mercoledì 22 dicembre 2010

Il pagellone del 2011


20
JONSI – Go
Jonsi – vero nome: Jón Þor Birgisson - è il leader degli islandesi Sigur Ros, band tra le piu’ importanti dello scorso decennio. Al suo debutto solista, lo straordinario vocalist cerca di smarcarsi puntando su filastrocche bislacche e su un’immediatezza e una freschezza pop che lasciano il segno.

19
GONJASUFI - A Sufi And A Killer
Gonjasufi – vero nome: Sumach Valentine – è un personaggio alquanto strambo: rasta, insegnante di yoga, intellettuale mistico e inquieto, Dj ed ex-rapper, oggi artista di punta della scuderia WARP. La sua opera prima mescola con classe e irriverenza i piu’ disparati generi musicali: trip hop e blues-rock, elettronica vintage e disco-music, citazioni terzomondiste e acid-rock psichedelico, e lo fa con un’inclinazione rigorosamente lo-fi che fa pensare – oltre che a Frank Zappa - al primo, grandissimo, Beck.

18
FOUR TET – There Is Love In You
La categoria: elettronica anche nel 2010 vede una serie di ottimi lavori.
Notevoli l’ambient di Balmorhea e The Album Leaf, il drone di Yellow Swans e Pan Sonic, le alchimie groove e i campionamenti di Flying Lotus.
Su tutti, i Four Tet del capolavoro Angel Echoes: stupore allo stato liquido, anzi sonoro.

17
RADIO DEPT - Clinging To A Scheme
La Svezia si fa notare per una scena pop viva e vegeta (XX, Sonnets).
I Radio Dept sono un terzetto di Lund che ha dato alle stampe il terzo album verso l’inizio dell’anno, sull’etichetta apripista Labrador. Suonano un pop sofisticato e malinconico, senza grosse pretese o ambizioni, ma straordinariamente gradevole.

16
HINDI ZAHRA – Handmade
Originaria del Marocco, Hindi Zahra esordisce riproducendo in musica il melting pot culturale tipico del sud della Francia, nel quale le tradizioni arabe e berbere si fondono col sofisticato patrimonio del cantautorato di scuola transalpina.

15
AMPARO SANCHEZ - Tucson Habana
Dopo dodici anni alla guida degli Amparanoia, la cantante andalusa Amparo Sánchez intraprende la carriera solista chiedendo aiuto ai Calexico. Il risultato non poteva che essere eccellente: Tucson Habana è un disco elegante e raffinato, caratterizzato da una malinconica atmosfera latina appena venata da accenti jazz e blues.

14
VILLAGERS – Becoming A Jackal
Chi come noi si porta l’Irlanda nel cuore non può che rallegrarsi per questa opera prima del giovane dublinese Conor J. O’Brien, alias Villagers, che mette in mostra un delicato fraseggio folk e una grande freschezza e immediatezza comunicativa. Si ascolti la meravigliosa Pieces, il brano migliore di tutta la raccolta, sospesa tra un’atmosfera vagamente jazzy e una magistrale interpretazione vocale.

13
JOHN GRANT - Queen Of Denmark
I texani Midlake sono tra le bands piu’ attive del momento. Eccoli in veste di co-produttori dell’opera prima di John Grant, accolta oltreoceano dall’ovazione quasi unanime da parte della critica (5 stelle su 5 per Mojo): l’ex leader degli Czars è in effetti capace di scrivere ottime canzoni, chiaramente ispirate ai grandi classici del passato, prima di tutto il grande rock americano degli anni anni Settanta.

12
ERLAND AND THE CARNIVAL - Erland And The Carnival
Frettolosamente catalogato nel Psych-Folk d'oltremanica, questo debutto omonimo degli Erland & The Carnival è un’autentica rivelazione.
Abilissimi nel mischiare i generi e le influenze piu’ disparate, ripropongono un repertorio di traditionals rivisitati con intensità e originalità; a questo aggiungono alcune perle d’autore: su tutte Trouble In Mind, ovvero uno straordinario pezzo indie-pop che – in un mondo normale – resterebbe a lungo nelle classifiche e nelle heavy rotation di radio e tv.

11
NEIL YOUNG - Le Noise
Alienato e disturbato, a tratti persino paranoico, l’ennesimo disco del cantautore canadese è un ascolto tutt’ altro che scontato. Cavallo pazzo è senza percussioni, solo con la sua chitarra – mai così distorta – e con una sequenza di rumori, feedback, riverberi elettronici ed echi (aiutato da Lanois).
Noi di PiacenzaSera salutiamo dunque uno dei nostri eroi di sempre, apprezzandone il coraggio e la voglia di sperimentare, di mettersi continuamente in discussione.

10
PAUL WELLER – Wake Up The Nation
GORILLAZ – Plastic Beach
Il maestro che supera l’allievo, questa volta è proprio il caso di dirlo.
Convince di piu’ il vecchio e redivivo Weller, autentico monumento nazionale britannico, qui alle prese con una rabbia mai sopita e un sound graffiante (seppur nel segno della tradizione), che l’allievo Albarn con la sua celebre cartoon-band: Plastic Beach contiene una manciata di ottimi brani, ma nel complesso si distingue per una stucchevole parata di stelle e per il trionfo dell’eclettismo postmoderno piu’ modaiolo e cool.

09
CARIBOU – Swim
Canada sugli scudi: con Arcade Fire e Neil Young ben tre posizioni in classifica.
Caribou è artista eclettico e con la sua terza opera ci regala un vortice impressionante di suoni psichedelici, uno spazio fluido in continuo divenire, un caleidoscopio di emozioni allo stato puro.

08
HEY MARSEILLES - To Travel And Trunks
Bizzarra band composta da sette musicisti capelloni, gli Hey Marseilles propongono un folk orchestrale e rivolgono la loro attenzione alla grande tradizione celtica. Il loro disco d’esordio si rivela un ascolto piacevolissimo, oltre un’ora di ballate malinconiche rivisitate con piglio quasi progressive e/o con stile bucolico e naif, piuttosto dimesso ma non cupo: molto lontano dal clima spesso caciarone - e ad alto tasso alcolico - della scena indie-folk britannica.

07
JANELLE MONAE – The Archandroid
Mentre Pitchfork e Stereogum stanno per incoronare il rapper stronzissimo Kanye West e il suo My Beautiful Dark Twisted Fantasy come disco dell’anno – eccezionale il suo campionamento di 21 Century Schizoid Man dei King Crimson dell’opener Power - noi preferiamo puntare (per la verità niente male anche i Black Keys, che tuttavia neri non sono…) su questa ragazza di venticinque anni e la sua irresistibile miscela di r'n'b, pop, funk, soul.
Signori e signore, ecco la nuova regina della black music.

06
MICE PARADE – What It Means To Be Left-Handed
L’ottava fatica di Mice Parade, creatura solitaria del percussionista newyorchese Adam Pierce, è un lavoro impossibile da catalogare, frutto com’è di una miriade di influenze diverse e di spunti creativi apparentemente inconciliabili, ovvero il tentativo dichiarato di fondere in modo armonico la seriosità di etnica e jazz con l’immediatezza dell’indie piu’ alternativo (e sofisticato).
Da ascoltare assolutamente.

05
NATIONAL - High Violet
Il colore viola del titolo rappresenta alla perfezione il romanticismo tenebroso e crepuscolare della band ormai newyorkese, in breve assurta da icona indie a “classico” del nuovo rock made in USA. Pur avendo optato per una linea di sostanziale continuità con la consueta, raffinata miscela di post-punk, canzone d’autore e rock intellettuale, rispetto al recente passato il loro sound appare meno claustrofobico e teso, e vira verso suoni e arrangiamenti piu’ ariosi e sofisticati, addirittura epici.

04
MENOMENA – Mines
TU FAWNING - Hearts On Hold
La cosiddetta scena di Portland, Oregon è una delle piu’ belle notizie dell’anno.
In attesa del nuovo albo dei Decemberists - King is Dead, in uscita il prossimo gennaio – ecco due lavori eccezionali (la critica promuove anche i Typhoon, di cui ancora non sappiamo nulla). I piu’ navigati Menomena propongono un art-rock con inclinazioni progressive e pulsazioni etniche. I Tu Fawning, loro supporter durante l’ultimo tour USA, fanno ancora meglio, con un’opera dalle venature dark, con chitarre abrasive e fisarmoniche gitane, litanie trip-hop e cori terribilmente tetri.
Imperdibile/i.


03
ARCADE FIRE - The Suburbs
Ormai superstar dell’indie-rock, acclamati da pubblico e da critica specializzata, il collettivo di Montreal giunge al difficile traguardo del terzo album: stretti nell’insanabile dubbio tra una ripetizione di schemi già proposti e il rischio della ricerca di nuove sonorità, scelgono di non scegliere, e così facendo allungano oltre misura la durata dell’album, togliendo qualcosa alla spregiudicatezza e alla tensione emotiva degli esordi.
Tuttavia The Suburbs si fa piacevolmente ascoltare per il suo pop raffinato e per un riuscito amalgama folk/wave, oltre che per la descrizione – come in una sorta di concept album – di un paesaggio contemporaneo alienato e alienante, fatto di centri commerciali e di outlet, di autolavaggi e di svincoli autostradali, di vuoti e assolati piazzali d’asfalto, di immense aree di parcheggio e di schiere interminabili di villette a schiera.


02
SUFJAN STEVENS - All Delighted People (EP)
SUFJAN STEVENS - The Age Of Adz
Altra doppietta.
Sufjan Stevens non smentisce la sua fama di compositore folle e bizzarro, oltre che prolifico e prolisso, e se ne esce con un Ep da quasi un’ora di musica e, a distanza di pochi mesi, un maestoso album di oltre 75 minuti. Mentre il primo riprende gli schemi acustici del passato (straordinaria la title-track), il secondo rappresenta una svolta epocale: The Age Of Adz è un disco di musica elettronica. E’, per i fan del nostro, un autentico shock.
L’eccessiva lunghezza dell’album si riflette in qualche passaggio a vuoto, tuttavia la raccolta contiene passaggi fottutamente geniali, con i quali Sufjan raggiunge l’apice della magniloquenza e dell’autoreferenzialità. Un discorso a parte merita Impossible Soul, l’ennesima, lunghissima, suite - oltre 27 minuti! - una Supper’s Ready postmoderna caratterizzata da continui mutamenti d’atmosfera e da capovolgimenti di fronte, come in un grande collage barocco di citazioni.


01
BEACH HOUSE – Teen Dream
Sorpresa?
La verità è che per dodici mesi abbiamo aspettato l’album capolavoro che potesse scalzare dal gradino piu’ alto del podio questa strepitosa, ultima fatica dei Beach House, da Baltimora, uscita a febbraio per la mitica label indipendente Sub Pop.
Ma niente. Un ultimo ascolto, e – nemmeno il tempo di finirlo – ecco presa la decisione di proclamarlo album dell’anno.
La prima parte - quella che una volta avremmo chiamato la Side A - sfiora addirittura la perfezione. Che sequenza! Zebra, e il suo straordinario intro acustico, la fantastica ballata Silver Soul (i Cocteau Twins al rallentatore), il singolo dreampop Norway, poi Walk In The Park, con la voce di Victoria Legrand che ricorda davvero quella di Nico, e infine la delicata, pianistica, Used To Be.
E nella parte residua del disco si resta ad alti livelli, senza cadute di tensione o di stile sino alla conclusiva Take Care, velvettiana sino al midollo.

martedì 14 dicembre 2010

sabato 11 dicembre 2010


E’ ormai ora dell’ormai consueto listone finale con il meglio dell’anno, e prendere tutte le decisioni non sarà facile. Ci sarò da lavoraci sopra, altro che. Nel frattempo registriamo che i Doss Awards 2010 - pubblicati anzitempo dal presidente su Fb – vedono trionfare National e Arcade Fire: li ritroveremo anche qui, con ogni probabilità.
Nell’incertezza, alcuni colpi di coda potrebbero in extremis costringerci a rivedere gerarchie, posizioni, graduatorie.

Il progetto The Ocean Tango, ad esempio. Nato dalla collaborazione tra l’esperto (è sulla scena dagli anni ’80) e raffinatissimo cantautore Louis Philippe – che la critica paragona a Brian Wilson e a Duke Ellington – e la band svedese Testbild!, propone un sofisticato chamber pop dall’atmosfera jazzy e malinconicamente british. D’altro canto, basta curiosare nella playlist di Philippe sul suo sito ufficiale (www. louisphilippe.co.uk) per ritrovare molto del meglio del pop britannico: XTC, Kinks, i primi Pink Floyd, Buzzcocks, Nick Drake, High Llamas, Prefab Sprout. Oltre ai Beach Boys, si intende.

In ambito piu’ folk o alt-country, Doug Paisley, è un altro cantastorie che merita la nostra attenzione.
Viene da Toronto, Canada, e questo eccellente ompanion è il suo secondo album.
Anche in questo caso il riferimento a Nick Drake – a lui e al suo maestro John Martyn - è d’obbligo. O al connazionale Bruce Cockburn. O anche a Bonnie Prince Billy, con il quale spesso ha condiviso il palco.
Il trittico iniziale è da brividi, chiuso da Don’t Make Me Wait nella quale duetta con Leslie Feist - si fa spesso aiutare anche da voci femminili, tra cui Jennifer Castle dei Fucked Up e Julie Faught dei Pining – ma è tutto il disco a colpire per la sua sobria eleganza e per le intense interpretazioni, sino alla conclusiva Come Here And Love Me, summa perfetta della musica di Paisley.

(opera di P.Pascali, 1965)

mercoledì 8 dicembre 2010

domenica 28 novembre 2010


Poi dopo un proluvio di campionamenti e di rumorismi, di distorsioni e di feedback, di sperimentazioni e di alchimie indie-troniche (Neil Young e Sufjan Stevens, per non fare nomi), uno è normale – come dice Totti: lo avete notato?, inizia tutte le frasi con “è normale che…” – che torna a cercare il sano e classico rock’n’roll, quello di duechitarreilbassoelabatteria, pochi fronzoli e niente strane idee in testa.
E allora eccoci servito il terzo album della band canadese dei Black Mountain, Wilderness Heart, omaggio esplicito e non troppo originale ai maestri Led Zeppelin – nella loro versione piu’ folk, quella di Tangerine - e Black Sabbath. Piu’ diretto rispetto ai lavori precedenti, si fa piacere per i duetti canori e le sonorità sixties di The Hair Song (notevole il videpclip, in heavy rotation su b:n) e Buried By The Blues.

Una proposta ancor piu’ interessante arriva da una zona limitrofa al Canada, ovvero Seattle, Washington, un tempo gloriosa culla del movimento grunge e oggi con la vicina Portland, Oregon (Tu Fawning, Menomena, Decemberists: a questo proposito, l’attessisima uscita del loro The King Is Dead è slittata all’inizio di gennaio) di nuovo mecca della scena indie statunitense.

Bizzara band composta da sette musicisti capelloni - spesso e volentieri anche barbuti –, gli Hey Marseilles propongono un fantastico folk orchestrale con un’ottima sezione di fiati, violoncelli e una fisarmonica, memore della lezione dei maestri Decemberists e di Okkervil River.
A dispetto del loro nome, che lascerebbe presagire un gusto un po’ francese, magari retrò, essi rivolgono però la loro attenzione alla grande tradizione celtica: non a caso sul loro sito è possibile ammirarli in una recente session acustica al Doe Bay Fest 2010, svoltosi alle Isole Orcadi (http://www.heymarseilles.com/home/).
Il loro disco d’esordio, intitolato To Travel And Trunks, si rivela un ascolto piacevolissimo, ovvero oltre un’ora di ballate malinconiche rivisitate con piglio quasi progressive (Cannonballs, Someone To Love) o con stile cantautoriale (You Will Do For Now); il tono rimane bucolico e naif , piuttosto dimesso ma non cupo, comunque molto lontano dal clima spesso caciarone e ad alto tasso alcolico di parte della scena indie-folk britannica (Mumford & Sons).

giovedì 25 novembre 2010

martedì 23 novembre 2010

Persino l'Oregon è meglio che qui


Puntualmente, in questo periodo esce una serie impressionante di lavori in grado di scombussolare, e anche di sovvertire, la ormai costruenda classifica di fine anno, che uno già ci mette il suo bell’impegno perché non è mica facile, men che meno quest’anno che in giro non ci sono padroni (e forse nemmeno padroncini).

Uno di questi lavori è senza dubbio l’album d’esordio (per la loro label personale, la Provenance Records) dei Tu Fawning, splendidi outsider da Portland, Oregon
Si sono fatti conoscere come supporters dei piu’ noti Menomena - anche loro di Portland, Oregon - autori nel corso del 2010 di Mines, un interessante art-rock con inclinazioni progressive e pulsazioni etniche.

Hearts On Hold è un disco dalla venatura dark.

L’incedere marziale della opener Multiply A House chiarisce da subito il contesto: il lamento funebre di Corrina Repp riporta alla mente la irripetibile stagione di This Mortail Coil e Dead Can Dance. La successiva The Felt Sense mette in mostra invece un drumming teso e nervoso, droni tastieristici e un coro campionato di indubbia efficacia. Ma è con il tango da cabaret di Sad Story e, ancor piu’, con la sobria The Mouth Of Young (con un canto a la’ Nico e una soluzione ritmica schizoide) che ci rendiamo conto di essere davanti a un piccolo capolavoro.

Il disco si mantiene su livelli ottimi, con una Apples and Oranges in territori Arcade Fire, la litania di Just Too Much, la quasi psicho Lonely Nights (non a caso qualcuno ha scomodato i Flaming Lips) e la suggestiva Diamond In The Forest – già edita in passato per sola voce e piano – quasi un omaggio ai maestri Menomena.

Il finale è eccelso, con una I Know You Know che mescola con sapienza sfumature anni Quaranta (Billie Holiday), chitarre abrasive e fisarmoniche gitane, cori terribilmente tetri e un trip-hop tipo Portishead.

Che dire: li ritroveremo nel classificone, e molto in alto, penso.

mercoledì 10 novembre 2010

sabato 6 novembre 2010

The loner


Alienato e disturbato, a tratti persino paranoico, la nuova ed ennesima fatica di Neil Young è un ascolto tutt’ altro che scontato.
Cavallo pazzo – stavolta senza i fidi Crazy Horse - canta con voce straziante accompagnato solo dalla sua chitarra – mai così distorta – e da una sequenza di rumori, feedback, riverberi elettronici ed echi (il titolo Le Noise è una sin troppo esplicita dichiarazione di intenti, oltre a un gioco di parole con il nome del produttore Daniel Lanois). L’artista canadese, d’altro canto, non è nuovo ad amplificatori a balla e ad arrangiamenti noisy: da qui la stima smisurata e incondizionata di band storiche come Nirvana e Sonic Youth (e nostra). La particolarità, stavolta, è che in nessuno degli otto pezzi della scaletta compaiono le percussioni.
La sensazione è che la sovrastruttura – sobria e non invadente, ricca di sottili sfumature - messa in piedi dall’alchimista Lanois aiuti sia i brani piu’ deboli e prevedibili (Someone’s Gonna Rescue Me, Angry World) sia quelli invece davvero notevoli, come l’opener Walk With Me, il singolo Hitchhiker e la conclusiva, oscura, Rumblin’.
Convincono meno le consuete ballate acustiche, ovvero la delicata Love And War – dal testo terribilmente retorico: “ho visto un sacco di giovani uomini andare in guerra e lasciare un sacco di giovani spose ad aspettarli. Le ho viste cercare di spiegare ai loro figli e ho visto un sacco di loro non riuscirci. Hanno cercato di spiegare perché perché il papà non tornerà mai più a casa…” - e la lunga e un tantino noiosa Peaceful Valley Boulevard.
Noi di PiacenzaSera salutiamo dunque uno dei nostri eroi di sempre, apprezzandone il coraggio e la voglia di sperimentare, di mettersi continuamente in discussione.
Diciamo la verità, non avremmo in nessun caso infierito su di lui.
E’ come quando un vecchio zio a cui vogliamo bene ci mostra orgoglioso i suoi presunti progressi con il pennello: davanti ai suoi paesaggi bucolici in acrilico, con le vacche al pascolo o le barchette che solcano il fiume, mica possiamo dirgli che sono delle croste abominevoli.
Gli diciamo:
Uhm, niente male, zio. No, davvero, mi piace.
E’…. e’…. è…. sì, mi piace.
Sul serio.

mercoledì 3 novembre 2010

Brugole pop


Hanno la colpa di aver riempito le case di tutto il mondo – che dico: dell’universo – di poltrone sfoderabili POANG e di librerie EXPEDIT, di KLINSBO, KLIPPAN e di LJUSDAL.
Per non parlare degli imballaggi di cartone e di tutte quelle fottute brugole, chi non ha in casa almeno una trentina di brugole dell’Ikea?
Per questo motivo gli svedesi si meritano – se esiste una giustizia divina – le pene dell’inferno sino all’eternità.
Ciò malgrado, negli ultimi tempi gli scandinavi si sono fatti notare per una scena pop viva e vegeta.
I Radio Dept sono un terzetto di Lund che ha dato alle stampe il terzo album (Clinging To A Scheme) verso l’inizio dell’anno, per l’etichetta apripista Labrador. Suonano un pop sofisticato e malinconico, senza grosse pretese o ambizioni, ma straordinariamente piacevole: spiccano nella scaletta Never Follow Suite, con una base elettronica soft e la danzereccia David, mentre This Time Around ha un incipit che ricorda la mitica Victoria dei Kinks e poi si apre a un’atmosfera shoegaze (My Bloody Valentine, Ride).
Interessanti anche i JJ, che bissano il successo di critica dell’album di debutto (JJ N.2, che seguiva l’EP di debutto intitolato semplicemente JJ N.1) anch’essi guardando alla madre Inghilterra: dreamy-pop dall’accento minimale per questi ragazzi di cui si sa poco o nulla, persino la cover dell’album è tutta bianca con la semplice dicitura JJ N.3.
Per ultimi i Sonnets, il cui recente Western Harbour Blue è stato eletto disco del mese di settembre su Ondarock.it.
Questi cinque ragazzi di Malmoe sono i paladini del cosiddetto New Cool, ovvero un vero e proprio revival del sound britannico anni ’80 (Style Council, Aztec Camera, Everything But The Girl, Prefab Sprout); l’album è grazioso e si fa ascoltare, tuttavia le influenze sono talmente marcate da risultare in diversi momenti persino imbarazzanti.
Fate attenzione: il grande maestro Paul Weller potrebbe chiedere i danni.

lunedì 1 novembre 2010

domenica 24 ottobre 2010


Sufjan Stevens ancora una volta non smentisce la sua fama di compositore folle e bizzarro, oltre che prolifico e prolisso, e se ne esce con un Ep da quasi un’ora di musica (All Delighted People) e, a distanza di pochi mesi, un maestoso album di oltre 75 minuti (The Age Of Adz).
L’ultimo suo album ufficiale, Illinoise, è del 1995 – ricordate il suo intento di pubblicare un album per ogni stato degli Usa? – e in questo lungo intervallo ci sono stati EP natalizi, rivisitazioni “creative” del proprio repertorio (Run Rubbit Run, 2009), sonorizzazioni di eventi (The BQE, 2009), collaborazioni e partecipazioni varie.

Diciamo subito che l’EP ha lo scopo di indorare la pillola ai suoi accanitissimi fan: il perché lo vediamo dopo. La title-track – ovvero il singolo e brano portante - è una bellissima suite di oltre 11 minuti, con i consueti cori e stacchi improvvisi, quasi prog - a noi ha ricordato Thick As A Brick dei Jethro Tull! – oltre ad espliciti omaggi a Beatles e Simon&Garfunkel (una delle strofe centrali ripete persino Hallo darkness my old friend); per i piu’ frettolosi, vi è anche una succinta classic rock version, senza cori e senza archi ma con banjo e una jam elettrica finale.
Anche il resto dell’EP è di ottimo livello: le ballate Heirloom e Djohariah su tutte.

Il nuovo album, invece, è un vero e proprio shock.
Il nostro si diverte a depistare con l’apertura bucolica di Future Devices, ma con le successive Too Much, Age Of Adz e I Walked tutto appare chiaro: The Age Of Adz è un disco di musica elettronica.
Si tratta di una svolta epocale per il cantautore di Chicago, paragonabile a quella dei Radiohead di Kid A. O alla svolta elettrica di Dylan al Festival folk di Newport del 1965, quando accompagnato dalla Paul Butterfield Blues Band sconvolse un pubblico di puristi del folk con le bordate elettriche di Like A Rolling Stone (qualcuno potrebbe obiettare che Stevens non è nemmeno l’ombra di Dylan, giusto, ma noi rispondiamo: nel 2010, quanti Dylan ci sono in giro?).
Ed infatti l’accoglienza per The Age Of Adz è stata piuttosto tiepida. Come il Dylan di Newport, Stevens è accusato di essere un traditore e di aver ceduto alle logiche del mercato. L’album secondo alcuni sarebbe barocco e kitsch, e altri deprecano gli effettacci da “discotecaro”, tra i quali l’uso del tune nella conclusiva Impossible Soul.
A noi di PiacenzaSera, invece, è piaciuto assai.
L’eccessiva lunghezza dell’album si riflette ovviamente in qualche passaggio a vuoto - Get Real Get Right, Bad Communication, All For Myself - , tuttavia davvero straordinarie sono Now That I'm Older e Vesuvius, durante la quale si raggiunge l’apice della magniloquenza e dell’autoreferenzialità, con quei cori che si rivolgono direttamente all’artista (“Sufjan! / Follow your heart”, un pò alla Tamaro), mentre I Want To Be Well parte male ma si riprende con uno straordinario finale (“I’m not fucking Around”).
Un discorso a parte merita Impossible Soul, l’ennesima, lunghissima, suite (oltre 27 minuti!), una Supper’s Ready postmoderna (qualcuno sul web l’ha definita un polpettone…) caratterizzata da continui mutamenti d’atmosfera e da capovolgimenti di fronte, come in un grande collage barocco di citazioni: partenza folk interrotta da un assolo sbilenco e zappiano di chitarra, intermezzo trip-hop con la partecipazione della vocalist dei My Brightest Diamond, crescendo in un proluvio di cori e di archi – con addirittura una tastiera che ricorda gli Europe (sic) – ed epilogo acustico di rara delicatezza.

In conclusione, due opere assolutamente da ascoltare.
Ma un rammarico c’è: un album solo, con All Delighted People sulla side A e Impossible Soul sulla side B, sarebbe stato senza il minimo dubbio l’album dell’anno.

giovedì 21 ottobre 2010

domenica 17 ottobre 2010


Svanito l’effetto sorpresa, è sempre piu’ difficile per Antony mantenersi all’altezza delle aspettative (enormi) di pubblico e critica specializzata.
L’ex-pupillo di Lou Reed – dopo l’antipazione dell’EP Thank You For Your Love, con cover di Dylan e Lennon (Imagine) – è di nuovo sulla breccia con il suo quarto lavoro, Swanlights (vocabolo di sua invenzione), che raccoglie in un elegante book anche scritti, fotografie e altre opere visuali realizzate dall'eclettico artista newyorkese.
Il primo impatto è che Swanlights sia un’opera piu’ positiva, piu’ spensierata.
I’m in love è addirittura quasi gioiosa (quasi, ho detto…), Thank You For Your Love è un soul ‘60.
Oddio, non mancano i consueti momenti di grande tensione, come la commossa The Great White Ocean, sentito omaggio ai genitori, o The Spirit Was Gone, o ancora la title-track, psichdelica e criptica.
Tuttavia l’atmosfera che si respira è in qualche modo meno drammatica, meno tetra.
Forse a scapito della compattezza e dell’omogeneità che invece aveva caratterizzato la produzione precedente. Lo ammette lo stesso Antony a Rockol.it: “Non è lineare come i miei precedenti, in effetti. Io lo trovo decisamente più caotico. Dotato di molte più sfaccettature. Ho voluto creare un inizio e una fine (con ‘Everything is new’ e ‘Christina’s farm’), per suggerire che esiste comunque un ordine, un sistema. Ma per me si tratta soprattutto della sovrapposizione di strati, di punti di vista, di stati emotivi”.
Non è il miglior disco di Antony, questo è certo, e in qualche passaggio affiora un po’ di stanchezza.
Ma è sempre un gran bel sentire.
Nella versione deluxe, bonus track il duetto con Bjork in lingua islandese (Fletta).

mercoledì 13 ottobre 2010


In attesa di ascoltare le consuete “bombe” autunnali (Antony, Sufjan Stevens, Belle&Sebastian, oltre ai redivivi David Sylvian e Neil Young), PiacenzaSera vuole consigliarvi la nuova, ottava, fatica di Mice Parade, creatura solitaria del percussionista newyorchese Adam Pierce (il nome del progetto è anche un anagramma del suo nome).
Un lavoro davvero impossibile da catalogare, frutto com’è di una miriade di influenze diverse e di spunti creativi apparentemente inconciliabili, nel tentativo dichiarato di fondere in modo armonico la seriosità di etnica e jazz con l’immediatezza dell’indie piu’ alternativo (e sofisticato).
What It Means To Be Left-Handed si apre con la nenia africana di Kupanda, con il suo ritmo tribale, seguita da In Between Times e Do Your Eyes See Sparks?, caratterizzate da un’armoniosa coralità e da notevoli duetti vocali (la prima delle due dovrebbe essere l’improbabile singolo).
Couches & Carpets e Recover – intervallate da un brevissimo strumentale - rievocano i territori post-rock di June of 44 e Gastr del Sol, mentre Old Hut con i suoi delicati arpeggi di chiatarra acustica pare uscire dall’ultimo Mum. E quando meno te lo aspetti Mallo Cup, dal repertorio dei Lemonheads (non è l’unica cover: la conclusiva Marie-Annie è del misconosciuto cantautore Tom Brosseau), sfodera un sound quasi grunge, tra Sebadoh e Motorpshycho. Un altro stacco e poi parte Even, una ballata folk senza né testa né coda, tra le cose piu’ belle del disco.
Il finale tiene botta, con una Tokyo Late Night che pare il miglior Moby, con quelle note di pianoforte su un tappeto elettronico, e la bossanova di Fortune of Folly.

sabato 2 ottobre 2010


L’autunno porta una caterva di buoni dischi per tutti i nostalgici degli anni Novanta.
Io sono tra quelli, quanta nostalgia per il mio walkman che smorzava il triste grigiore del distaccamento del Poli alla Bovisa, per riviste cult come Rumore e Rockerilla, per le camicie di flanella dei grunge e gli sfigati del lo-fi, per le serate in ascolto a Raistereonotte, un’autentica miniera di notizie e di informazioni per gli appassionati della scena Indie: in particolare il Dj siciliano Max Prestia – fan accanito dei Fall e degli shoegazers - le cui trasmissioni erano puntualmente registrate dall’amico Sabidda che poi le passava agli amici.

Tornano due maledetti come Nick Cave e Mark Lanegan, ex-leader degli Screaming Trees, con due lavori probabilmente non urgenti ma di classe sopraffina e immutata.
Il primo – ormai definitivamente abbandonati i vecchi compagni dell’epoca Birthday Party – si diverte con la sua ultima creatura, Grinderman, con il consueto bluesaccio sporco e improvvisato a là Stones (Palaces Of Montezuma, When My Babes Comes).
Il secondo dà alle stampe con Hawk il terzo capitolo della sua collaborazione con Isobel Campbell, ex-violoncellista degli scozzesi Belle&Sebastian, confrmandosi un credibile erede di Johnny Cash e Leonard Cohen (ascoltare Come Undone e You Won’t Me Let Me Down Again; nell’albo spiccano due cover di Townes Van Zandt: Snake Song e No Place To Fall).
Ancor meglio fa Kristin Hersh, storica voce di Throwing Muses, che esce contemporaneamente con un doppio live acustico (Cats And Mice) e con un nuovo album intitolato Crooked, secco ed essenziale, poetico e ispirato, soprattutto nella prima parte. Un po’ Patti Smith, un po’ la prima PJ Harvey: Mississippi Kite ricorda davvero tanto Sheila-Na-Gig, Sand e Fortune le tracce migliori.
Tra le bands, ecco di nuovo - a ben quattordici anni dal capolavoro Soundtracks For The Blind - i newyorchesi Swans, capitanati dal geniale Michael Gira, con l’apocalittico e tenebroso My Father Will Guide Me Up A Rope To The Sky, con cameo di Devendra Banhart e di alcuni membri dei Mercury Rev.
E infine l’ultima produzione di Sun Kil Moon, sigla prescelta da Mark Kozelek dopo l’addio dei Red House Painters: un’opera intima e fragile, adatta solo agli spiriti piu’ inquieti e malinconici: Australian Winter e Half Moon Bay sono la colonna ideale per il freddo che avanza.

lunedì 27 settembre 2010

La scena del revival-wave mostra da tempo la corda, e gli americani Interpol non fanno eccezione. Al debutto folgorante di Turn Out The Bright Lights del 2002 hanno fatto seguito i controversi Antics (2005) e Our Love To Admire (2007) – il primo su major - che pur conteneva un singolo come The Heinrich Manoveur e pezzi epici come Pioneer To The Falls.
Questo loro quarto album, intitolato semplicemente Interpol, vorrebbe segnare l’ennesimo ritorno alle sonorità e alle atmosfere delle origini.
L’iniziale Success non spacca, e l’inevitabile confronto con Pioneer To The Falls è impietoso: la voce di Banks è distante e non riesce a coinvolgere, l’arrangiamento ricorda Ultravox e Psichedelic Furs. La pulsante Memory Serves è invece degna dei tempi andati, mentre Summer Well si perde purtroppo nel ritornello, loffio. Lights, con la sua ouverture chitarriosa e il suo incedere progressivo (con Banks che sembra Peter Hammill!), ha il merito di interrompere un blocco che altrimenti rischierebbe di apparire troppo monocorde, prima di dilungarsi forse un pò troppo nel finale sinfonico. Ma rimane uno degli episodi migliori. Anche l’altro singolo Barricade fa il suo mestiere.
Se la prima parte del disco, pur non brillando per originalità, ripropone il loro sound piu’ classico e collaudato, è in quella che una volta si sarebbe chiamata la Side B che gli Interpol tentano strade impervie ed eccessivamente claustrofobiche, finendo per perdere il filo della matassa.
Le quasi recitate Always Malaise (The Man I Am) ed All Of The Ways esibiscono un’enfasi ingiustificata e un’immancabile coda ridondante (sembra che i nostri si siano specializzati nel rovinare le loro canzoni con questi epiloghi tirati per i capelli), mentre Safe Without è di una pochezza disarmante. A Try It On non basta un drumming teso a là Joy Division per elevarsi, e infine la conclusiva, maestosa, The Undoing torna a piacere: almeno fino a metà, prima di involversi verso la fine con l’ennesima soluzione pasticciata.
Il bassista, Carlos Dengler, ha lasciato il gruppo dopo la registrazione dell’album, per dedicarsi ad altri progetti. Insomma, la sensazione è che la band di New York stia per terminare le cartucce.
Saremo felici di sbagliarci.

sabato 18 settembre 2010

E, again


Mr E – al secolo Mark Oliver Everett - lo avrete capito, è un nostro pallino.
Dunque l’inizio di settembre si presenta con un’accoppiata da urlo: nuovo disco e concerto milanese all’Alcatraz (15.09), unica tappa italiana di un tour partito il 3 agosto scorso dalla California. Tanta roba, come dicono oggi i gggiovani.
Qualcuno però potrebbe storcere il naso: ancora gli Eels... Tuttavia, non è colpa nostra se incidono ben tre album nello spazio di soli diciotto mesi – lo ammettiamo, possono sembrare tanti – per completare con Tomorrow Morning la trilogia iniziata con Hombre Lobo nel 2009 e proseguita con End Times all’inizio dell’anno.
Diciamolo subito: il disco è un gran disco.
Piu’ arioso e solare rispetto al capitolo precedente. Ovunque aleggia una vena di ottimismo e di riappacificamento con il mondo. "L'accostamento a "Tomorrow Morning"", dice Mr E. nel presentare il nuovo lavoro, "cambia il significato del titolo di "End Times": come potrebbe essere davvero la fine se domani c'è un nuovo mattino?".
Si parte con un breve strumentale, punteggiato dai campanelli sintetici che con il tempo sono diventati un loro marchio di fabbrica, a cui succede I’m a Hummingbird, un brano dall’aria quasi space accompagnato da soli archi. The Morning è la prima delle solite straordinarie ballate (What I Have To Offer, That's Not Her Way): è davvero notevole la quantità sfornata nel tempo da E. senza correre il rischio di apparire ripetitivo.
Baby Loves Me – così come The man - riprende i passaggi piu’ ruvidi di Hombre lobo, mentre Looking Up è un blues sporco a là Cave.
Il singolo Spectacular Girl e la già citata What I Have To Offer introducono le bellissime
This Is Where It Gets Good, con la suo incedere ipnotico e la sua coda elettronica con tastiere e sample in gran spolvero (sembra di ascoltare Beck rifare un pezzo dei Can di Tago Mago) e – dopo un altro breve strumentale - Oh So Lovely, con gli archi a cura della Tomorrow Morning Orchestra e la cui atmosfera mistica rimanda ai tempi di Beautiful Freak.
Il finale segna sereno. I Like The Way This Is Going è la piu’ classica dichiarazione d’amore e i cori della conclusiva Mystery Of Life sono il presagio di un futuro luminoso, di un risveglio, così come l’albero di Jacaranda in fiore sulla cover dell’album.
La versione deluxe ha un EP allegato contenente quattro tracce inedite (Swimming Lesson, St. Elizabeth Story, Let’s Ruin Julie’s Birthday e For You): anche in questo caso si tratta di materiale ampiamente sopra la sufficienza.

Dal vivo gli Eels non deludono, anche se resta qualche rimpianto per la durata scarsina del concerto (poco piu’ di 90 minuti) e per l’assenza di quasi tutti i grandi classici. Mr E. si presenta con un’inquietante look fatto di bizzarra bandana, occhialoni neri e barba foltissima, e il resto del gruppo non è da meno: picchiano duro, e con quelle barbe sembrano gli ZZ Top suonare i Ramones. Ripropongono buona parte della trilogia, con soli 3 brani da Tomorrow Morning: Spectacular Girl, Looking Up e Oh So Lovely, l’ultimo bis e tra i brani migliori insieme a Fresh Blood, Prizefighter, I Like Birds e il gioiello That Look You Give That Guy.

domenica 5 settembre 2010


Giugno 1985: arriva, per la prima volta assoluta in Italia, il Boss.
Un evento da non perdere, nemmeno per tutto l’oro del mondo.
E’ uno Springsteen all’apice della sua carriera, reduce dal successo planetario di Born in the U.S.A.
Dopo una faticosa ricerca tra i negozi della nostra piccola città ci arrendiamo all’evidenza: non si trovano più biglietti. Decidiamo ugualmente di partire - poco prima dell’alba - alla volta di San Siro. Li prenderemo dai bagarini, pensiamo. Sui viali che portano allo stadio, è ancora buio e il vapore misto allo smog inizia ad alzarsi dall’asfalto, un semiarticolato ci taglia improvvisamente la strada e urta la vecchia Panda del Gigio, sfasciandole la fasciata sinistra, peraltro già ammaccata qua e là. Fermati Gigio, abbiamo ragione, diciamo noi. Frega’n cazzo, dice lui: c’è il Boss.
E allora ripartiamo, incuranti del clang clang metallico della portiera che penzola verso l’asfalto e, alla fine di una lunga ed estenuante trattativa con un tipo in canottiera e infradito, investiamo la cifra assurda di 50.000 lire a cranio: mica cotica, ai quei tempi per guadagnarli dovevi farci la campagna dei pomodori tutto agosto.
Ed è l’apoteosi.

A distanza di venticinque anni è uscito il doppio dvd ”London Calling: Live In Hyde Park”, concerto di Bruce Springsteen & The E Street Band registrato all’Hard Rock Calling Festival di Londra esattamente un anno prima, il 28 giugno 2009.
E’ un Boss in gran forma, malgrado una voce sempre più rauca - a tratti incomprensibile - e una registrazione audio imperfetta (in particolare per ciò che riguarda il sax di Clemmons). Si diverte, ride e saltella sul palco come un ragazzino, sudato come una capra, ammiccando ruffiano verso un Little Steven anche lui invecchiato e Clarence “Big Man” Clemmons, “l’uomo piu’ grande che avete mai visto in tutta la vostra vita”.
La scaletta è da paura.
Si apre con una trascinante cover di London Calling, e lo scenario apocalittico post-nucleare del mitico pezzo dei Clash viene idealmente unito all’apatia depressa delle Badlands della provincia (“lavorare nei campi/fino a che ti bruci la schiena/lavorare giù in officina/fino a che non ti si schiariscono le idee”) per iniziare quello che il London Times ha definito “un viaggio di tre ore a tutto gas attraverso l'America di Springsteen”
Durante la sua esibizione Springsteen raccoglie dal pubblico cartelli con richieste personalizzate, fingendo di assecondarle: Downbound train, dice uno, Adam raised A Cain un altro, Cadillac ranch un altro ancora. Lui, è ovvio, non può accontentare proprio tutti ma – come tradizione consolidata – non si risparmia neppure per un attimo e infila oltre tre ore di energia pura e di grandissimo rock’n roll.
E allora c’è spazio per i brani recenti (Working On A Dream, The Rising, Radio Nowhere, Outlaw Pete e una simpatica Waiting On A Sunny Day, alla fine della quale fa cantare un bambino nelle prime file) ma soprattutto per una serie straordinaria di vecchi cavalli di battaglia: 4 pezzi da Born to run (1975; la title-track, She’s the one, Night e una strepitosa Jungleland, a giudizio di scrive il suo punto piu’ alto in assoluto in oltre trent’anni di storia artistica), 3 da The darkness on the edge of town (1978; Badlands, The promised land e una emozionante Racing in the street), 1 a testa per gli album di mezzo The river (1980; Out in the Street) e Nebraska (1982; una robusta Johnny 99), oltre a 4 pezzi ancora da Born in the USA (1984; Bobby Jean, Dancing in the dark, Glory days e una No surrender eseguita con Brian Fallon dei The Gaslight Anthem).

Impossibile scegliere le cose migliori, anche se forse il clou dello spettacolo si conferma l’intramontabile sequenza Born to run-Rosalita (Come Out Tonight), quest’ultima dal suo secondo disco del 1973, The Wild, the Innocent & the E Street Shuffle.
In questi casi si sa, non si è mai contenti: spicca l’assenza di un must assoluto come Thunder road, mentre per The river la produzione ripara inserendo come bonus track una sua struggente versione dal Glastonbury dello stesso 2009. Sui nostri ipotetici cartelli da portare all’Hyde Park ci sarebbe stato scritto: Candy’s room, Point blank, Mansion on the hill, 4th of July Asbury Park (Sandy)…

Viviamo tempi molto difficili, dice un Boss letteralmente stremato presentando il primo dei bis, ovvero la cover di Hard Time (Come Again No More), scritta da Stephen Foster nel lontano 1854.
Ma stanotte possiamo dimenticarci di tutti i problemi e di tutte le ansie che ci affliggono.
Stanotte, direbbe il Gigio, frega’n cazzo: c’è il Boss.
C'è il Boss a farci saltare, cantare, ballare.
A scaldarci il cuore.

domenica 29 agosto 2010


Superstar dell’alt-rock, acclamatissimi da pubblico indie e da critica specializzata, i canadesi giungono al terzo album (dopo i favolosi ‘Funeral’ del 2005 e ‘Neon Bible’ del 2007) ovvero - come spesso accade - il vero e proprio l’esame della maturità (lo fallirono i Pink Floyd, per fare un esempio illustre, e non andarono benissimo Doors e Velvet Underground; in tempi piu’ recenti così così i R.E.M., esplosione definitiva invece per U2 e Radiohead), ben piu’ del secondo sul quale in fondo si può sempre vivere di rendita.

Stretti nell’apparentemente insanabile dubbio tra una ripetizione di schemi sin qui già proposti e l’inevitabile rischio dello sperimentare e di cercare nuove sonorità, il collettivo di Montreal sceglie alla fine di stare nel mezzo, e così facendo allunga oltre misura la durata dell’album: sedici brani per una durata di quasi sessantacinque minuti.
Proprio l’eccessiva lunghezza e l’accurato formalismo dell’album finiscono per togliere qualcosa alla freschezza spregiudicata e alla tensione emotiva degli esordi, tuttavia The Suburbs si fa piacevolmente ascoltare per il suo pop raffinato e per un sempre assai riuscito amalgama folk/wave (Neil Young che incontra Television, Talking Heads e New Order).
La sensazione è che gli Arcade Fire – come scrive Storiadellamusica.it - non abbiano avuto il coraggio di scegliere, di sfrondare, a ridurre all'essenziale, trascinandosi dietro molto materiale, piuttosto eterogeneo in certi punti, pur di accontentare tutti: e la noia, qua e là, fa capolino, anche se in ultima analisi il livello medio dei pezzi rimane eccellente sino alla fine.
Gli episodi migliori, a giudizio di PiacenzaSera, sono quelli che riprendono il filo del discorso interrotto tre anni orsono (The Suburbs I e II, The Sprawl I, la quasi byrdsiana Suburban War, Ready To Start e la spettacolare accoppiata Half Light I e II) descrivendo – stavolta come in una sorta di concept album – un paesaggio contemporaneo alienato e alienante, fatto di desolate lande suburbane fatte di centri commerciali e di outlet, di autolavaggi e di svincoli autostradali, di vuoti e assolati piazzali d’asfalto, di immense aree di parcheggio e di schiere interminabili di villette a schiera. Ovvero quello che gli urbanisti definisco appunto “Sprawl” (“Sometimes I wonder if the world’s too small/that we can never get away from the sprawl”), una rapida e disordinata crescita di un'area metropolitana a misura di automobile e priva di spazi pubblici o collettivi (“In the suburbs / I long to drive / And you told me we’ll never survive / Grab your mothers keys we’re leaving”).
Convincono invece meno le svolte più marcatamente disco-wave (Empty Room, Sprawl II) – leggi anche: non se ne può davvero piu’ del revival ‘80… - e i barocchismi di Rococo.

Il tempo dirà se anche The Suburbs contiene dei classici come Intervention, Neighborhood #1, Rebellion (Lies), nel frattempo godiamoci questa nuova raccolta di grandi canzoni che si candida, sin da ora, al podio di un’annata assai avara (per ora) di capolavori.