sabato 19 novembre 2011


Le charts inglesi vedono la lotta tra Adele e Florence And The Machine – interessante il suo Ceremonials, nei negozi da poche settimane – ma il gentil sesso non domina solamente nel pop da classifica.

Annie Clark, 28 anni, utilizza un nick name preso bizzarramente in prestito dal Saint Vincent’s Catholic Medical Center, ovvero l’ospedale in cui morì il celebre poeta Dylan Thomas – colui che ispirò lo pseudonimo a un certo Robert “Bob” Zimmermann.
Giunta al terzo atto di una trilogia ideale (Marry Me, 2007; Actor, 2009), la polistrumentista texana non delude le attese e - con l’aiuto di preziose collaborazioni (Midlake) – ci regala uno dei dischi più belli e intensi di questo semestre, in uscita per la mitica label indipendente 4AD.
L’influenza di Bjork è evidente sin dall’opener Chloe In The Afternoon, ma in alcuni passaggi successivi (l’algida Dilettante, Surgeon) emerge una personalità originale e art-rock oriented (Peter Gabriel, Kate Bush, David Byrne); la sua musica è tecnicamente perfetta, onirica e glaciale, questo anche grazie all’abbandono degli arrangiamenti barocchi e delle sovra incisioni che avevano appesantito le opere del recente passato; non mancano persino ritornelli-killer, come nel singolo danzereccio Cruel.

Più ostico - e meno convincente - il lavoro di un’altra artista assai promettente, anch’essa one-girl-band, ovvero quella Shara Worden meglio conosciuta come My Brightest Diamond, che vanta anch’ella collaborazioni illustri (Decemberists, Clogs, l’immancabile Sufjan Stevens).
Nato su commissione, questo suo All Things Will Unwind si avvale dell’apporto dei fiati e degli archi dell’orchestra yMusic Ensemble e dovrebbe rappresentare una sorta di opera-concerto. Il suo pop da camera è raffinato e ambizioso, quasi da musical teatrale, e la sua formazione lirica emerge senza esitazioni.
Eppure, sulla lunga distanza, l’ascolto si fa difficile e la noia rischia di far capolino.
Brani come Be Brave e Reaching Through To The Other Side, tuttavia, non mancheranno per nessun motivo nelle nostre compilation di fine anno.

domenica 6 novembre 2011


Vallo a sapere, il motivo per cui i Kasabian – incensati e idolatrati in madrepatria – non godano qui da noi di buona stampa.
Forse perché fondamentalmente sono degli stronzi: atteggiamento arrogante e sfrontato da workingclass dei sobborghi e look tamarro, in particolare quello del leader Sergio Pizzorno, di origini genovesi.

Non deludere le attese dopo l’ottimo West Rider Pauper Lunatic Asylum, il loro successo planetario del 2009, non era impresa semplice.
Tuttavia questo Velociraptor conferma la band di Leicester come una delle migliori del panorama britannico, panorama peraltro oggi non entusiasmante. Certamente più bravi a non ripetersi rispetto alle tante next big things d’oltremanica dello scorso decennio (Arctic Monkeys, Bloc Party, Kaiser Chiefs).

Insomma, saranno pure stronzi, questi Kasabian, ma sanno fare tutto e bene.

Nella nuova raccolta – eclettica e zeppa di citazioni: il primo singolo Days Are Forgetten fa addirittura il verso a un monumento come Immigrant Song dei Led Zeppelin - non mancano il clubbing duro stile Prodigy (Switchblade Smiles e la title-track, forse il momento più debole insieme all’elettronica insipida di I Hear Voices), il blues-rock spavaldo tra Primal Scream e Rolling Stones (Re-wired, da non perdere il videoclip nel quale i quattro sono impegnati in un inseguimento a bordo di una Fiat 126 rossa), il brit-pop classico (Goodbye Kiss e Man Of Simple Pleasures) e i Beatles lisergici di Sgt Pepper (La Fee Verte e Neon Noon).
Ma le vere gemme dell’album sono a nostro parere due episodi dall’atmosfera vagamente orientaleggiante, ovvero l’iniziale Let’s Roll Just Like We Used To (la memoria va a Spirit e Kaleidoskope) e l’ipnotica Acid Turkish Bath (Shelter From The Storm), probabile omaggio ai grandi Chemical Brothers di The Private Psychedelic Reel.