacabile, l'afa pomeridiana asfissiante. Fai fatica persino a respirare. Ma l'umore, lo stesso, è alle stelle. Sono solo poche ore che ci siamo lasciati alle spalle quella giungla di lamiere, asfalto e polvere che è Los Angeles.
Il caldo, che si fotta. Tanto noi si va ancora piu' a nord, verso le foreste e i grandi parchi nazionali.
Presto saremo a Yellowstone.
Riusciremo a vedere gli orsi?

mercoledì 6 gennaio 2010

QUASI COME KEROUAC, 11


July 26th - TERZA PARTE

Solo un colpo di fortuna.
Per nessun motivo apparente, infatti, decidiamo di lasciare la Statale 91 per imboccare una scorciatoia assai tortuosa, verso ovest, in direzione Many Farms.
La strada è assolutamente deserta e dopo ogni curva si aprono magnifici e sempre imprevedibili scenari, guglie e rocce splendidamente erose dal vento e scavate dall'acqua, toni e colori accesi e vividi, sotto un cielo immenso ed elettrico.
Attraversiamo luoghi dai nomi evocativi: Rough Rocks, Red Rocks e Black Mesa. Territorio Navajo. Osservo minuziosamente la mappa. A poche miglia c'è il confine con il New Mexico, e ancora piu' a nord il Colorado. Cortez (The Killer?), Mesa Verde, Durango. La Durango di Bob Dylan.

Avanziamo con estrema lentezza.
Il sole, che sino a ora aveva picchiato duro, ci regala un attimo di tregua, andando a nascondersi dietro a un improvviso cumulo di nuvole nerastre.
Scendono persino due gocce di pioggia, ma è solo un'illusione.
Restiamo in silenzio dentro l'abitacolo della nostra auto che scivola leggera tra le curve che corrono parallele a un torrente in secca.
In pochi minuti raggiungiamo la Statale 190, nei pressi di Kayenta, e poi ancora a nord verso la mitica Monument Valley, che resta proprio sul confine tra gli stati dell'Arizona e dello Utah, ormai solo poco piu' di venti miglia ci separano da una delle mete principali del viaggio.

Arriviamo al tramonto, come da copione piu' classico.
E' a quell'ora, infatti, che le rocce si tingono di rosso come il fuoco, in un fantastico contrasto con l'azzurro intenso del cielo.
Optiamo per il loop in senso antiorario, e dunque circumnavighiamo la zona off-limits mediante una pista di sabbia rossa. La Toyota procede a strappi, affondando le ruote nelle buche e nei vari dislivelli della pista, e ripartendo ogni volta con maggior fatica. Alcuni fuoristrada guidati dai nativi, di quelli con le ruote enormi da mietitrebbia che da noi in Italia le usiamo per andare a prendere i bambini fuori da scuola, fingono di insabbiarsi per costringere i turisti a scendere e a spingere: è una squallida pantomima, e infatti ridono tutti.
Improvvisamente avvertiamo una gran botta, ma dopo una rapida ispezione escludiamo danni al paraurti in tinta carrozzeria.
Inoltre, con la mia consueta e inguaribile goffaggine nel pomeriggio ho rovesciato mezza lattina di Fanta nel cambio automatico, e questo certamente non aiuta.
Schizzi di fango sulle portiere, il cofano è completamente impolverato.
Chissà cosa direbbero, alla Hertz.

Lo spettacolo è grandioso, e ci lascia senza parole.
Tra noi, infatti, non ci nascondevamo un pò di timore che la Monument Valley - vista e rivista in centinaia di film western, e con le sue trite e stereotipate immagini da cartolina - fosse una mezza delusione, e invece così non è.
Cazzo, è davvero come se un fottuto cowboy yankee sbucasse fuori da un angolo e ci puntasse la sua pistola addosso.
Al John Ford Point, scattiamo le fotoricordo di rito.

Un cattivo presagio.
A Kaylenta non ci aspetta nessuno.
(Così almeno è scritto sul manoscritto originale: cazzo avrò voluto intendere, poi. Chi doveva esserci? John Wayne in carne e ossa?)
Traduco che non troviamo da dormire.
Verso Page, allora, e su quella strada poco prima di mezzanotte - dopo aver accarezzato ormai l'idea di accamparci per la notte sui sedili di pelle imbottita della nostra Camry - finalmente avvistiamo un piccolo motel ancora aperto, una specie di baita di legno piuttosto rabberciata ma dall'aspetto così familiare.

lunedì 5 ottobre 2009

QUASI COME KEROUAC, 10


July, 26th (TERZA PARTE)

A Chinle non c'è che un brutto fast food, ancora arredato con i divanetti in plastica colorata e un vecchio juke-box, come se da un momento all'altro dovessero saltare fuori Ralph e Fonzie.
Per il resto, le solite baracche prefabbricate, una pompa di benzina, uno steccato che si perde all'orizzonte. E un muro di intonaco scrostato, alla cui sommità qualcuno ha fissato del filo spinato.

Le due dopo mezzogiorno.
Silenzio assoluto.
Sembra di essere sospesi nel nulla.

Abbandoniamo la Toyota in uno spiazzo di terra polverosa nei pressi del Visitor Center e scendiamo lungo un sentiero scosceso.
Il Canyon de Chelly non è certo il Grand Canyon.
E' un canyon minore.
Monumento naturale e storico di grande importanza, è protetto dal 1931. Occupa una superficie di 336 chilometri quadrati, a un'altitudine di 1800 metri.
In ogni caso, non è frequentato da orde di turisti armati di videocamera, e per questo la sua visita è davvero sorprendente.
Ci inabissiamo tra pareti di roccia rossastra, che il fiume ha eroso, inesorabile, nel corso dei millenni. Davanti a noi si aprono scorci spettacolari.
All'improvviso, riusciamo a scorgere il fondovalle, inaspettatamente verde e rigoglioso, tutt'ora coltivato a mais e manioca dai (pochi) autoctoni superstiti. Sperdute in un letto di sabbia dorata, si stagliano le rovine di un antica città Navajo, forse di origine medievale, detta de "l'Antilope" per via del recente ritrovamento di graffiti raffiguranti quello e altri animali selvatici (l'alce, il cervo, il bisonte, l'orso), graffiti eseguiti con ogni probabilità nella prima metà del XIX Secolo.
Tra le vie tortuose del piccolo villaggio Anasazi, tra le abitazioni rupestri diroccate, vediamo aggirarsi alcuni nativi, sono conciati come i pellerossa nei peggiori film western dell'epoca d'oro di Hollywood, e sembrano dei fantasmi che hanno smarrito la propria strada e la propria storia.
Anche qui tutto è in vendita, persino l'orgoglio.
Tutt'attorno c'è una grande desolazione.
D'altro canto, eravamo preparati al peggiore dei possibili scenari. La nostra guida ci aveva avvertito: miseria e alcolismo sono le piaghe che affliggono queste antiche popolazioni. Tra tutte le minoranze etniche presenti negli Stati Uniti, restano quelli con la più bassa speranza di vita alla nascita, il più basso reddito pro capite, il più alto tasso di disoccupazione.

Un vecchio Navajo, coricato sulla sabbia che si scalda al sole, ci chiede l'elemosina.
All'ingresso del parco, un cartello consigliava ai turisti di non dare nulla ai questuanti e ai mendicanti.
Ci frughiamo nelle tasche e gli diamo quel pò di spiccioli che riusciamo a trovare.
Per la modica cifra di un dollaro, annuncia trionfalmente un altro lì accanto, è possibile fotografarlo.
Cazzo vuoi che sia un dollaro.
Se vogliamo riprendere anche sua moglie, che rimane seduta dietro a una bancarella di collanine colorate, lo sguardo assente a fissare il vuoto, dobbiamo pagare il doppio: due dollari in tutto.

La facciamo?
La facciamo.


Un'ora di crepuscolo
avvolta dal fuoco sacro
e in Te entrerò, Spirito delle Sabbie.
La tua notte rinfreschi il desiderio
di stare tra la mia gente, adesso.


(Nostalgia di casa, canto Navajo)

Fotografia: http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Canyon_de_Chelly,_Navajo.jpg

venerdì 7 agosto 2009

QUASI COME KEROUAC, 09


July, 26th - SECONDA PARTE

Andiamo verso nord.
Niente foresta pietrificata, dunque. Nella nostra scelta, ci aiuta l'addetto al Tourist Information di Winslow, che conferma l'esistenza - poco piu' a nord di Second Mesa - di un piccolo villaggio Hopi fondato nel XXI secolo dC e abitato sino a noi senza soluzione di continuità.

Il Plateau è un affascinante distesa arida.

(Many a hand has scaled the grand old face of the plateau/Some belong to strangers and some to folks you know/Holy ghosts and talk show hosts are planted in the sand
To beautify the foothills and shake the many hands /There's nothing on the top but a bucket and a mop/And an illustrated book about birds/You see a lot up there but don't be scared/Who needs action when you got words)

Quà e là, scarse macchie di vegetazione spontanea.
Non a caso, il nome Navajo (o Navaho) - ovvero la tribu' che abita queste terre tra gli Stati dell'Utah, Arizona e New Mexico - deriva dal termine Navahuu che in lingua Tewa, parlata da alcune popolazioni del sud ovest, significa "Campo coltivato in un piccolo corso d'acqua".
I circa 250.000 Navajo sopravvissuti ai terribili genocidi dell'Ottocento - a oggi essi costituiscono il gruppo etnico più numeroso fra i nativi americani - vivono nelle baracche prefabbricate che costeggiano la strada, allucinanti container metallici spesso costruiti con resti di materiale radioattivo. Nel corso degli anni, i minatori Navaho hanno infatti estratto milioni di tonnellate di uranio dal terreno, necessari agli USA per la produzione di armi. Molti di loro sono morti a causa di malattie correlate alle radiazioni. Altri, ignari delle conseguenze per la salute, hanno utilizzato le pietre contaminate e gli scarti del materiale estratto per costruire le loro case.
(Oggi, un programma del Governo prevede la demolizione e la ricostruzione di queste abitazioni e l’identificazione di tutte le strutture contaminate dall’uranio ancora presenti in queste lande desolate. A coloro invece che decidono di trasferirsi altrove, il governo offre 50.000 dollari. Che Signori.)
Leggiamo sulla guida che a loro si ispira il fumetto Tex Willer. La cosa non mi emoziona. Mai letto, Tex Willer.

Lo spazio che ci circonda è infinitamente grande.
Ovunque giri lo sguardo, il paesaggio è maestoso, incombente.
Forse il segreto del fascino di queste terre, del mito di "On The Road" di Kerouac e seguaci, è tutto qui.
Ormai svuotato di contenuti ribellistici, di evasione dal consueto e dall'ovvio, si è ridotto a una questione puramente dimensionale.
Eppure il mito resiste.
Lo senti sulla pelle, percorrendo queste strade rettilinee che si perdono all'orizzonte.
Da un momento all'altro, mentre percorriamo la Statale 264 in direzione First Mesa, potremmo veder sbucare fuori Kowalski, l'ultimo eroe americano, a bordo della Dodge Challenger R/T bianca del 1970, motore 440/375 HP.

A mezzogiorno il sole è alto e picchia forte.
Una ragazza Hopi ci apre la porta dei villaggi di Hano, Sichomovi e Walpi, arrampicati su un costone di roccia da cui si dominava l'intera valle.
Quanto lontana è lei dallo stereotipo del guerriero coraggioso. E' minuta e graziosa, con un sorriso allo stesso tempo dolce e fiero. La riserva degli Hopi si trova all'interno della Nazione Navajo, ci spiega. La vita del villaggio si basa essenzialmente sulla coltivazione del mais, della zucca, dei fagioli e del melone. E anche su qualche furto o qualche razzìa su commissione, aggiunge sorridendo. Noi abbozziamo, forse per esprimere la nostra complicità. Poi ci accompagna tra le piccole case di argilla con i tetti di paglia e fascine, tenute insieme con tronchi d'albero opportunamente sagomati. I pavimenti sono vecchi materassi ingialliti semplicemente appoggiati sulla terra rossa. La polvere si alza dapperutto, e avvolge lamiere arrugginite, videogames rotti, bottiglie di plastica, paccottiglia varia. Sembra di essere in una discarica all'aperto. E' qui che arrivano i rifiuti e gli scarti dell'Occidente?, mi chiedo. Un anziano e saggio Hopi mi avvicina e mi dice, con un inglese stentato: un giorno gli Yankees saranno seppelliti dai loro stessi rifiuti, vittime del loro sfrenato consumismo, e allora questa terra tornerà a essere nostra. Cazzo, quest'uomo è un genio. Deve aver letto Ballard, mi dico.
Un cane zoppo attraversa il campo, arrancando per il caldo asfissinate.
Altri cani rimangono sdraiati in mezzo agli stradelli del villaggio.
Alcuni bambini - avranno sì e no sei-sette anni - giocano a fare gli indiani, con le piume colorate, l'arco e le frecce. Curiosa, come cosa. Mi viene da pensare: chissà se lo fanno spontaneamente, o se sono costretti a recitare uno stanco e ritrito copione per noi turisti: per noi turisti della miseria e della rassegnazione.
Dio dei Navaho, fai che sia la prima che ho detto.

venerdì 17 aprile 2009

QUASI COME KEROUAC, 08


July 26th, PRIMA PARTE

Il mattino di Flagstaff non ci riserva sorprese.
Appena superata la soglia del sordido motel, veniamo letteralmente investiti dalle folate di vento caldo: le fresche foreste di abeti del Prescott National Park sono solo un ricordo.
Tuttavia, per me non va poi così male: durante la notte ho pagato duramente il freddo patito a causa delle discussioni sui marcipaiedi notturni.
Nemmeno il tempo di mettere sotto i denti qualcosa e siamo già in viaggio. Il programma di oggi è assai ricco, infatti, dobbiamo attraversare il nord dell'Arizona, e dunque dobbiamo cercare di guadagnare ora tutto il tempo possibile.
L'umore della truppa è ottimo.
Il morale alto.
D'altro canto, a parte qualche piccolo disguido - quei piccoli problemi intestinali di stanotte, ad esempio - tutto procede per il verso giusto.

Dopo aver percorso neanche trenta miglia, ci ritroviamo in mezzo ad un altopiano desertico, sito a oltre 1700 metri sul livello del mare. Non pare davvero di essere così in alto!
Ammiriamo questa landa desolata, resa spettacolare dal contrasto cromatico tra il terriccio bruciato dal sole, di colore rosso fuoco, la sabbia grigiastra e lucente, ed infine gli sparuti arbusti che - con chissà quale coraggio - sono cresciuti quà e là, come i peli della barba di un ragazzo ancora adolescente.
Che si tratti davvero di una terra di nessuno, ce lo ricorda adesso la segnaletica arrugginita: Diablo Canyon, mentre più avanti "Green River" nasconde forse il miraggio dell'acqua.

La prima sosta, d'obbligo, è per la visita del Meteor Crater, nei pressi di Winslow, ovvero un enorme cratere - il cui diametro è pari a più di 1200 metri, e una profondità di 170 metri - venutosi a creare con ogni probabilità in seguito a una collisione con una meteorite, circa 49.000 anni orsono.
Anzi, per Wikipedia è il cratere meteoritico per antonomasia. Si presume che il meteorite, o meteora come gli astronomi definiscono questi oggetti una volta entrati nell'atmosfera, sia arrivato da nord, ad una velocità di circa 70.000 km/h; è stato stimato che a questa velocità, la distanza che separa Roma da New York, è stata percorsa in circa 7 minuti. Ovviamente l'impatto è stato devastante, in quanto l'energia sviluppata è stata l'equivalente a quattro volte la bomba di Hiroshima.
Con la differenza che qui non c'era un cazzo di nessuno.
Per un'inspiegabile legge della fisica, sembra che il Meteor Crater sia stato causato da un meteorite assai piccolo, il cui nome è appunto Canyon Diablo, avente un diametro di appena 25-30 metri.
Il paesaggio è lunare.
Seduti sui bordi sfilacciati, a noi l'enorme buco sembra un lago senz'acqua, banalmente.
Ma poi che acqua vuoi trovare in queste regioni aride?

Abbandonato il cratere, ci divora presto un dubbio atroce: svoltare a nord verso la 87, e così attraversare il Plateau e le riserve dei nativi Hopi - e vedere da vicino le reali condizioni di vita di questi che sono davvero gli ultimi, i più perdenti nella spietata corsa al Grande Sogno Americano - oppure proseguire sulla Statale 180 in direzione del Painted Desert, il deserto dipinto, e la Petrified Forest, la foresta pietrificata, una distesa infinita di tronchi e di rami di pietra fossile.
Comunque decidereremo, la scelta comporterà un grande sacrificio, tuttavia inevitabile.

domenica 5 aprile 2009

QUASI COME KEROUAC, 07

(July, 25th - TERZA PARTE)

Alle cinque della sera - involontario (e ante litteram) omaggio al blog di Jr, una lettura immancabile - dopo aver attraversato il Dead Horse Ranch State Park (letteralmente "Parco Nazionale del Ranch del Cavallo Morto", qui con il naming vanno giù pesante...) raggiungiamo la 271, e di qui la Highway 17 che imbocchiamo in direzione Flagstaff.
La strada, ancora una volta, corre diritta fino all'orizzonte.

Improvvisamente, sulla carreggiata opposta alla nostra, si materializza un piccolo uccello dalle piume variopinte e dalla cresta in stile punk. Non ci sono dubbi: è un roadrunner. Avete capito bene, proprio quel fottuto animaletto che da sempre si prende gioco del nostro idolo Willy. Vorremmo vendicarci di lui, ovvero vendicare tutte le angherie che è costretto a subire il simpatico coyote, e dunque ci piacerebbe stendere sull'asfalto luccicante quel piccolo bastardo di un pennuto, che invece zampettando si allontana nella brughiera arsa al sole.
Se almeno avessimo con noi la valigetta dell'ACME...

Arriviamo al Montezuma Castle, in località Valle Verde, nel tardo pomeriggio.
Il suo nome deriva dal fatto che quando gli Spagnoli, che battevano la zona in cerca delle mitiche città d'oro, videro queste abitazioni rupestri - che le antiche popolazioni Sinagua costruirono nelle grotte naturali che si aprivano nella parete rocciosa, probabilmente per motivi legati al clima - furono tanto impressionati che pensarono si trattasse del castello che gli Aztechi avevano costruito per il loro imperatore durante la ritirata.
Di fatto Montezuma non arrivò mai tanto a nord, ma il nome piacque e rimase.
Dal sito http://www.usaontheroad.net apprendiamo inoltre che a Montezuma Castle si sviluppò un complesso di venti stanze che ospitò una comunità di circa trentacinque persone per oltre tre secoli.
Intorno al 1400 la popolazione improvvisamente scomparve, e il motivo rimane ancor oggi un mistero.

E poi siamo di nuovo in viaggio.
Lasciamo la Highway 17 per la strada locale 179, che porta anch'essa a Flagstaff.
Good Idea.
Sedona è un piccolo centro turistico immerso in uno straordinario scenario di catene rocciose, molto simili alle nostre Dolomiti.
Al tramonto, la vecchia Camry si snoda leggera tra le rocce che si tingono di rosso vermiglio. Non a caso questo posto lo chiamano Red Rock Country.
E' uno spettacolo da lasciare senza fiato.
Avvistiamo un lupo spelacchiato ai bordi della strada. Per un istante, i nostri sguardi si incrociano attraverso il parabrezza ricoperto di polvere rossa. Sembra impaurito, e si dilegua tra i cespugli di ginestra.
Quando il sole è ormai basso all'orizzonte, la strada inizia a scendere e si insinua nel lussureggiante Oak Creek Canyon, dove un'improvvisa vena d'acqua garantisce la sopravvivenza di alcuni chilometri di boschi di querce.
Adesso che è sceso il buio, possiamo solo godere del fruscìo del vento che sferza le chiome maestose degli alberi e anche del rumore allegro del ruscello che scorre qualche metro sotto di noi, alla nostra destra.
Inseriamo nel lettore un vecchio disco di Muddy Waters: vedi il caso, il suo nome d'arte ("acque fangose") deriva da un soprannome datogli dalla nonna per via della sua abitudine di sguazzare nel fango in riva al Mississippi.
Il suo blues scarno e persino sporco ci accompagna lungo l'ultimo tratto di strada, stasera.
E io ho la pelle d'oca.

A Flagstaff divoriamo alcuni tranci di pizza di Little Caesar seduti su un marciapiede di una via deserta. Io provo quello con salame a ananas, un classico da queste parti: è la mia componente masochista che ogni tanto esce allo scoperto.
Tira una piacevole brezza notturna, per cui ci fermiamo fino a tardi, sempre lì seduti sulle fredde lastre di pietra, discutendo di politica e di religione.
Infine alloggiamo nel solito, triste e squallido, motel.
Le docce non funzionano, i fiotti di acqua gelida scendono a singhiozzo, e neppure le porte si aprono, per entrare nella nostra stanza dobbiamo fare leva con tutto il nostro peso e rischiamo di sfondare tutto.
Ma la stanchezza è tanta, per cui non c'è da andare troppo per il sottile.
E poi noi siamo gente che si arrangia, cazzo.

domenica 8 marzo 2009

QUASI COME KEROUAC, 06

(1994, July 25th - SECONDA PARTE)

La visita di Taliesin West si è appena conclusa sotto un sole che spacca le pietre. Mi appresto a scendere per un sentiero polveroso, verso il sobborgo di Scottsdale: è lì che ho un appuntamento con Big e Paulette. Puntuale, la Toyota Camry mi carica nei pressi della fermata del bus.
Mi lascio cadere esausto sul sedile posteriore.
Non ho nemmeno la forza di parlare. Poco male, sarà una giornata lunga e avrò tutto il tempo per raccontare.
(Non è ancora mezzogiorno.)

Abbandoniamo Phoenix e imbocchiamo la Highway 17 in direzione nord, per Flagstaff.
Dopo poche centinaia di metri, decidiamo di lasciare l'autostrada e di optare per un itinerario alternativo con la Statale 89 in direzione nord-ovest. Consultando la mappa, Paulette si è accorto che così facendo attraverseremmo la Prescott National Forest e di lì raggiungeremmo la ghost-town ottocentesca di Jerome.
Ma la segnaletica è inesistente, cazzo, e presto ci ritroviamo sperduti su una strada che attraversa il deserto. La percorriamo per almeno trenta miglia e raggiungiamo Paolo Verde, sobborgo a sud di Phoenix: esattamente nella direzione opposta a quella che andiamo cercando.
Merda.

Dove cazzo siamo?, chiede Big.
Non lo so. Non si capisce un cazzo su questa mappa di merda, faccio io.
Porco ***, fa Big.

(Questo dialogo - uno dei nostri più tipici dialoghi, va detto - viene riportato al fine di caratterizzare e tratteggiare meglio i personaggi del racconto. E' un passaggio inevitabile, direi la lesson one di una qualsiasi scuola di scrittura, che sia o meno creativa.)

Dopo un paio di inutili e goffi tentativi di ritrovare la via maestra, riusciamo infine a riprendere la marcia verso Flagstaff.
Un paio di hamburger in uno squallido fastfood con una sgualcita tappezzeria color crema è tutto quello che troviamo da mettere sotto i denti.
Siamo a Wickenurg, Peeples Walley. Una località dimenticata dal Signore e da tutti gli uomini di buon senso.
La temperatura non accenna a diminuire: il termometro della Camry indica 40,5°. Soffia, insopportabile, un'aria calda e secca.
Scesi dall'auto, dobbiamo fare presto se non vogliamo che le suole delle scarpe si sciolgano sull'asfalto bollente.

La frescura dei boschi di abeti e cedri della Prescott National Forest è come un manna dal cielo.
Ora viaggiamo all'ombra delle conifere secolari, con i finestrini finalmente abbassati, di aria condizionata non ne potevamo proprio più.

Poco oltre, Prescott è l'America profonda, se questa espressione può avere un senso.
Prescott è anche il fallimento dell'urbanistica, anzi, l'assenza totale di qualsivoglia proposta di pianificazione urbana. Ci muoviamo perplessi, come in un videogame, in un'enorme e orrendo marasma di seconde case, motel con davanti immensi parcheggi, drugstore, insegne pubblicitarie, officine meccaniche, case mobili abbandonate in spiazzi improvvisati di terra polverosa.
Ci lasciamo questo triste spettacolo alle spalle senza rimpianti, e raggiungiamo in breve tempo Jerome, la città fantasma. Non è difficile intuire, purtroppo, che essa non è che la ricostruzione, chissà quanto mai fedele, di un tipico villaggio dell'epoca della mitica corsa all'oro.
Una sorta di Grazzano Visconti del West, insomma.
Passeggiamo un pò svogliati nella Main Street, sulla quale si affacciano tutti gli edifici, interamente costruiti in legno. Ci sono il saloon, l'ufficio dello sceriffo con le celle della gattabuia, persino una segheria ancora in funzione, dove un vecchio con una camicia scozzese e una folta barba rossiccia finge di lavorare alla pialla meccanica. Tutto intorno, altre comparse recitano distrattamente il loro copione.
E noi recitiamo il ruolo dei turisti ingenui e creduloni, cazzo ci costa.
La location è comunque interessante per un paio di scatti - il vecchio falegname con la barba, un gruppo di pavoni dalla coda coloratissima, i vecchi furgoncini abbandonati ai margini del deserto - con la Yashika, scatti che vanno centellinati con parsimonia e che non si possono sprecare alla cazzo. In questi tempi, si lavora ancora con le diapositive: nessuna nostaglia, spesso litigavo coi caricatori che immancabilmente si incastravano nel proiettore, che poi le mettevo dentro sempre sottosopra, con le persone a testa in giù, cazzo, per non parlare di quando mi cadevano per terra e si infilavano dappertutto, sotto il letto, il tavolo, ecc... Siamo molto prima dell'avvento della tecnologia digitale, infatti. Dunque, è necessario soppesare bene emozioni e valutare con precisione la qualità della ripresa, prima di pigiare il tasto che apre il diaframma.
Le cose si complicano ancor più se si pensa che la vecchia reflex Yashika è una comproprietà secca, come segue:
* Country Joe, comproprietario per la quota di 1/2;
* Paulette, comproprietario per la quota di 1/2.

sabato 28 febbraio 2009

QUASI COME KEROUAC, 05

(1994, July 25th - PRIMA PARTE)

Non è ancora l'alba, e a Phoenix c'è un caldo da vomitare.
Alle sei e mezza siamo già in marcia. Ai margini della città, un reticolo ortogonale senza fine di strade larghe e insignificanti, piccole case in legno colorato disseminate quà e là, in modo del tutto casuale. Vecchi pick-up arrugginiscono al sole.
Attraversiamo un parco botanico - qui si possono trovare tutte e 30 le speci di cactus esistenti al mondo - ma non è esattamente un parco, come noi lo intendiamo. E' una distesa infinita di sabbia, e poi di sabbia.
Siamo diretti verso Scottsdale, sobborgo alla moda caratteristico per le sue eleganti case vittoriane.
Le vetrofanie dei pub e delle pasticcerie indicano le dieci come orario d'apertura. Sono le sei e trenta, e lo stomaco è vuoto.
Troviamo un posto aperto nei pressi di una pompa di benzina. E' triste, ma non c'è alternativa.

Big e Paulette hanno deciso: mi accompagnano a Taliesin West ma non entrano, mi lasciano lì e poi mi vengono a riprendere nel pomeriggio. Se ne rimangono a fare shopping a Scottsdale, loro. Gli frega poco di Frank Lloyd Wright. Vanno a fare incetta di T-shirt da una tipa sciroccata che una volta aveva undici gatti, e ora ne sono rimasti solo due.

Taliesin West è uno dei capolavori del grande maestro dell'architettura moderna americana. Opera emblematica per comprendere lo spirito pionieristico del suo autore, è nata negli anni Trenta nel bel mezzo del deserto come rifugio-scuola per il periodo invernale, dove decine di giovani apprendevano le concezioni dell'architetto di Chicago e vivevano come in una sorta di comunità cooperativistica.
La visita guidata si svolge sotto un sole che picchia in modo terrificante. Intorno a me, un gruppo di giapponesi si riparano sotto ombrellini coloratissimi. E io che li ho sempre presi per il culo... in questo momento pagherei qualche decina di dollari per un fottuto arnese come quello. Trovo riparo dietro a una trave enorme di calcestruzzo, che così inclinata sembra emergere direttamente dal suolo. Da lì, non riesco a sentire bene le parole della guida, un anziano dalla pelle bruciata dal sole e con un grande cappello da cowboy in testa. Parla un inglese masticato, e per di più molto velocemente. Non ci capisco un betao cazzo. Devo avvicinarmi, porca troia. Sono di nuovo lì, a spaccarmi la testa sotto il sole a picco. Penso che potrei trascinare una di quelle minute vecchine giapponesi dietro un cactus e poi sgozzarla per portarle via il suo, ma temo che la cosa non passerebbe del tutto inosservata.
Il vecchio cowboy dice che è domenica, e che quindi dobbiamo perdonargli tutti gli strafalcioni che dice.
E poi non è nemmeno un architetto, aggiunge.
Ci racconta dell'uso poetico dei materiali - le pietre, il legno, il cemento, gli intonaci di colori caldi e terrosi: rosso, giallo, marrone - del rapporto instaurato con il territorio, dell'insuperabile gestione della luce, del continuo susseguirsi di dislivelli, terrazzamenti e scalinate, nel tentativo di non voler violentare il suolo, ma anzi esaltarne l'irregolarità.
Un'improvvisa frescura ci accoglie nelle sale interne.
Ed è un solievo enorme.
Qui, adagiato su una delle sue celebri sedie di legno, riesco davvero a d apprezzare la sacralità del luogo domo mi trovo.
Taliesin West ospita attualmente la Frank Lloyd Wright Foundation, l'istituzione creata da Wright stesso per custodire tutte le sue opere, e appesa alle pareti si può ammirare una straordinaria raccolta di scritti e disegni, molti dei quali tuttora inediti, e alcuni lavori dei suoi allievi migliori.

Leggo ad alta voce:

"THE REALITY OF BUILDINGS DOES NOT CONSIST IN ROOF AND WALLS, BUT IN THE SPACE WITHIN TO BE LIVED IN"

*Immagine da:
http://www.architechgallery.com/arch_images/architech_images/pedro_guerrero/guerrero_taliesin.jpg

giovedì 7 agosto 2008

QUASI COME KEROUAC, 04

(July 24th, 1994) - SECONDA PARTE

La strada taglia il Sonoran Desert in due porzioni uguali.
Attraversiamo questa landa arida e desolata con tantissimo entusiasmo e voglia di stupirci. Siamo gasati. La radio è a manetta. Sono le due del pomeriggio, e la temperatura sfiora i quaranta.
I laghi di Cadiz e Danby, incastonati tra le Iron e le Calumet Mountains, sono quasi un miraggio, un'oasi, dopo tante miglia di nulla e poi nulla. Oltrepassato il Granite Pass, incontriamo per la prima volta il fiume Colorado, che diventerà nostro fedele compagno di viaggio nei prossimi giorni. Il grande fiume costituirà, per lunghi tratti nel futuro del nostro viaggio, il confine tra gli stati della California e dell'Arizona, il Grand Canyon State.
Sulla Statale n. 62 non ci sono segni di vita, o quasi. Incontriamo una casa, o meglio la sua cassetta della posta (sempre collocata sulla strada principale, mentre le case a volte sono in fondo a lunghi viottoli polverosi), solo ogni morte di Papa.
La Camry viaggia a tutto gas. Ci avevano avvertiti che in California sono inflessibili contro gli eccessi di velocità. Se passi i limiti di un tot, ti portano dentro una notte, e la passi in cella, non ci sono di cazzi. Ma qui nel deserto, sembra impossibile incontrare una pattuglia. Dovrebbero scovarci con l'elicottero. Tipo Punto Zero. Tipo Kowalski. Ma per quale motivo dovrebbero seguirci con un elicottero, poi? Avranno dell'altro da fare, che seguire tre stronzi di turisti italiani su una fottuta Toyota a noleggio, pensiamo.

La lancetta del carburante crolla paurosamente. Succede tutto all'improvviso: dieci minuti prima segnava quasi un quarto di serbatoio.
Merda, siamo in riserva sparata.
Rallentiamo.
Big controlla la mappa. A dieci miglia da qui, nel buco del culo del mondo, è segnata una località chiamata Rice, proprio al bivio con una strada secondaria che corre verso sud, parallela alla ferrovia che porta al confine messicano.
Procediamo a bassa velocità, aiutati dal cruise control, un meccanismo per noi nuovo che non ti permette di superare un limite prefissato.
Merda.
Scorgiamo due case diroccate in lontananza, ai margini della statale.
Su una delle due costruzioni vi è ancora dipinta una scritta: WELCOME TO RICE. Poco più in là, un distributore abbandonato da anni. Nel piazzale c'è un auto con il cofano aperto, e il suo proprietario steso a terra a torso nudo, apparentemente addormentato.
Cazzo, faremo la sua fine, pensiamo.
Riprendiamo la marcia, e come per miracolo la lancetta risale un pò. Tra dieci miglia dovremmo essere a Grommet, così almeno dice la nostra carta. Non ci nascondiamo che ci sono discrete possibilità che Grommet possa essere come Rice, l'ennesimo villaggio fantasma in queste terre di frontiera. Avamposti dimenticati della mitica corsa all'oro che si scatenò nel secolo scorso.
Così è, infatti.
Anche a Grommet non c'è un cazzo di niente.
Adesso sì che siamo preoccupati. Qui in California chi rimane senza benzina si becca anche una pesante sanzione, oltre al fatto che su questa strada non passa un cazzo di nessuno e di telefoni neanche a parlarne...
Diciannove miglia più avanti la mappa segnala Vidal Junction, a poche miglia dal confine. Arriviamo lì con il motore che procede letteralmente a strappi, cercando di pescare le ultime gocce di nettare vitale dal serbatoio. Ancora tre o quattro miglia e non ce l'avremmo fatta. Facciamo il pieno in una stazione si servizio della Shell, e mentre ci godiamo lo scampato pericolo ci diciamo che non aspetteremo più di restare in riserva.

In Arizona il deserto è ancora più deserto.
Costeggiamo il Cactus Plain, una distesa infinita di saguari, il cactus più familiare nel paesaggio dell'Arizona meridionale. La strada statale n. 95 ci conduce a Quartzsite, dove imbocchiamo la Freeway n. 10 in direzione est verso Phoenix, la capitale.
Il sole è sempre alto all'orizzonte, e ci accompagna durante la nostra cavalcata attraverso il Ranegras Plain, le Big Horn Mountains, il Tonopah Desert. In realtà, il paesaggio è sempre uguale: rocce, sabbia rossa e cactus. E poi ancora rocce, sabbia rossa e cactus.
Qunado giungiamo a Phoenix, il sole sta tramontando e regala uno scenario assai spettacolare. La vista di questa magnifica cattedrale del deserto, questa selva di guglie e grattacieli illuminati dalla sua luce rossastra resterà indimenticabile. La freeway penetra nel superbo skyline metropolitano come nel ventre di un mostro, e offre una serie di vedute mozzafiato. Sostiamo all'Heritage Place per una rapida visita, ma il caldo è insopportabile.
Esausti, ci mettiamo in cerca di un posto decente dove passare la notte. Lo troviamo sulla strada in direzione est, verso Scottdale, un Motel pulito con una piccola piscina in cortile, dove ci immergiamo subito dopo esserci liberati dei bagagli. Il bagno notturno ci ritempra e offre un temporaneo sollievo alla terribile calura.
Usciamo per la cena a un orario assurdo. Verso le undici, prendiamo un tavolo al ristorante messicano lì a fianco. Il gestore, Tom, è un tipo robusto con due bei baffoni neri. Ci chiava più di cinquanta verdoni a cranio per dei tacos e delle tortillas col chili, ma rimane un tipo simpatico. Altri posti dove mangiare non ce ne sono. Cazzo doveva fare? Era chiaro che ci avrebbe chiavato.
La clientela del locale ci piace meno. Puttane attempate, facce rugose e vissute da giocatori d'azzardo e da magnaccia, bevitori di birra di mezza marca che alzano la voce, sempre in cerca di un pretesto per scatenare una rissa.
Non è il caso di restare a fare due chacchiere conviviali, pensiamo.
Sarà meglio se andiamo a controllare se c'è ancora tutto nella nostra stanza.

giovedì 24 luglio 2008

QUASI COME KEROUAC, 03

(July 24th, 1994) - PRIMA PARTE

Il fuso orario non perdona.
Alle quattro e mezzo siamo già in piedi, dopo esserci più volte girati e rigirati tra le lenzuola.
Non abbiamo nemmeno fame.
Quello che è certo, è che quel pazzo furioso dell'indiano tifoso di Baggio a quest'ora del mattino dorme della grossa, e l'ultima cosa che ha in testa è quella di svegliarsi per preparare il breakfast a noi tre sfigati. Fortuna che abbiamo pagato in anticipo, per cui possiamo silenziosamente andarcene da quello squallido motel, senza rendere conto a nessuno.
Dopo il problema alla Hertz con il cambio di auto, ieri era sorto un nuovo intoppo. Verso sera, avevamo telefonato alla KLM per confermare il volo di ritorno, ma ci avevano risposto che non esistevano prenotazioni per il 15 agosto a nostro nome.
Cazzo, non ne va bene una.
Che paese di merda, l'America.
L'unica era andare a verificare di persona. Allo sportello della compagnia di bandiera olandese del L.A. International Airport ci accoglie con un sorriso a trentadue denti uno steward di colore. Cioè, di colore: è un negrone coi controcazzi, sarà alto quasi due metri, un fisico da paura. Si mette male, toccherà dargli ragione su tutta la linea. In pochi istanti, l'energumeno verifica i dati del terminale, digitando rapidamente sulla tastiera, e alla fine alza il pollice verso di noi a segno di conferma:
- Ok, it's all right!
Che grande paese, l'America.
Il negro continua a sorridere, neanche fosse in uno spot di un nuovo dentifricio miracoloso. In modo assai galante ci consiglia di chiamare la compagnia per un ulteriore conferma nelle 72 ore precedenti l'imbarco a Los Angeles, perchè non si sa mai.

Usciamo rincuorati dall'aeroporto. Adesso tutto è a posto, si può partire. L'America ci aspetta.
Ripercorriamo i nostri passi e imbocchiamo di nuovo la freeway verso nord, in direzione Malibù Beach. Proprio quì ha inizio il celebre Sunset Boulevard, ovvero il viale principale di Beverly Hills, che percorriamo a velocità ridotta. Siamo nel paradiso dorato dello star-system cinematografico. Abitano tutti quì, quei buffoni. Sulla collina, riusciamo a intravvedere la scritta:
H O L L Y W O O D.
Bella cagata.
Da quà sembra fatta con il cartone. Sembra uno di quei festoni che si attaccano alle pareti alle festicciole di compleanno dei bambini.
Il Sunset non è altro che una sfilata di ville favolose e di giardini lussureggianti, peraltro nascosti alla vista dei curiosi e dei passanti mediante cancellate e recinzioni altissime, alla cui sommità è stato posto del filo spinato. I controviali punteggiati da altissime palme sono deserti, c'è solo qualche fuoristrada assurdo parcheggiato sul marciapiede, dal momento che ancora non è ancora esplosa la mania dei SUV.
C'è un silenzio assordante. Gli unici rumori che riesci a percepire sono gli scatti a intermittenza degli impianti di irrigazione automatici. Anche i cani da guardia sono ancora nel dormiveglia, evidentemente.
In prossimità della Downtown, la classica selva di grattacieli in acciaio e vetri, accostiamo per fare finalmente colazione. Lo stomaco vuoto inizia a lamentarsi. In un locale triste, arredato come un brutto fast food di periferia, sorseggiamo un caffè in tazza grande, lungo come la fame, accompagnato da un donut fritto, ma fritto all'inverosimile. Sarà anche il cibo preferito da Homer Simpson, resta il fatto che il donut è merda aalo stato puro. Ancor più se ti tocca ingurgitarlo alle otto del mattino.

Ci muoviamo in direzione sud-ovest, sulla Harbour Freeway, poi sulla Artesia e infine sulla Riverside.
Quando, grazie a Dio o a chi ne fa le veci, abbandoniamo la sterminata regione urbana di Los Angeles, abbiamo già percorso quasi 140 miglia, ovvero 200 km e suffella.
La Statale n. 10 conduce a Palm Springs, noto luogo di villeggiatura mondano, e poi a Indian Wells, Indio Hills.
A un tiro di sputo dall'oceano, la terra è secca e arida.
La temperatura si alza improvvisamente.
La strada è deserta, l'unico pericolo è rappresentato dai brandelli di copertoni abbandonati quasi dappertutto.
Dall'asfalto si alza un calore vaporoso.
Il traffico è diretto verso sud, in direzione San Diego, Orange County e Messico, la mecca di orde di minorenni e non solo, che si dirigono là per abusare di alcol e trip vari.
Scolliniamo le Mecca Hills, punteggiate da centinaia di mulini a vento, e raggiungiamo il bivio per il Cottonwood Pass, che costituisce l'ingresso meridionale del Joshua Tree National Monument.
A mezzogiorno entriamo nel parco, reso celebre dal disco degli U2.
La Cholla Cactus Garden è una distesa sterminata di strani ciuffi pelosi, soprannonminati Teddy Bear Cholla.


Diventeremo degli esperti di cactus, nei prossimi giorni: sapremo distinguere il Cholla dall'Organ Pipe, un cespo basso e largo, oppure da un saguaro, sicuramente il nostro preferito, un bastone verticale con due o tre diramazioni laterali che si piegano verso l'alto con un angolo retto. Notiamo una curiosa somiglianza con i vecchi pali del telegrafo, che da queste parti si possono ancora trovare.


Il Mohaved Desert è uno scenario imponente e desolante.
La Hidden Valley è tuttavia il piatto forte: ammassi e cascate di rocce erose dal vento e dalla pioggia sino a donargli splendide forme arrotondate, quasi geometriche, disseminate su una landa desertica di sabbia giallo-brunastra. Tra le rocce, spuntano eleganti e fieri gli alberi di Joshua. Lo spettacolo è grandioso, da commuoversi. Scendo dalla Camry per scattare qualche fotografia - un tormentone che ci accompagnerà durante tutto il viaggio, n.d.r. - e appena appoggio i piedi sulla sabbia bollente mi ustiono a puntino.


Il villaggio di Joshua Tree è attraversato in tutta la sua lunghezza da un'assurda strada a sei corsie, costeggiata da due file di piccole casette in legno.
Il tutto è così sproporzionato da sembrare perfetto.
In una taverna tipo saloon, gestita da una simpatica famiglia di Japan, come li chiamano quì, sbraniamo letterlamente degli ottimi hamburger con brocche di te' freddo a volontà. Ci voleva proprio.
Sul soffitto, un enorme ventilatore ruota senza sosta, cigolando in modo sinistro.

(segue)

martedì 22 luglio 2008

QUASI COME KEROUAC, 02

Il parco dà ricetto a combinazioni davvero innovative di persone. Ancor più di Berkeley in generale, è una specie di laboratorio, e si ha l'impressione che questa area erbosa sia una specie di centro di tecniche sperimentali di creazione della gente, una sorta di capitale mondiale della coppia mista. Probabilmente metà delle coppie presenti è in qualche modo incrociata, perlopiù bianchi e neri ma anche asiatici e bianchi (nella versione meno comune di uomo asiatico-donna bianca), duetti bianco-latini, o asiatico-latini o nero-asiatici, con una spruzzata di lesbiche. Sembra di essere in un casting per la pubblicità di una banca - si prende uno di questo, due di quello, più una figura non tradizionale... "DAMMI GLI ANNI NOVANTA! DAMMI IL FUTURO!"
Incidentalmente, io e Toph, quanto a repertorio di battute, siamo nel bel mezzo di una fase sulla dubbia importanza delle razze. Non siamo sicuri di come sia cominciata, anche se di certo non a causa del maggiore e più responsabile di noi due, ma più o meno funziona così.
Io dico: Il tuo berretto puzza di piscia.
E lui: Dici così solo perchè sono negro.
Segue risata.
Questo schema funziona adattato a qualunque situazione, per esempio con la sessualità ("Mi stai dando noia solo perchè sono gay?") o con la religione ("E' perchè sono ebreo? E' per quello?"). Oh, ci divertiamo un mondo, o almeno io sì, anchè perchè lui sa a malapena quello che sta dicendo (NDR: Dave, ovvero l'io narrante, ha 22 anni, il fratellino Toph solo 8...). Ovviamente io sto bene attento che questi pezzi di bravura restino tra noi, e che ce li godiamo solo a casa, dato che tutta la vis comica andrebbe persa con i suoi compagni, i loro genitori, o ancora peggio, con la signora Richardson.
Dopo circa una mezz'ora di performance ad altissimo livello col frisbee, ci riposiamo nel bel mezzo della zona aquiloni, sull'erba, osservando le code che saltellano e si inarcano. Il Golden Gate è proprio davanti a noi, sembra minuscolo, leggero, fatto di plastica e di filo di ferro. La città, cioè la Città, cioè San Francisco, è ammassata e bianca e grigia a sinistra, la baia è piatta, blu, qua e là appena increspata, punteggiata da piume bianche di barche a vela e motoscafi con la loro striscia candida.
E all'improvviso mi viene un'idea: nuotare fino ad Alcatraz.

DAVE EGGERS, L'opera struggente di un formidabile genio, 2001

sabato 12 luglio 2008

QUASI COME KEROUAC, 01

(July 1994, 23rd)

All'ufficio della Hertz dell'aeroporto di Los Angeles sono mortificati. Hanno esaurito le auto "Midsize", poco più di una nostra utilitaria. Proprio la categoria che avevamo prenotato dall'Italia. Cazzo, pensiamo. Si parte bene. Adesso ci tocca scatenargli addosso i nostri avvocati... Ma poi tutto si risolve bene: allo stesso prezzo ci propongono una Toyota Camry, categoria superiore, una berlina dall'estetica francamente orribile ma con interni in pelle e radica, optional di lusso e ampio bagagliaio. E' un tremila di cilindrata, dovremo stare attenti a non schiacciare troppo l'acceleratore, anche se qui la benzina costa poco. Accettiamo, ci mancherebbe. Mentre mi avvicino al deposito delle auto, la osservo di nuovo. Dire che è orribile è davvero poco. In ogni caso meglio della Escort che ci aspettava.

Fatichiamo non poco per districarci nei labirinti del L.A. Airport International. Una volta fuori, imbocchiamo una freeway in direzione nord, verso le spiagge di Venice e Santa Monica.
Procediamo a velocità contenuta, anche per prendere confidenza con il cambio automatico.
Un intreccio inestricabile di strade sopraelevate a cinque o sei corsie che tengono unite una serie di sobborghi che si susseguono senza soluzione di continuità.
Più che una metropoli, Los Angeles è questo.
Attorno a noi è terra bruciata.
Oltre il guardrail, tra le sterpaglie spuntano baracche di lamiere ondulate, copertoni da camion, rottami vari.
Los Angeles è anche questo.
In poco meno di un'ora siamo a Venice. Sono le due del pomeriggio. Il sole picchia duro. In giro non c'è un'anima, ma purtroppo è sabato e quindi il lungomare è chiuso al traffico.
Ci dirigiamo dunque ancora più a nord, verso Santa Monica.
Ora il panorama è decisamente cambiato. Sfilano davanti a noi ville eleganti con i classici vialetti fioriti, palme lussureggianti, Harley Davidson e Cadillac lunghe oltre dieci metri, con i vetri scuri. Giubbotti di pelle nera e minigonne.

A Santa Monica ci mettiamo subito a cercare un posto dove passare la notte.
Il Best Western che ci ha suggerito l'impiegata dell'Ufficio Immigrazione - la tipa che si deve sorbire il famoso questionario con dichiarazioni come "Non ho mai violentato un bambino" oppure "Non sono un simpatizzante nazi" - ha tariffe piuttosto alte. Optiamo piuttosto per un motel in Lincoln Street, poco distante da lì. E' gestito da un tipo simpatico, probabilmente di origine indiana o pakistana, con un sorriso da spot pubblicitario. Ci racconta che ha tifato Italia nella recente Coppa del Mondo, giocata proprio qui negli States.
- Basio, Basio! Wonderful!
- Basio?
- Yes, Basio! Good player...
Ci vuole un pò di tempo per capire che sta parlando di Roberto Baggio, in fin dei conti siamo reduci da un volo transoceanico.
L'indiano è andato a vedere la finalissima al Rose Bowl di Pasadena, a poche miglia a nord di Los Angeles.
- Bad luck! - commenta così la sconfitta ai rigori degli azzurri.
- Yes, bad luck. - confermiamo noi. Anche se a dire il vero quell'Italia passerà alla storia solo per il culo di Sacchi...
La stanza è squallida. Gli unici arredi disposti sulla consueta moquette marrone scuro sono due reti a una piazza e mezzo, una tv a colori anni Settanta, una delle prime uscite sul mercato forse, un tavolino e due sedie. Che triste.
Con il passare dei giorni, però, ci dovremo abituare a questa povertà di standard.
I canali a disposizione trasmettono un poliziesco, il baseball e arti marziali. Spegniamo la tv e scendiamo in spiaggia.

Attraversiamo un quartiere di piccole case in legno, con piccoli patii esterni decorati con cactus e rampicanti colorati, tettoie in cannette di bambu' per tenere al riparo gigantesche auto dalla carrozzeria tirata a lucido. Se verso l'interno le architetture sono assai semplici, avvicinandoci all'oceano prende il sopravvento il postmodern: sul litorale costeggiato da due filari di palme da cocco è un trionfo di barocco italiano e di pagode cinesi, frontoni neoclassici e colonne scanalate.
La spiaggia è senza fine.
Per raggiungere la riva ci vuole un'infinità.
Il baywatch, la consueta torre di osservazione per il salvataggio, ostenta con orgoglio la bandiera a stelle e strisce. Da lì è possibile avere una bellissima veduta di insieme sull'Oceano Pacifico. Nessuno di noi l'aveva mai visto, sino ad allora.
Qui c'è spazio per tutti.
C'è chi fa footing con tute e top aderenti. Chi porta a passeggio il cane. Ci sono ragazzini neri e ispanici che compiono incredibili evoluzioni sui loro skate. Bambini con aquiloni coloratissimi. Qualcuno gioca col frisbee. Ragazze bellissime che sollevano pesi in palestre improvvisate sulla sabbia. Non mancano nemmeno i surfisti, muscolosi e statuari, con l'immancabile bandana e i lunghi capelli biondi sulle spalle: sono loro il vero simbolo della California.
Raggiungiamo un enorme molo di legno, popolato da una frotta di pescatori in paziente attesa. Ci avviciniamo per dare un'occhiata alle reticelle. Il loro bottino è assai magro. Eravamo curiosi di vedere quanto erano grandi persino i pesci. Tutto è più grande, qui. Ti sembra di essere in un plastico in scala 2:1. Ci si poteva aspettare tonni di tre-quattro metri.
Camminiamo sul bagnasciuga, accompagnati dal rumore della risacca delle onde. Immergiamo i piedi nell'oceano ma l'acqua è gelata. Di fare il bagno non se ne parla nemmeno. Mica abbiamo ammazzato qualcuno. Molto meglio sederci sotto un ombrellone di paglia e ordinare delle limonate ghiacciate con nachos messicani e salsa al chili piccante.
Stanchi ma felici, ci incamminiamo verso il motel: il jetlag comincia a farsi sentire.
Sono solo le nove della sera, ma già dormiamo tutti e tre.

giovedì 26 giugno 2008

QUASI COME KEROUAC, 00

In attesa degli ulteriori sviluppi del Munich Blues, per ora stagnante (ma il Piccoletto mi ha promesso un suo contributo, attendiamo fiduciosi), stamattina registriamo la mail di Steve e Federica da San Francisco.
Che è fredda e nebbiosa, come quasi sempre.
Steve dice che ha il suo fascino, e ha ragione.
Il Golden Gate immerso nella nebbia è un'immagine che non si dimentica facilmente.
Steve fa facile ironia sulla promiscuità che regna sovrana ad Haight Asbury e dintorni - " e' pieno di ricchioni e leccabistecca", racconta - e rimugina sui disguidi del viaggio (volo annullato e dirottato su altra compagnia: quando parti senza l'ausilio del Grosso e del Piccoletto, sono cose che possono capitare), oltre a segnalare che la sua carta di credito sta già prendendo il volo...

Cj è preso dalla nostalgia per il viaggio che ha fatto - con altri due esponenti del Cartello, ovvero Big e Paulette, nell'estate del 1994.
Proprio allora Cj aveva debuttato come scriba.
Aveva raccolto un diario di viaggio su un centinaio di pagine a righe di un NoteBook PenTab rilegato con spirale metallica, cover viola.

La sua idea è di trascriverlo qui sul blog.