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mercoledì 14 ottobre 2009
State bene voi
Sotto zero anche stamattina.
Ma almeno non c'è da spalare la neve, malgrado le previsioni catastrofiche di tutti quei fottuti metereologi. Sarà una precipitazione epocale, ci ripetevano da giorni. Una nevicata senza precedenti.
Invece niente.
Un pò me lo aspettavo, ieri notte ero sceso sino al fiume per una passeggiata con il cane, e il fragore assordante della piena rimbombava sotto un sipario stellato talmente ampio da sembrare finto.
Impiego del tempo per raschiare il ghiaccio dal parabrezza dell'auto.
Il motore si avvia al primo colpo.
La vecchia Renault non dimostra i suoi anni e le miglia percorse e, dopo aver avanzato a strappi solo all'inizio, si arrampica decisa sulla strada impervia e piena di buche.
In paese non c'è anima viva.
Le serrande delle botteghe sono ancora abbassate, e il benzinaio è nascosto nel suo bugigattolo in lamiera metallica, al caldo di una stufetta elettrica difettosa.
Incrocio lo Scuolabus sulla provinciale. Alzo un cenno di saluto all'autista, che poi è anche il cantoniere e persino il necroforo, nelle comunità piccole bisogna arrangiarsi, e il materiale umano a disposizione è quello che è.
Cerco una stazione decente, ma la radio gracchia a ripetizione.
Alla fine mi rassegno ad ascoltare - un'altra volta - l'ultimo dei Massive Attack.
Il sole si alza tardi e timidamente filtra tra i rami spogli delle fitte boscaglie alle pendici del passo appenninico.
Sullo sfondo, un jet squarcia con il suo vapore biancastro il cielo limpido e pulito.
Contro luce, la montagna mostra i suoi muscoli.
Invincibile.
Un altro paese.
L'insegna lampeggiante della farmacia indica la temperatura: meno quattro.
Una pattuglia dei Carabinieri resta immobile nel mezzo del piazzale di asfalto crepato. All'interno dell'abitacolo, un agente legge il giornale scaldandosi con il motore diesel acceso al minimo.
Gran lavoratore.
Abbandono l'auto sul marciapiede e scendo per acquistare due marche da bollo. La tabaccheria è un vero e proprio bazar: vendono funghi secchi, caciotte nostrane, riviste di costume, biancheria intima, giocattoli passati di moda. Come un drugstore della remota frontiera americana.
Mi avvicino al bancone.
C'è qualcuno?, chiedo senza ottenere risposta.
Ehi, c'è qualcuno?, ripeto alzando la voce.
Mentre osservo gli scaffali senza curiosità mi accorgo che nel negozio c'è un freddo bestiale. Improvvisamente, da dietro una porta dal vetro zigrinato di colore brunito compare una signora anziana che mi viene incontro malvolentieri. Indossa una buffa cuffia colorata, tre o quattro maglioni, uno sull'altro, e almeno tre paia di calzettoni di lana, oltre a un paio di pantofole di velluto a coste sottili.
Mi serve in silenzio, dopo un vago sorriso di benvenuto, e allora mi accommiato piu' rapidamente possibile.
Oltrepasso i campi innevati e gli orti addormentati, con le file di cavoli protette dal gelo con teli di plastica trasparente. Le cataste di fascine sono allineate lungo i filari di gelsi, freschi di potatura. Un gruppo di oche grasse e zoppicanti si avvicinano al bordo della strada.
Arrivo a destinazione che non sono nemmeno le dieci.
Dopo un paio di tentativi andati a vuoto, individuo l'ufficio giusto, che si trova in fondo a un ballatoio sospeso nel vuoto. Le antiche lastre di pietra basaltina sono rese scivolose dal ghiaccio, e così avanzo a piccoli passi. Non bastasse, sulla balaustra in ferro battuto c'è un cartello con la scritta: vietato appoggiarsi alla ringhiera.
Devo consegnare una pratica per richiedere un'Autorizzazione al Vincolo Idrogeologico.
Una volta, un agente immmobiliare che doveva trascrivere una clausola su una bozza di compromesso che recitava, piu' o meno, che "l'atto di compravendita era vincolato all'approvazione, da parte delle autorità competenti, del Piano dell'Assetto Idrogeologico", scrisse invece "all'approvazione del Piano dell'Assetto Ideologico". Non so se fu colpa del correttore automatico di Word, avete presente quella graffetta del cazzo che compare all'improvviso e modifica le parole a suo piacimento, sta di fatto che rileggendo piu' volte l'atto, lui non ci trovava nulla da ridire.
Piano dell'Assetto Ideologico.
Non suona male.
Roba da far rabbrividire George Orwell.
Roba da dittature serie.
Era un tipo niente male, quel mediatore. L'unico che ho conosciuto che non portasse scarpe a punta di vernice nera. Era solito darti una pacca sulle spalle, e dirti: Allora, tutto bene, caro architetto? Eh, sì, sta bene lei, caro architetto. Diceva sempre così a tutti, stai bene tu, caro te, state bene voi, cari voi.
(Si racconta che una sera fu invitato a cena da una coppia di amici che viveva con la madre di lei in casa, costretta da oltre un decennio dentro un polmone d'acciaio, e che non appena pronunciò la fatidica frase fu buttato fuori di casa a metà pasto, senza esitazioni, anzi: a calci nel culo).
Il tecnico non c'è.
La mattina va a fare fisioterapia.
Sa, recentemente ha avuto problemi col ginocchio, gli dava continuamente fastidio e così ha dovuto sottoporsi a un piccolo intervento chirurgico, mi spiega una sua collega, per nulla imbarazzata. La tipa non sospetta nemmeno che c'è qualcuno, come il sottoscritto, che deve fare un'ora e mezzo di strada per arrivare sino lì, in quel suo ufficio del cazzo, nel buco del culo del mondo, che alle pareti ci hanno persino attaccato anche la propaganda del candidato del centrodestra alle ultime elezioni provinciali, il che non mi aiuta a mantenere la calma e dunque a rapportarmi con lei con la dovuta educazione.
Sa, è un pò sovrappeso, e quindi le articolazioni sono sempre sotto sforzo.
Non so per quale ragione del cazzo, ma la tipa pensa che il quadro clinico di quel lardoso geometra possa in qualche modo suscitare il mio interesse.
Ah, beh, certo, rispondo io, cercando inultilmente di nascondere la mia irritazione.
E quando arriverebbe?, chiedo dopo una lunga pausa.
Verso le undici, risponde lei allontanandosi per andare a rispondere al telefono.
Non mi rimane che incamminarmi verso la piazza. Fa ancora freddo, e allora mi infilo in un bar qualsiasi. Presso il tavolino piu' vicino all'uscita, due avventori di mezz'età restano seduti a leggere la Gazzetta. Merda, altra brutta notizia. Devo controllare le formazioni, ho il match decisivo al Fantacalcio e non so ancora che Mourinho schiererà Balotelli e Thiago Motta.
Ordino un caffè e prendo posto su uno sgabello.
Dietro a un paravento decorato in modo floreale, un gruppo di donne discute del caso Morgan. Secondo me hanno fatto bene a lasciarlo a casa, dice la piu' giovane. A me sta antipatico, è arrogante e canta male, aggiunge, ma si vede benissimo che mente e che si farebbe scopare da lui, seduta stante, sui divanetti imbottiti del bar.
Un'altra ribatte che invece buttarlo fuori è ingiusto. Se si droga sono fatti suoi, proclama.
Scopro di non avere un'opinione al riguardo.
Mi viene in mente un titolo di Cuore, anno 1991 o 1992: I Beatles si drogavano. Mino Reitano no. Vogliamo parlarne?
Al bancone c'è una donna ancora giovane che continua a lamentarsi del tempo. Quest'anno non sono potuta andare via per via della malattia di mia madre, proclama piu' volte, ma l'anno prossimo scappo a novembre in una qualche isola caraibica e fino a marzo non torno. Ah, vi avverto, fino a marzo non mi vedete piu', ripete lei mentre la barista annuisce severamente.
Sembra quasi una minaccia.
Fosse per me, puoi stare via anche il resto dell'anno, sbuffa sarcastico uno dei due lettori della Gazzetta.
L'altro se la ride sotto i baffi.
Fratello, mi stai simpatico, sul serio, vorrei dirgli io, ma ti prego, lasciami leggere quella Gazzetta del cazzo, che devo vedere se gioca Balotelli.
lunedì 11 maggio 2009
K2
Dentro al bar non c'è quasi nessuno, sono tutti fuori sotto la toppia di cannette a giocare a scopone scientifico e a godere di un pallido sole mattutino.
C'è una sciarpa rossoblu in bell'evidenza, appoggiata al portabicchieri sospeso sul bancone in granito sardo.
Decido di tentare l'approccio: cosa fa il Bologna, domenica?
Ah, per mio conto si perde, mi risponde il barista, scrollando la testa sconsolato. E' un uomo di mezz'età, piuttosto stempiato, con uno stuzzicadenti incastrato negli incisivi inferiori.
Loro sono più forti, non dobbiamo nascondercelo, aggiunge lui guardandomi negli occhi con un'intensità tale da mettermi in imbarazzo. Neanche mi stesse rivelando il segreto di Fatima.
Si perde?, dico io.
Lui secco: sì.
Allora è finita, faccio io. Se si perde a Torino si va in B.
Si va in B sì, fa lui.
Accidenti, rispondo io contrariato. E intanto penso, merda, quest'uomo è davvero un gufo, oppure dice così solo per una questione di scaramanzia.
Speravo ci fosse piu' ottimismo, butto lì.
E' un K2, mi risponde lui.
Il K2 che?, domando io.
Guarda, per mio conto è come se avessimo davanti il K2 da scalare...
Sorseggio il mio caffe' scorrendo rapidamente i titoli di Stadio, che qui è più popolare della Gazzetta. Sono in un bar di Sasso Marconi, in una pausa dal cantiere che seguo ormai da alcuni mesi, la ristrutturazione della vecchia casa in sasso della zia Tina, a poche curve dal centro del paese, sulla strada statale Porrettana.
Cazzo, penso, il K2 è una montagna davvero ostica.
La Montagna Selvaggia.
Le statistiche, insegna Wikipedia, dicono che in media per ogni 4 alpinisti che tentano la scalata, uno muore: fra gli Ottomila, il K2 ha il secondo più alto tasso di mortalità di scalata dopo l'Annapurna (dove minchia sarà mai, l'Annapurna...)
Lancio una monetina sul bancone ed esco dal bar, salutando il barista gufo-di-merda con un cenno del capo.
Raggiungo E*** che è in coda in tabaccheria, proprio lì a fianco.
Deve giocare al Superenalotto. Spera di racimolare una somma sufficiente per aggiustare paraurti e carrozzeria dell'auto: la settimana scorsa ha investito un capriolo sulla tangenziale, proprio qui al Sasso.
Due combinazioni da sette numeri, ovvero una probabilità di vincere su qualche milione.
Altro che K2.
Eppure c'è una confusione terrificante, in questo negozio grande poco più di uno sputo. Decine di anziani aspettano pazientemente il loro turno per avere un gratta e vinci. Qualcuno spinge, persino. Cazzo, devo stare attento a dove metto i piedi, dalla calca che c'è.
Questi bastardi ucciderebbero, per un grattino.
Forse è un effetto collaterale della crisi, penso io.
Se ne sentono di tutti i colori.
Un conoscente mi ha raccontato di aver assistito a un episodio sintomatico, recentemente. All'interno di un supermercato ha visto un signore di una certa età, tutto intabarrato in un lungo pastrano nero, avvicinarsi al reparto riviste, sfogliarne una di enigmistica, e poi estrarre un lapis e un piccolo taccuino a quadretti dove con calma si è ricopiato - da cima a fondo - gli schemi di un paio di sudoku, per poi riporre la rivista al suo posto.
Nel viaggio di ritorno verso casa, chiacchero con E***.
E*** viene dalla Bosnia.
Mi racconta che per il primo maggio è stato a casa, al suo villaggio d'origine, per gettare le fondamenta della casa del figlio, perchè prima o poi torneranno a casa. E' un paese immerso in una fitta foresta di querce e conifere. Montagne straordinarie, dice lui.
E*** ama il suo paese, e ne esalta con orgoglio le caratteristiche.
A volte con effetti quasi comici.
Da noi, mi disse una volta, si mangia da Dio (non come qua, avrebbe forse voluto aggiungere, non lo fece perchè ogni tanto probabilmente si rende conto di esagerare un pò...).
Un'altra volta, ammirando gli svincoli autostradali che si avviluppano labirintici attorno Piacenza, mi disse: cazzo, come è cambiata questa città in questi dieci anni. Sullo sfondo il capannone-monstre dell'Ikea emergeva dalla foschia densa di polveri e di odori. Cazzo, mi fa, guarda che bello: sembra Sarajevo, cazzo.
(anzi, no: lui dice "figa", è incredibile quante volte dice "figa" all'interno della stessa strada, per lui nato in Bosnia. Evidentemente è assai contagioso).
Procediamo lentamente, zigzagando tra le corsie dell'autostrada.
Un cartello vecchio di un paio d'anni ci dice che hanno steso asfalto drenante.
E*** mi dice di una fabbrica che una volta aveva piu' di trentamila operai, e adesso è praticamente deserta. Facevano di tutto, in quella fabbrica.
Tutto cosa, chiedo io.
Tutto quello che puoi immaginare: scarpe, macchine, vestiti, mobili, attrezzi, tutto.
Erano i tempi della grande Jugoslavia, dice lui.
Che nostalgia, aggiunge.
Piu' o meno i tempi del grande Bologna, dico io.
sabato 25 aprile 2009
Get'em out by friday, 02
Il vecchio cancello in ferro è sprovvisto di lucchetto, per cui posso entrare senza problemi. Giro il chiavistello arrugginito e faccio leva con il corpo. A fatica si apre la prima anta, cigolando in modo sinistro.
Faccio pochi passi in direzione della corte inghiaiata.
Mi guardo attorno nella speranza di trovare qualcuno a cui chiedere, ma sembra non esserci anima viva, solo una mezza dozzina di gatti dal pelo arruffato, spaparanzati sul cemento a godersi il primo, pallido, sole primaverile.
Probabilmente, non mi aspettava nessuno.
Eppure l'avevo detto al giovane avvocato della ditta di costruzioni: avverte lei gli inquilini che la settimana prossima andremo là per il rilievo dei fabbricati?
Non si preoccupi, mi aveva risposto. Ci penso io.
E invece.
Avanzo con cautela tra i vecchi edifici rurali diroccati. Il fienile dai pilastri in mattoni pieni ha il tetto mezzo crollato, le travi di legno sono accatastate in terra da chissà quanti anni. Anche il silos per il grano è fuori uso, manca persino la scaletta metallica che serviva per salire sino in cima alla torre cilindrica. Qui ormai non c'è più nessuno che coltiva la terra.
Tra un edificio e l'altro sono state tirate delle corde di nylon per stendere i panni. Mi faccio largo tra mutandoni di lana e canottiere a righe verticali sottili, di quelle che portavano i nostri nonni. La biancheria è usurata all'inverosimile, e il bianco - da cui: biancheria - è un lontano ricordo.
E invece qui nessuno sapeva un cazzo.
Bene.
A me piace così tanto fare queste figure di merda. E' assai piacevole, infatti, fare irruzione in casa di altri senza alcun preavviso.
Busso alla porta del primo alloggio, sito all'estremità settentrionale dell'aia. E' una casa bassa con l'intonaco rifatto, ma senza colore.
Niente.
Busso ancora, questa volta con maggor vigore.
Dopo una lunga attesa, viene ad aprirmi l'uscio un vecchio con la barba ispida e le labbra sporgenti: mi squadra perplesso e mi chiede chi cazzo sono.
Accoglienza freddina, non c'è che dire.
Nulla di cui stupirmi: che cazzo mi aspettavo, una banda di ottoni schierata in mezzo alla corte, in divisa da cerimonia, che intona marcette di benvenuto?
Gli rispondo, scusandomi, che sono qui per fare un rilievo degli edifici, sì, insomma, per prendere le misure. Mi ha assegnato questo compito la nuova proprietà, una ditta di costruzioni assai nota in città, attiva ormai da diverse generazioni.
Lui scrolla la testa e poi mi fa entrare, dopo avermi squadrato dalla testa ai piedi.
E così ci mandano via, mi fa.
Questo non lo so, dico io. Sono qui solo per prendere le misure.
Ah, fa lui, poco convinto.
Nel tinello c'è una sola finestra, assai piccola. Nella penombra intravvedo una sagoma accanto alla vecchia stufa di ghisa. Mi avvicino e mi trovo davanti un'anziana signora sovrappeso, ma sovrappeso in modo raccapricciante, accasciata su una poltrona in finta pelle e con due cannelli di plastica trasparenti infilati nel naso.
Buongiorno, signora, faccio io, sentendomi come in quella scena del Big Lebowski nella quale Walter fa irruzione in un appartamento alla ricerca del ladro dell'auto del Drugo, trovandosi davanti un uomo dentro a un polmone d'acciaio ("Le auguro una buona serata, signore!").
Lei si volta verso il marito e chiede: chi è questo?, con una marcata inflessione dialettale, calabrese, penso io.
Uno che deve fare delle misure, risponde lui.
Perchè deve fare delle misure?, chiede lei.
Lui si gira verso di me.
Dobbiamo accatastare tutti i fabbricati, cerco di spiegare io. E' un obbligo di legge. Prima gli agricoltori ne erano dispensati, ma adesso va fatto.
Ci sbattono fuori?, chiede lei al marito.
Lui non le risponde.
Provo a spostare il discorso sui gatti. Ne avrei tanto bisogno uno, su a casa mia c'è pieno di topi, piccoli bastardi di roditori.
Intanto mi invita a salire al primo piano. La scala è tra due muri, strettissima, e mi domando come possa passarci quella balenottera di sua moglie. Se ci prova si incastra e non la muovi più da lì, quella balenottera, potete starne certi. Probabilmente, non si sposta mai da quella poltrona. Meglio così, il solaio è costruito con esili putrelle, difficilmente sopporterebbe tutto quel peso...
Se le serve un gatto, ne prenda su uno, mi dice il vecchio dopo un lungo silenzio. Ecco, quello lì tutto rossiccio. E' un animale molto intelligente. Ci sono molto affezionato, ma glielo lascio volentieri.
Anzichè cacciarmi via in malo modo, penso io, quest'uomo mi offre uno dei suoi amati gatti.
No, grazie, questo gatto è suo, dico io sentendomi una merda.
Il secondo alloggio è più spostato in direzione di quella che una volta era la stalla dei cavalli. Negli anni appena prima della guerra, mi ha appena raccontato il vecchio, qui c'erano almeno un centinaio di bestie, o anche più.
Questa volta trovo il campanello. Pigio il tasto e rimango in attesa alcuni minuti.
Niente.
Appoggio l'orecchio all'uscio, nel tentativo di origliare quello che succede all'interno della casa.
Nessun rumore.
Cosa ci fa lei qui?, mi apostrofa una donna improvvisamente sopraggiunta alle mie spalle.
Imbarazzato, mi volto verso di lei. Ho il viso arrossato, come un bambino sorpreso a rubare le caramelle.
Ehm... buongiorno signora, balbetto.
Chi è lei?, mi chiede di nuovo lei. Porta occhiali con lenti spesse come fondi di bottiglia, e ha una crescita grigia dei capelli in bell'evidenza su una testa nera corvina.
Sono qui per prendere le misure degli edifici, le spiego. Mi mandano i nuovi proprietari. Veramente pensavo l'avessero avvertita, così ero d'accordo con il loro avvocato.
Nessuno mi ha detto nulla, dice lei piuttosto contrariata. Io comunque devo dare da mangiare alla mia creatura, non ho tanto tempo da perdere.
Se vuole, posso tornare in un altro momento. Mi spiace disturbare.
No. E' stato fortunato a trovarmi. Sono appena tornata dal lavoro, faccio i turni in fabbrica e a quest'ora di solito sono di fianco a una pressa. Quanto tempo ci vorrà?
Pochi minuti, l'assicuro io.
Si accomodi, mi dice. Faccia tutto quello che deve fare, ma faccia in fretta.
Lei si piazza davanti ai fornelli, tira fuori un paio di padelle da sotto il lavandino e con grande rapidità mette sul fuoco un soffritto di verdure e cipolle.
Sul divano a fiori del tinello è seduta una ragazza adolescente. E' china che smanetta sul cellulare e nemmeno alza lo sguardo per salutarmi.
Allora ci sbattono fuori, mi fa la donna mentre sbatte le uova contro il bancone per aprirne il guscio.
Beh... non è detto, faccio io, spiegandole la manfrina dell'accatastamento.
Lei non dice più niente, ma è palese che non mi crede.
Ai suoi occhi sono solo un patetico bugiardo.
In fondo allo stradello che porta ai campi ormai incolti di mais, trovo il terzo alloggio, proprio a fianco di un grande porticato a doppia altezza sotto il quale sono ricoverati dei trattori antidiluviani.
Mentre mi avvicino, mi accorgo che qualcuno mi spia da dietro la tenda di una finestra del piano terra.
Suono invano il campanello, più volte.
Niente.
Ormai stufo di aspettare, sto per allontanarmi quando mi raggiunge la donna miope.
Venga, le faccio aprire io, dice lei prendendomi sotto un braccio e accompagnandomi di nuovo verso la casa. Sa, in casa ci saranno i due ragazzi, rimangono spesso da soli e non si fidano ad aprire agli sconosciuti. Il padre sarà in qualche bar qui nei dintorni a sperperare quel poco che gli sarà rimasto della paga di un mese, quel testa di cazzo.
Questa volta infatti ci aprono la porta.
I ragazzi sono quasi identici, forse sono gemelli, tutti e due indossano un chiodo da metallaro e sul muso hanno una mezza dozzina di percing. Uno dei due emette uno strano stridulo, nella sua lingua probabilmente è un saluto, e si scosta per farci passare. L'altro rimane immobile sullo sfondo. Una presenza davvero inquietante. Inoltre, l'appartamento è praticamente a soqquadro. Sul pavimento in graniglia ci sono indumenti sparsi ovunque e anche lattine di birra vuote, sacchetti di patatine, un paio di ciabatte sfondate. Il tavolo è totalmente ricoperto di stoviglie sporche. Di sopra, le stanze sono semivuote, solo un letto, un appendiabiti e una sedia di legno. I muri sono letteralmente anneriti a causa dell'umidità, e in più punti l'intonaco scrostato è caduto in terra.
Prendo in fretta tutte le misure che mi servono e tento di accommiatarmi con estrema rapidità. Sulla soglia, uno dei due ragazzi, quello che sinora non aveva ancora emesso suoni di alcun tipo, mi dice: dovremo andarcene, vero?
Io balbetto le solite stronzate sul catasto e sulle rendite da aggiornare, senza avere il coraggio di alzare lo sguardo da terra.
Poi improvvisamente realizzo che non posso mentire di nuovo. I nuovi proprietari, è lampante, non hanno nessun fottuto motivo per tenere dentro questi strani personaggi, questi reietti alla deriva, che pagano certamente canoni di affitto ridicoli: con ogni probabilità decideranno di sfrattarli tutti e di iniziare da subito la ristrutturazione.
Allora alzo lo sguardo e rispondo al ragazzo: sì, dovrete andarvene. Ma non preoccupatevi, troverete un posto migliore di questo.
Mi avvicino alla donna e le accarezzo il capo.
E' vero, dice lei con le lacrime che iniziano a scivolarle sulle guance, troveremo senz'altro un posto migliore di questo.
Faccio pochi passi in direzione della corte inghiaiata.
Mi guardo attorno nella speranza di trovare qualcuno a cui chiedere, ma sembra non esserci anima viva, solo una mezza dozzina di gatti dal pelo arruffato, spaparanzati sul cemento a godersi il primo, pallido, sole primaverile.
Probabilmente, non mi aspettava nessuno.
Eppure l'avevo detto al giovane avvocato della ditta di costruzioni: avverte lei gli inquilini che la settimana prossima andremo là per il rilievo dei fabbricati?
Non si preoccupi, mi aveva risposto. Ci penso io.
E invece.
Avanzo con cautela tra i vecchi edifici rurali diroccati. Il fienile dai pilastri in mattoni pieni ha il tetto mezzo crollato, le travi di legno sono accatastate in terra da chissà quanti anni. Anche il silos per il grano è fuori uso, manca persino la scaletta metallica che serviva per salire sino in cima alla torre cilindrica. Qui ormai non c'è più nessuno che coltiva la terra.
Tra un edificio e l'altro sono state tirate delle corde di nylon per stendere i panni. Mi faccio largo tra mutandoni di lana e canottiere a righe verticali sottili, di quelle che portavano i nostri nonni. La biancheria è usurata all'inverosimile, e il bianco - da cui: biancheria - è un lontano ricordo.
E invece qui nessuno sapeva un cazzo.
Bene.
A me piace così tanto fare queste figure di merda. E' assai piacevole, infatti, fare irruzione in casa di altri senza alcun preavviso.
Busso alla porta del primo alloggio, sito all'estremità settentrionale dell'aia. E' una casa bassa con l'intonaco rifatto, ma senza colore.
Niente.
Busso ancora, questa volta con maggor vigore.
Dopo una lunga attesa, viene ad aprirmi l'uscio un vecchio con la barba ispida e le labbra sporgenti: mi squadra perplesso e mi chiede chi cazzo sono.
Accoglienza freddina, non c'è che dire.
Nulla di cui stupirmi: che cazzo mi aspettavo, una banda di ottoni schierata in mezzo alla corte, in divisa da cerimonia, che intona marcette di benvenuto?
Gli rispondo, scusandomi, che sono qui per fare un rilievo degli edifici, sì, insomma, per prendere le misure. Mi ha assegnato questo compito la nuova proprietà, una ditta di costruzioni assai nota in città, attiva ormai da diverse generazioni.
Lui scrolla la testa e poi mi fa entrare, dopo avermi squadrato dalla testa ai piedi.
E così ci mandano via, mi fa.
Questo non lo so, dico io. Sono qui solo per prendere le misure.
Ah, fa lui, poco convinto.
Nel tinello c'è una sola finestra, assai piccola. Nella penombra intravvedo una sagoma accanto alla vecchia stufa di ghisa. Mi avvicino e mi trovo davanti un'anziana signora sovrappeso, ma sovrappeso in modo raccapricciante, accasciata su una poltrona in finta pelle e con due cannelli di plastica trasparenti infilati nel naso.
Buongiorno, signora, faccio io, sentendomi come in quella scena del Big Lebowski nella quale Walter fa irruzione in un appartamento alla ricerca del ladro dell'auto del Drugo, trovandosi davanti un uomo dentro a un polmone d'acciaio ("Le auguro una buona serata, signore!").
Lei si volta verso il marito e chiede: chi è questo?, con una marcata inflessione dialettale, calabrese, penso io.
Uno che deve fare delle misure, risponde lui.
Perchè deve fare delle misure?, chiede lei.
Lui si gira verso di me.
Dobbiamo accatastare tutti i fabbricati, cerco di spiegare io. E' un obbligo di legge. Prima gli agricoltori ne erano dispensati, ma adesso va fatto.
Ci sbattono fuori?, chiede lei al marito.
Lui non le risponde.
Provo a spostare il discorso sui gatti. Ne avrei tanto bisogno uno, su a casa mia c'è pieno di topi, piccoli bastardi di roditori.
Intanto mi invita a salire al primo piano. La scala è tra due muri, strettissima, e mi domando come possa passarci quella balenottera di sua moglie. Se ci prova si incastra e non la muovi più da lì, quella balenottera, potete starne certi. Probabilmente, non si sposta mai da quella poltrona. Meglio così, il solaio è costruito con esili putrelle, difficilmente sopporterebbe tutto quel peso...
Se le serve un gatto, ne prenda su uno, mi dice il vecchio dopo un lungo silenzio. Ecco, quello lì tutto rossiccio. E' un animale molto intelligente. Ci sono molto affezionato, ma glielo lascio volentieri.
Anzichè cacciarmi via in malo modo, penso io, quest'uomo mi offre uno dei suoi amati gatti.
No, grazie, questo gatto è suo, dico io sentendomi una merda.
Il secondo alloggio è più spostato in direzione di quella che una volta era la stalla dei cavalli. Negli anni appena prima della guerra, mi ha appena raccontato il vecchio, qui c'erano almeno un centinaio di bestie, o anche più.
Questa volta trovo il campanello. Pigio il tasto e rimango in attesa alcuni minuti.
Niente.
Appoggio l'orecchio all'uscio, nel tentativo di origliare quello che succede all'interno della casa.
Nessun rumore.
Cosa ci fa lei qui?, mi apostrofa una donna improvvisamente sopraggiunta alle mie spalle.
Imbarazzato, mi volto verso di lei. Ho il viso arrossato, come un bambino sorpreso a rubare le caramelle.
Ehm... buongiorno signora, balbetto.
Chi è lei?, mi chiede di nuovo lei. Porta occhiali con lenti spesse come fondi di bottiglia, e ha una crescita grigia dei capelli in bell'evidenza su una testa nera corvina.
Sono qui per prendere le misure degli edifici, le spiego. Mi mandano i nuovi proprietari. Veramente pensavo l'avessero avvertita, così ero d'accordo con il loro avvocato.
Nessuno mi ha detto nulla, dice lei piuttosto contrariata. Io comunque devo dare da mangiare alla mia creatura, non ho tanto tempo da perdere.
Se vuole, posso tornare in un altro momento. Mi spiace disturbare.
No. E' stato fortunato a trovarmi. Sono appena tornata dal lavoro, faccio i turni in fabbrica e a quest'ora di solito sono di fianco a una pressa. Quanto tempo ci vorrà?
Pochi minuti, l'assicuro io.
Si accomodi, mi dice. Faccia tutto quello che deve fare, ma faccia in fretta.
Lei si piazza davanti ai fornelli, tira fuori un paio di padelle da sotto il lavandino e con grande rapidità mette sul fuoco un soffritto di verdure e cipolle.
Sul divano a fiori del tinello è seduta una ragazza adolescente. E' china che smanetta sul cellulare e nemmeno alza lo sguardo per salutarmi.
Allora ci sbattono fuori, mi fa la donna mentre sbatte le uova contro il bancone per aprirne il guscio.
Beh... non è detto, faccio io, spiegandole la manfrina dell'accatastamento.
Lei non dice più niente, ma è palese che non mi crede.
Ai suoi occhi sono solo un patetico bugiardo.
In fondo allo stradello che porta ai campi ormai incolti di mais, trovo il terzo alloggio, proprio a fianco di un grande porticato a doppia altezza sotto il quale sono ricoverati dei trattori antidiluviani.
Mentre mi avvicino, mi accorgo che qualcuno mi spia da dietro la tenda di una finestra del piano terra.
Suono invano il campanello, più volte.
Niente.
Ormai stufo di aspettare, sto per allontanarmi quando mi raggiunge la donna miope.
Venga, le faccio aprire io, dice lei prendendomi sotto un braccio e accompagnandomi di nuovo verso la casa. Sa, in casa ci saranno i due ragazzi, rimangono spesso da soli e non si fidano ad aprire agli sconosciuti. Il padre sarà in qualche bar qui nei dintorni a sperperare quel poco che gli sarà rimasto della paga di un mese, quel testa di cazzo.
Questa volta infatti ci aprono la porta.
I ragazzi sono quasi identici, forse sono gemelli, tutti e due indossano un chiodo da metallaro e sul muso hanno una mezza dozzina di percing. Uno dei due emette uno strano stridulo, nella sua lingua probabilmente è un saluto, e si scosta per farci passare. L'altro rimane immobile sullo sfondo. Una presenza davvero inquietante. Inoltre, l'appartamento è praticamente a soqquadro. Sul pavimento in graniglia ci sono indumenti sparsi ovunque e anche lattine di birra vuote, sacchetti di patatine, un paio di ciabatte sfondate. Il tavolo è totalmente ricoperto di stoviglie sporche. Di sopra, le stanze sono semivuote, solo un letto, un appendiabiti e una sedia di legno. I muri sono letteralmente anneriti a causa dell'umidità, e in più punti l'intonaco scrostato è caduto in terra.
Prendo in fretta tutte le misure che mi servono e tento di accommiatarmi con estrema rapidità. Sulla soglia, uno dei due ragazzi, quello che sinora non aveva ancora emesso suoni di alcun tipo, mi dice: dovremo andarcene, vero?
Io balbetto le solite stronzate sul catasto e sulle rendite da aggiornare, senza avere il coraggio di alzare lo sguardo da terra.
Poi improvvisamente realizzo che non posso mentire di nuovo. I nuovi proprietari, è lampante, non hanno nessun fottuto motivo per tenere dentro questi strani personaggi, questi reietti alla deriva, che pagano certamente canoni di affitto ridicoli: con ogni probabilità decideranno di sfrattarli tutti e di iniziare da subito la ristrutturazione.
Allora alzo lo sguardo e rispondo al ragazzo: sì, dovrete andarvene. Ma non preoccupatevi, troverete un posto migliore di questo.
Mi avvicino alla donna e le accarezzo il capo.
E' vero, dice lei con le lacrime che iniziano a scivolarle sulle guance, troveremo senz'altro un posto migliore di questo.
martedì 2 dicembre 2008
Affresco
Prima di quella mattina, l'avevo visto in tutto tre o quattro volte.
Stava restaurando un affresco nell'androne di un palazzo del centro, proprio a fianco di un cantiere che seguivo per conto dello studio dove lavoravo all'epoca dei fatti.
Era un tipo alquanto strambo, con i lunghi capelli grigi raccolti in una coda di cavallo e un orecchino con un brillante al lobo sinistro. Portava sempre dei grembiuli assai logori, ed era così alto e magro che potevi scambiarlo per uno spaventapasseri.
L'avevo sempre salutato, in modo educato, niente più.
Qualche volta, forse, avevamo scambiato due chiacchiere sul tempo, le consuete frasi fatte sul freddo che non accennava a diminuire.
La settimana prima, mi ero effettivamente lasciato andare un istante, e gli avevo domandato come procedeva il lavoro: era ormai più di una settimana che stava scrostando lo stesso arco con un piccolo raschietto, e lui mi aveva risposto che purtroppo nel corso del tempo erano state date diverse mani di pittura, e adesso rimuoverle tutte per riportare l'affresco allo stato originario era davvero un lavoraccio.
Mi piace chiacchierare, in cantiere, se ne sentono delle belle. Coltivo anche diverse amicizie, tutte ovviamente a scopo di estorsione enogastronomica: un muratore di Cutro, si esprime in calabrese estremo, ogni settembre mi porta la 'nduia piccante e il pane fatto in casa, che dura più di dieci giorni e se lo metti nel tostapane pure di più. Quei demoni dei serbi e dei bosniaci, invece, mi hanno riempito la dispensa di quella loro grappa del cazzo, francamente imbevibile ma con un tasso alcolico assurdo, superiore a ogni altra cosa commestibile in commercio. E poi ti stupisci se si scannano fra loro senza apparente motivo.
Comunque, una bella mattina arrivo in cantiere e trovo il tipo in questione a terra, praticamente in trance, che fissa un punto nel vuoto sopra il ponteggio metallico, sgombro dei soliti attrezzi. Sembrava quasi che mi stesse aspettando.
- Stamattina è dura, gli faccio io, tanto per dire qualcosa.
Lui mi osserva in modo talmente intenso che ho paura di avvicinarmi oltre.
- Bevi un caffè?, mi chiede, uno strano ghigno dipinto sul volto.
- Ehm, volentieri, grazie, rispondo.
Per essere sinceri, l'ho appena bevuto, ma il tipo mi sembra talmente fuori di sè che non oso contraddirlo.
Entriamo in un bar a pochi passi da lì e ci accostiamo al bancone.
Lui si stravacca su uno sgabello.
Poi si accende una sigaretta senza filtro, incurante del divieto.
- Mi hanno buttato fuori di casa, mi fa lui.
- Scu-scusa?, balbetto.
- Mia moglie. Mi ha buttato fuori.
- Ma come, ti ha buttato fuori? Così? Da un momento all’altro?
- E’ successo ieri. Sono arrivato a casa dal lavoro e l’ho trovata in camera nostra che stava svuotando l’armadio delle mie cose. Le mie camicie, i miei pantaloni, i cappotti, tutti sul letto. E’ finita, mi dice. Ti dò tempo fino a domani per fare su le tue cose e per andartene.
- Cazzo.
- Stronza...
- Ma com’è possibile, cazzo? Ci sarà stato qualche preavviso. Non avete mai discusso prima?
- Mah, le cose non andavano bene come nei primi tempi. Ormai non ci parlavamo più da diverso tempo. Ma da qui a buttarmi fuori…
- Cristo. Mi dispiace.
- Grazie.
Non so se è mai capitato anche a voi, ma per alcuni a volte è più facile aprirsi a confidenze anche scabrose con dei perfetti sconosciuti piuttosto che con persone che si conoscono da sempre e che magari si stimano anche.
Certo, in questi casi per il perfetto sconosciuto - il perfetto sconosciuto sono io - non è facile tenere una conversazione decente, senza scivolare in patetiche ovvietà.
Infatti:
- Figli?
Era una domanda del cazzo, lo so, ma non mi era venuto in mente niente di meglio. Cosa potevo dire a uno che non conosci in nessun modo in una situazione simile? Che le donne sono tutte uguali e bla bla bla, e tutte quelle cazzate lì che tu neanche ci credi?
- Una figlia. Una ragazza di quindici anni, mi dice lui mentre inizia a frignare come un bambino.
Gli metto una mano sulla spalla, chiedendomi perchè lo sto facendo.
- Merda. E come l’ha presa?
- Direi bene, sbuffa lui. Era in camera sua che chattava con gli amici, e si è affacciata all’uscio per dirci di abbassare la voce.
- Wow... Beh, devi capirla, a quell’età. Comunque, vedrai, se ne farà una ragione.
- C’è un altro uomo.
- Ne sei sicuro? Non sempre è così automatico...
- Ti dico che c'è un altro uomo!, ribatte.
Io annuisco con un cenno del capo.
Segue un silenzio che a me appare interminabile.
Mi guardo intorno alla vana ricerca di un appiglio, di uno spunto qualsiasi per tirarmi fuori da quella situazionecosì imbarazzante.
All’improvviso i suoi occhi si riempono di rabbia che schiuma, e strilla:
- SAI DA CHI SI FA SCOPARE LA TROIA?
- Co-cosa?
- SAI DA CHI SI FA SCOPARE LA TROIA?
A quest'uomo sfugge un piccolo particolare, cazzo: no che non lo so da chi si fa scopare tua moglie, non so nemmeno chi sia, quella troia di tua moglie…
- Da quello che ripara le scarpe al centro commerciale!
- Bastardo...
Lui è lì che fissa il bancone in finto granito, giocherellando con la bustina dello zucchero di canna.
Gli altri avventori, pochi per la verità, ci osservano divertiti.
A un certo punto io decido che il discorso sta andando troppo in là: in tutta franchezza, quell'uomo mi faceva pena, ma non avrei saputo come fronteggiare la situazione. Con ogni probabilità, il mio occasionale ospite si sarebbe spinto a raccontarmi i dettagli della sua crisi passionale, e davvero io non sarei stato l’interlocutore ideale. Come confidente sono sempre stato un cesso. Anche nella mia fase adolescenziale e post, sono sempre stato tenuto alla larga dal grande giro dei pettegolezzi, e venivo sapere le storie più piccanti riguardanti i miei compagnie le mie compagne sempre per ultimo. Cazzo, mica potevo offrirgli ospitalità, io quest'uomo nemmeno lo conoscevo, mica potevo proporgli - come da copione - di stabilirsi temporaneamente da me, per i primi giorni, fintanto che non trovava una sistemazione più definitiva.
Allora butto lì un paio di scontatissime frasi sul tema: vedrai che tutto si aggiusta, oppure: torna indietro di sicuro, vedrai, mentre cerco di congedarmi chiedendo il conto alla barista, che nel frattempo aveva ascoltato sempre più incuriosita la nostra conversazione.
Lui continua a scrollare il capo.
- Sei davvero un’amico, mi dice lui in fase di commiato.
- Figurati, dico io.
Quel pomeriggio ripenso più volte all'accaduto, e non riesco a concentrarmi sul lavoro. Appena solo le sei smonto, scendo in cortile, inforco la bici con le gomme sempre sgonfie e a tutta velocità mi dirigo verso il centro commerciale.
Lo voglio proprio vedere in faccia, mi dico, quel bastardo figlio di puttana.
lunedì 14 gennaio 2008
HORIZONS
- Pronto.
- Buonasera, sono Ivan della Compagnia Demoscopica Horizons. Posso rubarLe due minuti del suo tempo?
- No, grazie, non mi interessa.
- Mi consenta di rivolgerLe due domande.
- Non insista, la prego.
- Le rubo solamente due minuti.
- No.
- Due minutini e poi La lascio in pace…
- Senta, sessanta milioni di cristiani - diconsi ses-san-ta mi-lio-ni - vivono in questo fottuto paese. Perché sempre io?
La sua disperazione era comprensibile. Nella sola ultima settimana, aveva dovuto rispondere a quesiti rispettivamente su: progressivo surriscaldamento del pianeta, indice di gradimento dei reality-show, questione maghrebina, crisi delle vocazioni, scelta del nuovo coach della nazionale, livello di soddisfazione dei consumatori, qualità dei programmi televisivi del servizio pubblico in fascia preserale.
- Non comprendo i motivi del Suo nervosismo, Signore, io volevo solo…
- Non sono affatto nervoso, è che ne non ne posso più di rispondere alle vostre inutili domande del cazzo…
- Adesso Lei esagera. Io cerco unicamente di fare bene il mio lavoro.
- Si cerchi un lavoro serio, ragazzo.
(Clic.)
(…)
- Pronto.
- Buonasera, sono Ivan della compagnia…
- Ancora lei? Le ho già detto che non intendo rispondere.
(Clic.)
(…)
- Pronto.
Adesso il suo tono era desolatamente dimesso.
Rassegnato all’ineluttabile.
- Signore, Le ricordo che ai sensi dell’art. 6, comma 5, Decreto del Presidente della Repubblica (…) Lei è tenuto a rispondere ai test (…) a pena di reclusione anni due (…) da scontarsi preferibilmente in…
Il ragazzo giocava duro.
Lui non aveva commesso l’errore di sottovalutarlo. Si accomodò perciò nella poltrona imbottita in finta pelle, si accese una Camel senza filtro e restò immobile in attesa, lo sguardo fisso in un punto qualsiasi del soffitto, ormai ocra per colpa del fumo.
- Buonasera, sono Ivan della Compagnia Demoscopica Horizons. Posso rubarLe due minuti del suo tempo?
- No, grazie, non mi interessa.
- Mi consenta di rivolgerLe due domande.
- Non insista, la prego.
- Le rubo solamente due minuti.
- No.
- Due minutini e poi La lascio in pace…
- Senta, sessanta milioni di cristiani - diconsi ses-san-ta mi-lio-ni - vivono in questo fottuto paese. Perché sempre io?
La sua disperazione era comprensibile. Nella sola ultima settimana, aveva dovuto rispondere a quesiti rispettivamente su: progressivo surriscaldamento del pianeta, indice di gradimento dei reality-show, questione maghrebina, crisi delle vocazioni, scelta del nuovo coach della nazionale, livello di soddisfazione dei consumatori, qualità dei programmi televisivi del servizio pubblico in fascia preserale.
- Non comprendo i motivi del Suo nervosismo, Signore, io volevo solo…
- Non sono affatto nervoso, è che ne non ne posso più di rispondere alle vostre inutili domande del cazzo…
- Adesso Lei esagera. Io cerco unicamente di fare bene il mio lavoro.
- Si cerchi un lavoro serio, ragazzo.
(Clic.)
(…)
- Pronto.
- Buonasera, sono Ivan della compagnia…
- Ancora lei? Le ho già detto che non intendo rispondere.
(Clic.)
(…)
- Pronto.
Adesso il suo tono era desolatamente dimesso.
Rassegnato all’ineluttabile.
- Signore, Le ricordo che ai sensi dell’art. 6, comma 5, Decreto del Presidente della Repubblica (…) Lei è tenuto a rispondere ai test (…) a pena di reclusione anni due (…) da scontarsi preferibilmente in…
Il ragazzo giocava duro.
Lui non aveva commesso l’errore di sottovalutarlo. Si accomodò perciò nella poltrona imbottita in finta pelle, si accese una Camel senza filtro e restò immobile in attesa, lo sguardo fisso in un punto qualsiasi del soffitto, ormai ocra per colpa del fumo.
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