sabato 25 aprile 2009

Get'em out by friday, 02

Il vecchio cancello in ferro è sprovvisto di lucchetto, per cui posso entrare senza problemi. Giro il chiavistello arrugginito e faccio leva con il corpo. A fatica si apre la prima anta, cigolando in modo sinistro.
Faccio pochi passi in direzione della corte inghiaiata.
Mi guardo attorno nella speranza di trovare qualcuno a cui chiedere, ma sembra non esserci anima viva, solo una mezza dozzina di gatti dal pelo arruffato, spaparanzati sul cemento a godersi il primo, pallido, sole primaverile.
Probabilmente, non mi aspettava nessuno.
Eppure l'avevo detto al giovane avvocato della ditta di costruzioni: avverte lei gli inquilini che la settimana prossima andremo là per il rilievo dei fabbricati?
Non si preoccupi, mi aveva risposto. Ci penso io.
E invece.

Avanzo con cautela tra i vecchi edifici rurali diroccati. Il fienile dai pilastri in mattoni pieni ha il tetto mezzo crollato, le travi di legno sono accatastate in terra da chissà quanti anni. Anche il silos per il grano è fuori uso, manca persino la scaletta metallica che serviva per salire sino in cima alla torre cilindrica. Qui ormai non c'è più nessuno che coltiva la terra.
Tra un edificio e l'altro sono state tirate delle corde di nylon per stendere i panni. Mi faccio largo tra mutandoni di lana e canottiere a righe verticali sottili, di quelle che portavano i nostri nonni. La biancheria è usurata all'inverosimile, e il bianco - da cui: biancheria - è un lontano ricordo.

E invece qui nessuno sapeva un cazzo.
Bene.
A me piace così tanto fare queste figure di merda. E' assai piacevole, infatti, fare irruzione in casa di altri senza alcun preavviso.

Busso alla porta del primo alloggio, sito all'estremità settentrionale dell'aia. E' una casa bassa con l'intonaco rifatto, ma senza colore.
Niente.
Busso ancora, questa volta con maggor vigore.
Dopo una lunga attesa, viene ad aprirmi l'uscio un vecchio con la barba ispida e le labbra sporgenti: mi squadra perplesso e mi chiede chi cazzo sono.
Accoglienza freddina, non c'è che dire.
Nulla di cui stupirmi: che cazzo mi aspettavo, una banda di ottoni schierata in mezzo alla corte, in divisa da cerimonia, che intona marcette di benvenuto?
Gli rispondo, scusandomi, che sono qui per fare un rilievo degli edifici, sì, insomma, per prendere le misure. Mi ha assegnato questo compito la nuova proprietà, una ditta di costruzioni assai nota in città, attiva ormai da diverse generazioni.
Lui scrolla la testa e poi mi fa entrare, dopo avermi squadrato dalla testa ai piedi.

E così ci mandano via, mi fa.
Questo non lo so, dico io. Sono qui solo per prendere le misure.
Ah, fa lui, poco convinto.
Nel tinello c'è una sola finestra, assai piccola. Nella penombra intravvedo una sagoma accanto alla vecchia stufa di ghisa. Mi avvicino e mi trovo davanti un'anziana signora sovrappeso, ma sovrappeso in modo raccapricciante, accasciata su una poltrona in finta pelle e con due cannelli di plastica trasparenti infilati nel naso.
Buongiorno, signora, faccio io, sentendomi come in quella scena del Big Lebowski nella quale Walter fa irruzione in un appartamento alla ricerca del ladro dell'auto del Drugo, trovandosi davanti un uomo dentro a un polmone d'acciaio ("Le auguro una buona serata, signore!").
Lei si volta verso il marito e chiede: chi è questo?, con una marcata inflessione dialettale, calabrese, penso io.
Uno che deve fare delle misure, risponde lui.
Perchè deve fare delle misure?, chiede lei.
Lui si gira verso di me.
Dobbiamo accatastare tutti i fabbricati, cerco di spiegare io. E' un obbligo di legge. Prima gli agricoltori ne erano dispensati, ma adesso va fatto.
Ci sbattono fuori?, chiede lei al marito.
Lui non le risponde.
Provo a spostare il discorso sui gatti. Ne avrei tanto bisogno uno, su a casa mia c'è pieno di topi, piccoli bastardi di roditori.
Intanto mi invita a salire al primo piano. La scala è tra due muri, strettissima, e mi domando come possa passarci quella balenottera di sua moglie. Se ci prova si incastra e non la muovi più da lì, quella balenottera, potete starne certi. Probabilmente, non si sposta mai da quella poltrona. Meglio così, il solaio è costruito con esili putrelle, difficilmente sopporterebbe tutto quel peso...
Se le serve un gatto, ne prenda su uno, mi dice il vecchio dopo un lungo silenzio. Ecco, quello lì tutto rossiccio. E' un animale molto intelligente. Ci sono molto affezionato, ma glielo lascio volentieri.
Anzichè cacciarmi via in malo modo, penso io, quest'uomo mi offre uno dei suoi amati gatti.
No, grazie, questo gatto è suo, dico io sentendomi una merda.

Il secondo alloggio è più spostato in direzione di quella che una volta era la stalla dei cavalli. Negli anni appena prima della guerra, mi ha appena raccontato il vecchio, qui c'erano almeno un centinaio di bestie, o anche più.
Questa volta trovo il campanello. Pigio il tasto e rimango in attesa alcuni minuti.
Niente.
Appoggio l'orecchio all'uscio, nel tentativo di origliare quello che succede all'interno della casa.
Nessun rumore.
Cosa ci fa lei qui?, mi apostrofa una donna improvvisamente sopraggiunta alle mie spalle.
Imbarazzato, mi volto verso di lei. Ho il viso arrossato, come un bambino sorpreso a rubare le caramelle.
Ehm... buongiorno signora, balbetto.
Chi è lei?, mi chiede di nuovo lei. Porta occhiali con lenti spesse come fondi di bottiglia, e ha una crescita grigia dei capelli in bell'evidenza su una testa nera corvina.
Sono qui per prendere le misure degli edifici, le spiego. Mi mandano i nuovi proprietari. Veramente pensavo l'avessero avvertita, così ero d'accordo con il loro avvocato.
Nessuno mi ha detto nulla, dice lei piuttosto contrariata. Io comunque devo dare da mangiare alla mia creatura, non ho tanto tempo da perdere.
Se vuole, posso tornare in un altro momento. Mi spiace disturbare.
No. E' stato fortunato a trovarmi. Sono appena tornata dal lavoro, faccio i turni in fabbrica e a quest'ora di solito sono di fianco a una pressa. Quanto tempo ci vorrà?
Pochi minuti, l'assicuro io.
Si accomodi, mi dice. Faccia tutto quello che deve fare, ma faccia in fretta.
Lei si piazza davanti ai fornelli, tira fuori un paio di padelle da sotto il lavandino e con grande rapidità mette sul fuoco un soffritto di verdure e cipolle.
Sul divano a fiori del tinello è seduta una ragazza adolescente. E' china che smanetta sul cellulare e nemmeno alza lo sguardo per salutarmi.

Allora ci sbattono fuori, mi fa la donna mentre sbatte le uova contro il bancone per aprirne il guscio.
Beh... non è detto, faccio io, spiegandole la manfrina dell'accatastamento.
Lei non dice più niente, ma è palese che non mi crede.
Ai suoi occhi sono solo un patetico bugiardo.

In fondo allo stradello che porta ai campi ormai incolti di mais, trovo il terzo alloggio, proprio a fianco di un grande porticato a doppia altezza sotto il quale sono ricoverati dei trattori antidiluviani.
Mentre mi avvicino, mi accorgo che qualcuno mi spia da dietro la tenda di una finestra del piano terra.
Suono invano il campanello, più volte.
Niente.
Ormai stufo di aspettare, sto per allontanarmi quando mi raggiunge la donna miope.
Venga, le faccio aprire io, dice lei prendendomi sotto un braccio e accompagnandomi di nuovo verso la casa. Sa, in casa ci saranno i due ragazzi, rimangono spesso da soli e non si fidano ad aprire agli sconosciuti. Il padre sarà in qualche bar qui nei dintorni a sperperare quel poco che gli sarà rimasto della paga di un mese, quel testa di cazzo.
Questa volta infatti ci aprono la porta.
I ragazzi sono quasi identici, forse sono gemelli, tutti e due indossano un chiodo da metallaro e sul muso hanno una mezza dozzina di percing. Uno dei due emette uno strano stridulo, nella sua lingua probabilmente è un saluto, e si scosta per farci passare. L'altro rimane immobile sullo sfondo. Una presenza davvero inquietante. Inoltre, l'appartamento è praticamente a soqquadro. Sul pavimento in graniglia ci sono indumenti sparsi ovunque e anche lattine di birra vuote, sacchetti di patatine, un paio di ciabatte sfondate. Il tavolo è totalmente ricoperto di stoviglie sporche. Di sopra, le stanze sono semivuote, solo un letto, un appendiabiti e una sedia di legno. I muri sono letteralmente anneriti a causa dell'umidità, e in più punti l'intonaco scrostato è caduto in terra.
Prendo in fretta tutte le misure che mi servono e tento di accommiatarmi con estrema rapidità. Sulla soglia, uno dei due ragazzi, quello che sinora non aveva ancora emesso suoni di alcun tipo, mi dice: dovremo andarcene, vero?

Io balbetto le solite stronzate sul catasto e sulle rendite da aggiornare, senza avere il coraggio di alzare lo sguardo da terra.
Poi improvvisamente realizzo che non posso mentire di nuovo. I nuovi proprietari, è lampante, non hanno nessun fottuto motivo per tenere dentro questi strani personaggi, questi reietti alla deriva, che pagano certamente canoni di affitto ridicoli: con ogni probabilità decideranno di sfrattarli tutti e di iniziare da subito la ristrutturazione.

Allora alzo lo sguardo e rispondo al ragazzo: sì, dovrete andarvene. Ma non preoccupatevi, troverete un posto migliore di questo.
Mi avvicino alla donna e le accarezzo il capo.
E' vero, dice lei con le lacrime che iniziano a scivolarle sulle guance, troveremo senz'altro un posto migliore di questo.

martedì 21 aprile 2009

Get'em out by friday


John Pebble della Styx Enterprises:
“Cacciali entro venerdì!
Non sarai pagato finché l’ultimo non avrà preso la sua strada
Cacciali entro venerdì!
E’ importante rispettare il programma, non ci devono essere ritardi”

Mark Hall della Styx Enterprises (noto come “il buttafuori”)
“Rappresento la ditta di persone che ha recentemente acquistato questo stabile
E tutti gli altri della strada
Nell’interesse dell’umanità abbiamo trovato un posto migliore per voi dove andare Andate, andate”

Signora Barrow (un’inquilina)
“Oh no, non ci posso credere
Oh Mary, ci stanno chiedendo di andarcene”

Signor Pebble
“Cacciali entro venerdì!
Ti ho già detto che molti rimarranno se li lasciamo stare
E se non fosse facile
Puoi offrire qualche bustarella ed i nostri problemi presto scompariranno”

Signora Barrow
“Dopo tutto questo tempo ci dicono che ce ne dobbiamo andare
Anche se avevo detto loro che avremmo potuto pagare un canone doppio
Non so perché a loro è sembrata una cosa strana
Visto che hanno sempre voluto più soldi
Il buttafuori ha richiamato per dire che sarebbe passato stamattina
Con quattrocento sterline e una fotografia del posto che ha trovato
Un gruppo di appartamenti con riscaldamento centralizzato
Credo che ce la vedremo brutta”

Signor Pebble
“Ora li abbiamo in pugno
Ho sempre detto che con il denaro si può fare tutto
Il lavoro può essere gratificante
Quando un lampo di intuizione è un dono che ti aiuta ad eccellere-vendere-vendere”

Signor Hall
“Eccoci ad Harlow New Town, riconoscete il vostro edificio nella piazza laggiù?
Purtroppo rispetto all’ultima volta che abbiamo parlato abbiamo dovuto rialzare l’affitto Appena un po’”

Signora Barrow
“Oh no, non ci posso credere
Oh Mary, e noi abbiamo accettato di andarcene”

(dopo un po’ di tempo)

18/9/2012 notiziario straordinario su tutti i canali televisivi
Questo è un annuncio del Controllo Genetico:
“E’ mio triste dovere informarvi dell’abbassamento di quattro piedi dell’altezza degli umanoidi”

Estratto della conversazione di un certo Joe nel bar del posto
“Ho sentito che la direzione del Controllo Genetico ha comprato tutte le proprietà che recentemente sono state messe in vendita, correndo dei grossi rischi
Si dice che ora la gente è più bassa
Possono far stare il doppio delle persone nello stesso edificio
(Dicono che va bene)
Hanno iniziato dagli inquilini della Harlow New Town
Nell’interesse dell’umanità gli hanno detto di andarsene”

Sir John de Pebble della United Blacksprings International
“Credo di aver fatto un altro affare
Una dozzina di proprietà che compreremo a cinque e venderemo a trentaquattro,
Alcune sono ancora abitate
E’ ora di mandare il buttafuori a visitarle,
Avrà un po’ di lavoro da sbrigare”

Nota di S. Pietro della Compagnia Sviluppo Rocce
“Con una proprietà terrena nelle tue mani sarai felice solo sulla terra
Perciò investi nella Chiesa per il tuo paradiso”

(Words & lyrics: Gabriel, Collins, Rutheford, Banks, Hackett)


Pur rivalutato in epoca recente, il termine “Manierismo” ha spesso assunto, nella storia dell’arte, un’accezione negativa, ovvero associato all’accusa di inerzia creativa, di eccessiva artificiosità e raffinato formalismo, di attenzione esasperata per i particolari, di virtuosismo tecnico non sostenuto dall'ispirazione.
Più o meno, le stesse critiche che si potrebbero muovere agli ultimi Depeche Mode, rei di ripetere stancamente formule già sentite, tuttavia assai collaudate.
Tuttavia, noi di PiacenzaSera continuamo a preferirli alle decine di gruppi clone di nuova leva, alle prese con volgari imitazioni del loro art-rock elettronico a base di synth.

Tutt’altro che radiofonico e dallo stile comunque impeccabile, “Sounds Of The Universe” è il dodicesimo album della band inglese capitanata dalla coppia Gore/Gahan, che con esso tenta di scongiurare una facile deriva pop.
A questo scopo, abbandona i singoloni da top-charts e i cori da stadio, e recupera invece le sonorità cupe e claustrofobiche di uno splendido passato (“Black Celebration” e “Songs Of Faith And Devotion”), ammiccando alle atmosfere dark anni ’80 (Joy Division e New Order) e addirittura allo space-rock teutonico dei tardi anni ’70 (persino nel titolo: “Il suono dell’universo”, forse un tantino pretenzioso).
L’impatto ritmico rimane decisamente in secondo piano, salvo rare eccezioni, tra le quali il singolo d’esordio, l’accattivante Wrong, il cui videoclip è da non perdere: per alcuni trattasi di un inno nichilista, ossessivo e inquietante; chi scrive non è dello stesso parere, è piaciuto sin da subito persino a mia figlia Agnese, di anni cinque, che mi costringe a mandarla in loop sul lettore dell’auto.
Qualche pezzo è troppo scolastico, anche se gradevole (Come Back e Perfect), qualcun altro scivola via come l’acqua su una carta oleata (Fragile Tension e In Sympathy), ma a conti fatti prevalgono gli episodi riusciti: il blues acido di Hole To Feed, l’eterea Little Souls, la cosmica Peace, e soprattutto la meravigliosa ballata Jezebel, senza dubbi il brano migliore in assoluto e l’unico potenzialmente in grado di entrare in un ipotetico e futuro “Best Of”.

venerdì 17 aprile 2009

QUASI COME KEROUAC, 08


July 26th, PRIMA PARTE

Il mattino di Flagstaff non ci riserva sorprese.
Appena superata la soglia del sordido motel, veniamo letteralmente investiti dalle folate di vento caldo: le fresche foreste di abeti del Prescott National Park sono solo un ricordo.
Tuttavia, per me non va poi così male: durante la notte ho pagato duramente il freddo patito a causa delle discussioni sui marcipaiedi notturni.
Nemmeno il tempo di mettere sotto i denti qualcosa e siamo già in viaggio. Il programma di oggi è assai ricco, infatti, dobbiamo attraversare il nord dell'Arizona, e dunque dobbiamo cercare di guadagnare ora tutto il tempo possibile.
L'umore della truppa è ottimo.
Il morale alto.
D'altro canto, a parte qualche piccolo disguido - quei piccoli problemi intestinali di stanotte, ad esempio - tutto procede per il verso giusto.

Dopo aver percorso neanche trenta miglia, ci ritroviamo in mezzo ad un altopiano desertico, sito a oltre 1700 metri sul livello del mare. Non pare davvero di essere così in alto!
Ammiriamo questa landa desolata, resa spettacolare dal contrasto cromatico tra il terriccio bruciato dal sole, di colore rosso fuoco, la sabbia grigiastra e lucente, ed infine gli sparuti arbusti che - con chissà quale coraggio - sono cresciuti quà e là, come i peli della barba di un ragazzo ancora adolescente.
Che si tratti davvero di una terra di nessuno, ce lo ricorda adesso la segnaletica arrugginita: Diablo Canyon, mentre più avanti "Green River" nasconde forse il miraggio dell'acqua.

La prima sosta, d'obbligo, è per la visita del Meteor Crater, nei pressi di Winslow, ovvero un enorme cratere - il cui diametro è pari a più di 1200 metri, e una profondità di 170 metri - venutosi a creare con ogni probabilità in seguito a una collisione con una meteorite, circa 49.000 anni orsono.
Anzi, per Wikipedia è il cratere meteoritico per antonomasia. Si presume che il meteorite, o meteora come gli astronomi definiscono questi oggetti una volta entrati nell'atmosfera, sia arrivato da nord, ad una velocità di circa 70.000 km/h; è stato stimato che a questa velocità, la distanza che separa Roma da New York, è stata percorsa in circa 7 minuti. Ovviamente l'impatto è stato devastante, in quanto l'energia sviluppata è stata l'equivalente a quattro volte la bomba di Hiroshima.
Con la differenza che qui non c'era un cazzo di nessuno.
Per un'inspiegabile legge della fisica, sembra che il Meteor Crater sia stato causato da un meteorite assai piccolo, il cui nome è appunto Canyon Diablo, avente un diametro di appena 25-30 metri.
Il paesaggio è lunare.
Seduti sui bordi sfilacciati, a noi l'enorme buco sembra un lago senz'acqua, banalmente.
Ma poi che acqua vuoi trovare in queste regioni aride?

Abbandonato il cratere, ci divora presto un dubbio atroce: svoltare a nord verso la 87, e così attraversare il Plateau e le riserve dei nativi Hopi - e vedere da vicino le reali condizioni di vita di questi che sono davvero gli ultimi, i più perdenti nella spietata corsa al Grande Sogno Americano - oppure proseguire sulla Statale 180 in direzione del Painted Desert, il deserto dipinto, e la Petrified Forest, la foresta pietrificata, una distesa infinita di tronchi e di rami di pietra fossile.
Comunque decidereremo, la scelta comporterà un grande sacrificio, tuttavia inevitabile.

giovedì 16 aprile 2009


Good news dal Canada.
Un paese spesso dipinto come pigro e sonnolento, ma che in ambito rock da sempre ci regala grandi soddisfazioni: negli ultimi tempi Arcade Fire e Goodspeed You Black Emperor, oppure il recentissimo ottimo debutto dei Bruce Peninsula (e pensare che quei piccoli bastardi di South Park volevano dichiarargli guerra per colpa di Bryan Adams…)
A pochi giorni di distanza dall’uscita del nuovo album di Neil “Cavallo Pazzo” Young – recensito qui su PiacenzaSera da Tony Face – ecco anche il “Live in London” di Leonard Cohen, registrato durante la trionfale serata dello scorso 17 luglio all’Arena O2.
Si trattava del suo ritorno sulle scene, dopo un'assenza durata quindici anni, e incredibilmente ritroviamo un Cohen in splendida forma – cosa davvero sorprendente, dal momento che egli ha qualcosa come 74 anni.
Il grande cantautore canadese, elegantissimo nel suo doppiopetto gessato con cappello di feltro, non si risparmia affatto e dispensa al suo pubblico oltre due ore e mezzo di musica di classe sopraffina (al modico prezzo di Euro 19,99, quando si dice cosa si deve fare per risollevare il mercato discografico…)

Nel ripercorrere più di 40 anni di carriera, lo aiutano nell’impresa una band assai collaudata – spiccano Dino Soldo ai fiati/armonica e Javier Mas a banjo/mandolino – e uno strepitoso coro di voci femminili.
Come spesso accade, la scaletta non ci può soddisfare al 100%: a nostro giudizio mancano all’appello pezzi irrinunciabili quali, ad esempio, “Avalanche” (di cui è nota anche una cover di Nick Cave), “Chelsea Hotel No. 2” dedicata al suo fugace incontro amoroso con Janis Joplin nell’albergo più rock di New York City, “The Partisan”, “Seems So Long Ago, Nancy” (tra le tante del nostro tradotte in italiano da Fabrizio De Andrè, suo grande estimatore) e “Famous Blue Raincoat”.

Tuttavia, non mancano sia i classici come “Suzanne”, “Sister Of Mercy” ,“So Long, Marianne” e “Hey That’s No Way To Say Goodbye” (resa celebre dallo spot della BMW), dall’album di debutto del 1967, oppure “Bird On The Wire” e “Hallelujah” (memorabile la versione di Jeff Buckley e poi anche saccheggiata dallo X-Factor inglese), sia il meglio della produzione più recente: qui la parte del leone la fa l’album “I’m Your Man” (’88) dal quale vengono estrapolati ben 6 brani, tra i quali “First We Take Manhattan” (ricordo una notevole cover dei R.E.M.) e “Tower Of Song”.
Nessun brano invece dall’ultimo album di studio, non irresistibile, “Dear Heather” (2004).

In ogni caso, nella sequenza dei brani nulla è lasciato al caso: per il finale ecco “Closing Time” (è tempo di chiudere) e il bis – prima di salutare con un canto preso in prestito dal Vecchio Testamento – è “I Tried To Leave You”, un bellissimo standard blues durante il quale Cohen presenta al pubblico – uno alla volta - tutti i musicisti che lo accompagnano, proprio come si faceva una volta.
Gran signore, Cohen.

domenica 5 aprile 2009

QUASI COME KEROUAC, 07

(July, 25th - TERZA PARTE)

Alle cinque della sera - involontario (e ante litteram) omaggio al blog di Jr, una lettura immancabile - dopo aver attraversato il Dead Horse Ranch State Park (letteralmente "Parco Nazionale del Ranch del Cavallo Morto", qui con il naming vanno giù pesante...) raggiungiamo la 271, e di qui la Highway 17 che imbocchiamo in direzione Flagstaff.
La strada, ancora una volta, corre diritta fino all'orizzonte.

Improvvisamente, sulla carreggiata opposta alla nostra, si materializza un piccolo uccello dalle piume variopinte e dalla cresta in stile punk. Non ci sono dubbi: è un roadrunner. Avete capito bene, proprio quel fottuto animaletto che da sempre si prende gioco del nostro idolo Willy. Vorremmo vendicarci di lui, ovvero vendicare tutte le angherie che è costretto a subire il simpatico coyote, e dunque ci piacerebbe stendere sull'asfalto luccicante quel piccolo bastardo di un pennuto, che invece zampettando si allontana nella brughiera arsa al sole.
Se almeno avessimo con noi la valigetta dell'ACME...

Arriviamo al Montezuma Castle, in località Valle Verde, nel tardo pomeriggio.
Il suo nome deriva dal fatto che quando gli Spagnoli, che battevano la zona in cerca delle mitiche città d'oro, videro queste abitazioni rupestri - che le antiche popolazioni Sinagua costruirono nelle grotte naturali che si aprivano nella parete rocciosa, probabilmente per motivi legati al clima - furono tanto impressionati che pensarono si trattasse del castello che gli Aztechi avevano costruito per il loro imperatore durante la ritirata.
Di fatto Montezuma non arrivò mai tanto a nord, ma il nome piacque e rimase.
Dal sito http://www.usaontheroad.net apprendiamo inoltre che a Montezuma Castle si sviluppò un complesso di venti stanze che ospitò una comunità di circa trentacinque persone per oltre tre secoli.
Intorno al 1400 la popolazione improvvisamente scomparve, e il motivo rimane ancor oggi un mistero.

E poi siamo di nuovo in viaggio.
Lasciamo la Highway 17 per la strada locale 179, che porta anch'essa a Flagstaff.
Good Idea.
Sedona è un piccolo centro turistico immerso in uno straordinario scenario di catene rocciose, molto simili alle nostre Dolomiti.
Al tramonto, la vecchia Camry si snoda leggera tra le rocce che si tingono di rosso vermiglio. Non a caso questo posto lo chiamano Red Rock Country.
E' uno spettacolo da lasciare senza fiato.
Avvistiamo un lupo spelacchiato ai bordi della strada. Per un istante, i nostri sguardi si incrociano attraverso il parabrezza ricoperto di polvere rossa. Sembra impaurito, e si dilegua tra i cespugli di ginestra.
Quando il sole è ormai basso all'orizzonte, la strada inizia a scendere e si insinua nel lussureggiante Oak Creek Canyon, dove un'improvvisa vena d'acqua garantisce la sopravvivenza di alcuni chilometri di boschi di querce.
Adesso che è sceso il buio, possiamo solo godere del fruscìo del vento che sferza le chiome maestose degli alberi e anche del rumore allegro del ruscello che scorre qualche metro sotto di noi, alla nostra destra.
Inseriamo nel lettore un vecchio disco di Muddy Waters: vedi il caso, il suo nome d'arte ("acque fangose") deriva da un soprannome datogli dalla nonna per via della sua abitudine di sguazzare nel fango in riva al Mississippi.
Il suo blues scarno e persino sporco ci accompagna lungo l'ultimo tratto di strada, stasera.
E io ho la pelle d'oca.

A Flagstaff divoriamo alcuni tranci di pizza di Little Caesar seduti su un marciapiede di una via deserta. Io provo quello con salame a ananas, un classico da queste parti: è la mia componente masochista che ogni tanto esce allo scoperto.
Tira una piacevole brezza notturna, per cui ci fermiamo fino a tardi, sempre lì seduti sulle fredde lastre di pietra, discutendo di politica e di religione.
Infine alloggiamo nel solito, triste e squallido, motel.
Le docce non funzionano, i fiotti di acqua gelida scendono a singhiozzo, e neppure le porte si aprono, per entrare nella nostra stanza dobbiamo fare leva con tutto il nostro peso e rischiamo di sfondare tutto.
Ma la stanchezza è tanta, per cui non c'è da andare troppo per il sottile.
E poi noi siamo gente che si arrangia, cazzo.