domenica 24 ottobre 2010


Sufjan Stevens ancora una volta non smentisce la sua fama di compositore folle e bizzarro, oltre che prolifico e prolisso, e se ne esce con un Ep da quasi un’ora di musica (All Delighted People) e, a distanza di pochi mesi, un maestoso album di oltre 75 minuti (The Age Of Adz).
L’ultimo suo album ufficiale, Illinoise, è del 1995 – ricordate il suo intento di pubblicare un album per ogni stato degli Usa? – e in questo lungo intervallo ci sono stati EP natalizi, rivisitazioni “creative” del proprio repertorio (Run Rubbit Run, 2009), sonorizzazioni di eventi (The BQE, 2009), collaborazioni e partecipazioni varie.

Diciamo subito che l’EP ha lo scopo di indorare la pillola ai suoi accanitissimi fan: il perché lo vediamo dopo. La title-track – ovvero il singolo e brano portante - è una bellissima suite di oltre 11 minuti, con i consueti cori e stacchi improvvisi, quasi prog - a noi ha ricordato Thick As A Brick dei Jethro Tull! – oltre ad espliciti omaggi a Beatles e Simon&Garfunkel (una delle strofe centrali ripete persino Hallo darkness my old friend); per i piu’ frettolosi, vi è anche una succinta classic rock version, senza cori e senza archi ma con banjo e una jam elettrica finale.
Anche il resto dell’EP è di ottimo livello: le ballate Heirloom e Djohariah su tutte.

Il nuovo album, invece, è un vero e proprio shock.
Il nostro si diverte a depistare con l’apertura bucolica di Future Devices, ma con le successive Too Much, Age Of Adz e I Walked tutto appare chiaro: The Age Of Adz è un disco di musica elettronica.
Si tratta di una svolta epocale per il cantautore di Chicago, paragonabile a quella dei Radiohead di Kid A. O alla svolta elettrica di Dylan al Festival folk di Newport del 1965, quando accompagnato dalla Paul Butterfield Blues Band sconvolse un pubblico di puristi del folk con le bordate elettriche di Like A Rolling Stone (qualcuno potrebbe obiettare che Stevens non è nemmeno l’ombra di Dylan, giusto, ma noi rispondiamo: nel 2010, quanti Dylan ci sono in giro?).
Ed infatti l’accoglienza per The Age Of Adz è stata piuttosto tiepida. Come il Dylan di Newport, Stevens è accusato di essere un traditore e di aver ceduto alle logiche del mercato. L’album secondo alcuni sarebbe barocco e kitsch, e altri deprecano gli effettacci da “discotecaro”, tra i quali l’uso del tune nella conclusiva Impossible Soul.
A noi di PiacenzaSera, invece, è piaciuto assai.
L’eccessiva lunghezza dell’album si riflette ovviamente in qualche passaggio a vuoto - Get Real Get Right, Bad Communication, All For Myself - , tuttavia davvero straordinarie sono Now That I'm Older e Vesuvius, durante la quale si raggiunge l’apice della magniloquenza e dell’autoreferenzialità, con quei cori che si rivolgono direttamente all’artista (“Sufjan! / Follow your heart”, un pò alla Tamaro), mentre I Want To Be Well parte male ma si riprende con uno straordinario finale (“I’m not fucking Around”).
Un discorso a parte merita Impossible Soul, l’ennesima, lunghissima, suite (oltre 27 minuti!), una Supper’s Ready postmoderna (qualcuno sul web l’ha definita un polpettone…) caratterizzata da continui mutamenti d’atmosfera e da capovolgimenti di fronte, come in un grande collage barocco di citazioni: partenza folk interrotta da un assolo sbilenco e zappiano di chitarra, intermezzo trip-hop con la partecipazione della vocalist dei My Brightest Diamond, crescendo in un proluvio di cori e di archi – con addirittura una tastiera che ricorda gli Europe (sic) – ed epilogo acustico di rara delicatezza.

In conclusione, due opere assolutamente da ascoltare.
Ma un rammarico c’è: un album solo, con All Delighted People sulla side A e Impossible Soul sulla side B, sarebbe stato senza il minimo dubbio l’album dell’anno.

giovedì 21 ottobre 2010

domenica 17 ottobre 2010


Svanito l’effetto sorpresa, è sempre piu’ difficile per Antony mantenersi all’altezza delle aspettative (enormi) di pubblico e critica specializzata.
L’ex-pupillo di Lou Reed – dopo l’antipazione dell’EP Thank You For Your Love, con cover di Dylan e Lennon (Imagine) – è di nuovo sulla breccia con il suo quarto lavoro, Swanlights (vocabolo di sua invenzione), che raccoglie in un elegante book anche scritti, fotografie e altre opere visuali realizzate dall'eclettico artista newyorkese.
Il primo impatto è che Swanlights sia un’opera piu’ positiva, piu’ spensierata.
I’m in love è addirittura quasi gioiosa (quasi, ho detto…), Thank You For Your Love è un soul ‘60.
Oddio, non mancano i consueti momenti di grande tensione, come la commossa The Great White Ocean, sentito omaggio ai genitori, o The Spirit Was Gone, o ancora la title-track, psichdelica e criptica.
Tuttavia l’atmosfera che si respira è in qualche modo meno drammatica, meno tetra.
Forse a scapito della compattezza e dell’omogeneità che invece aveva caratterizzato la produzione precedente. Lo ammette lo stesso Antony a Rockol.it: “Non è lineare come i miei precedenti, in effetti. Io lo trovo decisamente più caotico. Dotato di molte più sfaccettature. Ho voluto creare un inizio e una fine (con ‘Everything is new’ e ‘Christina’s farm’), per suggerire che esiste comunque un ordine, un sistema. Ma per me si tratta soprattutto della sovrapposizione di strati, di punti di vista, di stati emotivi”.
Non è il miglior disco di Antony, questo è certo, e in qualche passaggio affiora un po’ di stanchezza.
Ma è sempre un gran bel sentire.
Nella versione deluxe, bonus track il duetto con Bjork in lingua islandese (Fletta).

mercoledì 13 ottobre 2010


In attesa di ascoltare le consuete “bombe” autunnali (Antony, Sufjan Stevens, Belle&Sebastian, oltre ai redivivi David Sylvian e Neil Young), PiacenzaSera vuole consigliarvi la nuova, ottava, fatica di Mice Parade, creatura solitaria del percussionista newyorchese Adam Pierce (il nome del progetto è anche un anagramma del suo nome).
Un lavoro davvero impossibile da catalogare, frutto com’è di una miriade di influenze diverse e di spunti creativi apparentemente inconciliabili, nel tentativo dichiarato di fondere in modo armonico la seriosità di etnica e jazz con l’immediatezza dell’indie piu’ alternativo (e sofisticato).
What It Means To Be Left-Handed si apre con la nenia africana di Kupanda, con il suo ritmo tribale, seguita da In Between Times e Do Your Eyes See Sparks?, caratterizzate da un’armoniosa coralità e da notevoli duetti vocali (la prima delle due dovrebbe essere l’improbabile singolo).
Couches & Carpets e Recover – intervallate da un brevissimo strumentale - rievocano i territori post-rock di June of 44 e Gastr del Sol, mentre Old Hut con i suoi delicati arpeggi di chiatarra acustica pare uscire dall’ultimo Mum. E quando meno te lo aspetti Mallo Cup, dal repertorio dei Lemonheads (non è l’unica cover: la conclusiva Marie-Annie è del misconosciuto cantautore Tom Brosseau), sfodera un sound quasi grunge, tra Sebadoh e Motorpshycho. Un altro stacco e poi parte Even, una ballata folk senza né testa né coda, tra le cose piu’ belle del disco.
Il finale tiene botta, con una Tokyo Late Night che pare il miglior Moby, con quelle note di pianoforte su un tappeto elettronico, e la bossanova di Fortune of Folly.

sabato 2 ottobre 2010


L’autunno porta una caterva di buoni dischi per tutti i nostalgici degli anni Novanta.
Io sono tra quelli, quanta nostalgia per il mio walkman che smorzava il triste grigiore del distaccamento del Poli alla Bovisa, per riviste cult come Rumore e Rockerilla, per le camicie di flanella dei grunge e gli sfigati del lo-fi, per le serate in ascolto a Raistereonotte, un’autentica miniera di notizie e di informazioni per gli appassionati della scena Indie: in particolare il Dj siciliano Max Prestia – fan accanito dei Fall e degli shoegazers - le cui trasmissioni erano puntualmente registrate dall’amico Sabidda che poi le passava agli amici.

Tornano due maledetti come Nick Cave e Mark Lanegan, ex-leader degli Screaming Trees, con due lavori probabilmente non urgenti ma di classe sopraffina e immutata.
Il primo – ormai definitivamente abbandonati i vecchi compagni dell’epoca Birthday Party – si diverte con la sua ultima creatura, Grinderman, con il consueto bluesaccio sporco e improvvisato a là Stones (Palaces Of Montezuma, When My Babes Comes).
Il secondo dà alle stampe con Hawk il terzo capitolo della sua collaborazione con Isobel Campbell, ex-violoncellista degli scozzesi Belle&Sebastian, confrmandosi un credibile erede di Johnny Cash e Leonard Cohen (ascoltare Come Undone e You Won’t Me Let Me Down Again; nell’albo spiccano due cover di Townes Van Zandt: Snake Song e No Place To Fall).
Ancor meglio fa Kristin Hersh, storica voce di Throwing Muses, che esce contemporaneamente con un doppio live acustico (Cats And Mice) e con un nuovo album intitolato Crooked, secco ed essenziale, poetico e ispirato, soprattutto nella prima parte. Un po’ Patti Smith, un po’ la prima PJ Harvey: Mississippi Kite ricorda davvero tanto Sheila-Na-Gig, Sand e Fortune le tracce migliori.
Tra le bands, ecco di nuovo - a ben quattordici anni dal capolavoro Soundtracks For The Blind - i newyorchesi Swans, capitanati dal geniale Michael Gira, con l’apocalittico e tenebroso My Father Will Guide Me Up A Rope To The Sky, con cameo di Devendra Banhart e di alcuni membri dei Mercury Rev.
E infine l’ultima produzione di Sun Kil Moon, sigla prescelta da Mark Kozelek dopo l’addio dei Red House Painters: un’opera intima e fragile, adatta solo agli spiriti piu’ inquieti e malinconici: Australian Winter e Half Moon Bay sono la colonna ideale per il freddo che avanza.