Visualizzazione post con etichetta Plastica bruciata. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Plastica bruciata. Mostra tutti i post

mercoledì 5 febbraio 2014

TOH, ECCO IL SAUNDERS ITALIANO (TROPPO, SAUNDERS...)

Toh, ecco il George Saunders italiano. Per scherzo? No, seriamente. Quasi. Perché è vero che Menzani sconta il doppio handicap di essere 1) un “quasi esordiente” (all’attivo solo un paio di saggi sull’architettura contemporanea e un Dizionario biografico fantastico dei piacentini illustri) e soprattutto 2) un “quasi scrittore”, nel senso che di mestiere fa(ceva?) l’architetto. E però ce ne fossero di quasi-scrittori come lui. Che quasi-scrivendo qua e là tirano fuori dal cassetto questi tredici racconti che sono delle piccole chicche. Per lo meno per chi ama le ambientazioni “quasi-saundersiane”. O giù di lì.
 
Sciolto ogni dubbio, quel che è certo è che in queste pagine si viene accompagnati con passo lieve in uno scenario che di lieve ha ben poco. Baraccopoli post moderne e posticce, periferie sub-urbane anonime e desolante, dove si muovono personaggi strani in situazioni ambigue. Aspiranti partecipanti ad improbabili show televisivi ammassati in villaggi prefabbricati in attesa della chiamata in onda; cinici poliziotti addetti al controllo delle spese personali sulla base delle indicazioni fornite dal Ministero dei consumi; uomini costretti a travestirsi da animali per allietare osceni visitatori di un outlet; pubblico in estasi in un Multiplex per assistere ad esecuzioni capitali.
 
C’è insomma tutta la schizofrenia distopica che si ritrova appunto dei racconti di Saunders, dove un’umanità andata da tempo alla deriva è costretta a barcamenarsi tra i bassifondi di un impero dove il consumismo e l’avidità hanno vinto da un pezzo. E il resto sono macerie. In questo caso siamo naturalmente in Italia. Ma è una Bassa Padana appena abbozzata, che potrebbe in realtà essere ovunque. Perché il paesaggio non è che una misera quinta dietro la quale si muovono gli inconsapevoli attori. Uomini e donne perduti, ignavi, rassegnati, sconfitti. E se qua e là trapela un tocco di ironia a rendere surreale alcuni passaggi, il tutto resta abbondantemente connotato da un forte senso di smarrimento e perdizione.
 
Che si fa sottile angoscia nei racconti più realistici. Quelli nei quali l’autore abbandona il surreale e si concentra su scene di vita quotidiana. Di nuovo, come Saunders nel suo ultimo lavoro (Dieci dicembre, leggi recensione); anche se qui il riferimento più esplicito è più che altro a Raymond Carver. Menzani mette in scena quadretti di apparente banalità nei quali, come nella migliore tradizione del minimalista americano, a conferire tensione alla narrazione è più il non detto che quello che viene esplicitato. Quella sensazione che qualcosa di brutto sia appena successo o, peggio, stia per succedere. Ma siccome non è che basti darsi un tono minimal per raggiungere questi effetti, il fatto che il giovane Menzani riesca ad avvicinarsi senza apparente sforzo ai suoi modelli è già una vittoria da salutare brindando.
 
Semmai, se proprio dovessimo rimproverargli qualcosa (ma perché poi?), sarebbe proprio questo suo rimando così esplicito ad altri autori. L’effetto è un po’ come quello di sentire una cover band, che esegue in modo impeccabile brani di altri in attesa del coraggio necessario per scriverne di propri. Ma un quasi-autore così prima o poi lo sforna di sicuro un album tutto suo.

LA RECENSIONE SU IJE.ZINE



L’odore della Plastica Bruciata è una raccolta di racconti scritta da Giovanni Battista Menzani ed edita da LiberAria. Racconti crudi, spietati, tristemente ironici, che mettono in evidenza tutto l’egoismo e il cinismo della nostra società, in una deriva di valori che ci spinge sempre più verso il basso e ci costringe a rotolarci nel fango. Non è un caso che il libro si apra con Con passo sicuro e costante andatura, storia di un povero malcapitato che per sbarcare il lunario si trova costretto a lavorare come asino in un outlet, caricandosi sul groppone i pacchi della “gentile” clientela che dal momento che paga ha il diritto di sottoporlo a umiliazioni e vessazioni di ogni sorta, fingendo di dimenticare che sotto quel costume si nasconde un essere umano.
Il racconto in chiusura L’odore della plastica bruciata (che dà il titolo alla raccolta) affronta un tema molto delicato: la pena di morte. Qui ci vengono presentati alcuni assassini condannati alla sedia elettrica, la cui esecuzione capitale viene eseguita in diretta in un cinema multisala affollato di persone. Persone talmente assuefatte alla spettacolarizzazione del lutto, da gustarselo assieme ai loro figli con un pacco di popcorn tra le mani, in un parossismo di disumanità.
In mezzo ci sono storie di lavori precari, di mariti rovinati dalle ex mogli, di brutture, di freddezza, di vite in bilico. Una cosa su tutto: l’indifferenza, che il più delle volte rende l’uomo peggio della bestia. Giovanni Battista Menzani affronta questi argomenti in modo egregio, senza mai scadere nella retorica, denotando una sensibilità e una profondità d’animo fuori dal comune. Ma la cosa a mio avviso più importante e che rende questi racconti credibili, è che Menzani non indugia in inutili personalismi, non offre soluzioni stereotipate, il suo è solo un preciso punto d’osservazione frutto di un immaginario compatto. E per riuscire a mettere insieme tutto questo utilizza un’ironia sottile e una scrittura semplice, senza sbavature. Semplice nel senso che anziché ricorrere a effetti speciali o colpi di scena, ha il pregio di mostrare le cose per quello che sono. L’atmosfera rarefatta che si respira durante la lettura trasmette un senso di claustrofobico.
E alla fine resta dentro un sapore acre.
Acre come la plastica bruciata. 
(Grazie a Francesco Rago)

sabato 18 gennaio 2014

UN LIBRO DENSO E DOLOROSO.

L'odore della plastica bruciata è una raccolta di racconti che lascia senza fiato. Per l'angoscia.
Un mondo nel quale sembra che non ci siano riferimenti reali e che invece racconta con freddezza tutti gli stereotipi, le crudeltà, le indifferenze del nostro paese.
Abbiamo a che fare con lavori sottopagati e degradanti in centri commerciali affollati e disumani, con insegnanti precari, con badanti che, oltre a pulire il culo dei nostri vecchi, conquistano anche un pezzo del loro cuore e poi vengono sistematicamente ignorate dagli eredi, con aspiranti 'vip' in preda alla massacrante routine dei reality, con istituzioni pignole, corrotte, indifferenti, con ex mariti rovinati, padri assassini, vendette, povertà e morte.
Non c'è speranza in questi racconti. I buoni sentimenti emergono ogni tanto, per venire subito spazzati via dalla straniante sensazione che niente stia andando come dovrebbe. Dal terribile sospetto che sia tutto vero quello che scrive Giovanni Battista Menzani.
A dispetto della brevità dei singoli racconti, non si tratta di un libro facile. Bisogna respirare tra un racconto e l'altro e rileggerne alcuni. È un libro denso, doloroso, che resta impresso e ha la capacità di andare a fondo nelle nostre paure e convinzioni.
Menzani, poi, scrive benissimo: freddo, va dritto al punto e non sbaglia mai. Ci accompagna in questo mondo alienato ma non troppo, in cui a volte sembra che manchi anche la luce, con uno stile semplice e un lessico perfetto.
Quello che mi ha colpita di più è però la rassegnazione dei personaggi, l'incapacità di ribellarsi a una via che sembra già segnata. Sì è parlato, a proposito di altri romanzi, di realismo e di fiumane che travolgono tutto. Qui, in questo libro, sembrano tutti già affogati. Da un pezzo.
Leggere L'odore della plastica bruciata serve, in ogni caso, per vedere che cosa stiamo diventando (perché sono ottimista e non voglio credere che siamo 'già' così) e per cercare di tornare indietro. E perché raramente si legge oggi una scrittura così diretta e semplice, ma al tempo stesso colta e carica di significato e di emozioni. Non si legge a cuor leggero, non lo si divora tutto d'un fiato. Si beve a piccoli sorsi, coraggiosamente.
(Recensione di Angela Del Prete, su www.i-libri.com)
Grazie

sabato 11 gennaio 2014

ALTRA RECENSIONE, SU LANKELOT.IT

L'odore della plastica bruciata è la prima raccolta di racconti di Giovanni Battista Menzani, dopo due saggi di architettura e la cura della Guida ai luoghi fantastici di Piacenza (per ed. Piacenzasera, o per Officine Gutenberg, si trovano notizie diverse) e il Dizionario Biografico Fantastico dei Piacentini Illustri (edito da Codex10) entrambe in coppia con Gabriele Dadati. Si può dire che questo libro segni il suo esordio narrativo in solitaria, credo, e un esordio coraggioso, come tutti quelli che si affidano alla forma del racconto, un po' perché nel panorama editoriale italiano le raccolte non antologiche mi sembrano abbastanza rare, e soprattutto per il fatto che scrivere racconti, scrivere buoni racconti, è estremamente difficile. Una raccolta, inoltre, lo è ancora di più, perché non basta essere capaci di dare vita ad un singolo buon racconto, cosa che può accadere a chiunque provi a scrivere, prima o poi, ma presuppone un'omogeneità eterogenea in cui ogni racconto, per quanto possa essere più o meno “diverso” da quello che lo precede e dal suo seguente, acquista forza e senso dal suo essere parte di un insieme, come atomi in una molecola. Tornando al libro in questione, nell'aletta di copertina si legge una frase che conferma il titolo (almeno per me, che lego quell'odore a cantieri e periferie notturne) “Un'immensa periferia globale e stereotipata fatta di svincoli autostradali, capannoni prefabbricati, outlet di cartapesta e cartelloni pubblicitari...”.
Si comincia: Con passo sicuro e costante andatura narra in prima persona le difficoltà di un commesso porta-pacchi in un grande centro commerciale, un commesso che si trasforma in mulo grazie ad una pesante tuta semimeccanica e il cui compito è quello di farsi caricare dai clienti gli acquisti sulla groppa e trasportarli dall'uscita del grande edificio fino alla loro macchina parcheggiata. Digressione: mi ricorda un romanzo, Nessuna esperienza richiesta, di G. Comuniello, edito da Intermezzi, in cui il protagonista dopo varie disavventure lavorative finisce con il “lavorare” come animale domestico. Nel secondo, A stomaco vuoto, è protagonista un'insegnante...a tempo precario indeterminato. In Kerosene ecco una badante dell'Est Europa che si vede trattare con poco rispetto dai parenti dell'uomo che ha assistito per anni. Si continua con frammenti di vite: dalla comparsa televisiva che vive in una sorta di “riserva” per comparse all'architetto che va a fare misurazioni di case su un terreno che, cambiato di proprietà, verrà destinato a nuove abitazioni con conseguente sfratto degli attuali abitanti, dagli ispettori delle Squadre Speciali per il Rilevamento dei Consumi, addetti a controllare che i cittadini spendano almeno la loro quota minima di denaro mensile per mandare avanti l'economia, al figliol prodigo che tornando a casa viene scambiato dal padre esteticamente modificato per un ladro, al mago per compleanni vittima dei genitori del festeggiato, ed altri ancora fino ad arrivare al racconto che dà il titolo a tutto quanto: siamo in un mondo in cui il passaggio all'età adulta viene segnato dalla visione di uno spettacolo.
L'autore gioca in economia, con gli ambienti, i personaggi, e non sbaglia, facendo de L'odore della plastica bruciata una buona raccolta, con una scrittura piana tesa a calare chi legge in ogni situazione descritta, a fargliela sentire reale anche là dove la realtà viene forzata e i racconti sembrano narrare una distopia, un futuro molto vicino, un presente parallelo. A seconda della distanza dal “reale” si possono così distinguere vari livelli, ma nella lettura si confondono, si sovrappongono, e quando si arriva alla fine possiamo quasi dire: è già così. Sappiamo che non è vero, reale, come sappiamo che potrebbe esserlo: vero, reale.
Eppure voltata l'ultima pagina mi sono accorto che mi era rimasta addosso una sensazione di note stonate. Dopo un ripasso veloce ho pensato a come mi ero sentito appena terminata la prima storia: ero molto curioso. Dopo la seconda, invece, la curiosità era diminuita. Come mai? Non una questione di qualità singola, ma di posizione reciproca. Quei due racconti, in quell'ordine, mi erano sembrati distanti, tanto distanti da recarmi una sorta di delusione. Se prendo il libro come molecola e i racconti come atomi, quei due accanto, secondo me, in quell'ordine, non legano. È qualcosa che ho sentito, ma in tono minore, anche in altre parti della raccolta, e mi fa pensare che forse la disposizione generale poteva essere diversa, tenendo come punto fermo il racconto finale. Anche solo lo spostamento del primo, forse, nella parte centrale, o nella seconda metà, sarebbe stato sufficiente, perché si avverte come un salto all'indietro iniziale, mentre dopo c'è una progressione più o meno costante. Impressioni, sensazioni. L'odore della plastica bruciata è una buona raccolta di racconti cui è mancato poco, per me, per essere qualcosa di più.
Termino con un'altra digressione: quando ho letto Con passo sicuro e costante andatura, mi è sembrata un'espressione già sentita o letta, così ho chiesto al motore di ricerca una mano, e sono finito su una pagina del sito agraria.org dedicata al mulo, che avevo già visitato tempo fa, e tra le altre cose dice “Se il mulo è proverbiale per la caparbietà e spesso per la cattiveria, in compenso compie il lavoro con grande energia e molta resistenza, anche sulle strade montane più impervie, con passo sicuro e costante andatura”. Un po' come chi scrive, più o meno.
(recensione di Andrea Brancolini).
Grazie

TREDICI COLTELLATE FEROCI

Nella raccolta di racconti L’odore della plastica bruciata di Giovanni Battista Menzani ogni parola è un pugno, ogni descrizione la desolazione, ogni periferia più grigia.
Grotteschi personaggi eseguono azioni e ragionano su pensieri al limite dell’accettabile, in una solitudine che fa paura ogni pagina di più. Ultimi che vivono la loro vita ai margini della normalità gestendo il vuoto delle loro esistenze riempiendolo di umanità e di commozione. L'uomo cavallo di peluche al centro commerciale che cade durante le ore di lavoro e a cui nessuno dà una mano, la badante abbandonata dai figli dell'anziano deceduto che hanno modificato il testamento per non lasciarle nulla neppure il gas e la luce nell'ultima settimana di permanenza nella casa in cui lei da sola si è presa cura dell'anziano, la precaria con i capelli opachi il cui amore è così stanco, come lei, da non poter essere provato. Storie senza passi avanti, storie che non cambiano la vita degli individui descritti ma che tagliano l'anima di chi legge in tanti pezzi. Non c'è speranza nell'Italia di Menzani, ognuno fa il meno possibile per essere felice. Si sopravvive, a stento, in una vita che non dà ragioni per essere soddisfatti ma, soprattutto, per essere vivi.
Menzani scrive con essenzialità, senza fronzoli. Non cerca di essere umano, così come i suoi personaggi non hanno risvolti di ottimismo o di speranza. Sono quadri vuoti su una parete bianca, la cui muffa è già entrata nei polmoni dei lettori dalla prima pagina. Una drammatica Spoon River che scorre nascosta dai capannoni che infestano ogni chilometro della via Emilia, in decadenti caseggiati soffocati dal cemento e dagli svincoli autostradali.
Un mondo che è il nostro e allo stesso tempo è altro. Un mondo all’eccesso, in cui cose che conosciamo crescono enormemente e giganteggiano, accettate dai personaggi come normali, senza ribellioni o fughe. Perché il loro è un mondo gigante, invisibile, che sta dentro il nostro.
Menzani, architetto al suo esordio letterario, gioca con le forme e le costruzioni di vite precarie in bilico su precari rapporti: con il denaro e con le persone che creano le reti delle nostre esistenze. Puzzle che si combinano tra di loro, emozioni che si assomigliano nella devianza che si accompagna a una opaca serenità, solitudini di linee arrugginite dal tempo, dalla mancanza di affetto, dalla perdita di certezza.
Un esordio affilato, senza scampo.
(recensione di Antonella Gigantino, su Scenecontemporanee.it).
Grazie.

mercoledì 18 dicembre 2013

DECLINO

Non credo ci siano molti dubbi sul fatto che il mondo occidentale si affanni a rimodularsi, a tappare paurose falle sociali, a cercare modelli che non siano già stati usurati o abiurati. Alcuni scrittori, per vie dirette oppure per allegoriche scorciatoie, riescono a entrare nell’occhio dei vari tifoni internazionali, senza dimenticarsi che lo sbalordimento, o lo sbandamento, da tempesta riguarda l’intero pianeta. In fondo i grandi flussi migratori si basano quasi sempre sull’illusione che esistano da qualche parte le cosiddette isole felici. Un ancora giovane architetto-narratore di Piacenza, Giovanni Battista Menzani, ha scombussolato il vecchio, e un po’ ingessato, canone narrativo, e ha scritto per LiberAria (vivace e attenta casa editrice di Bari) una serie di racconti (L’odore della plastica bruciata, 164 pagine, 12 euro) che scandagliano, fino a giungere al surreale, la solitudine, la resa, il precoce invecchiamento dei singoli, oppure arene sulle quali danzano macabri spettri di un futuro immaginato e che a immaginarlo fa rabbrividire. Nel racconto intitolato A stomaco vuoto, Menzani, sempre modulando una scrittura che è molto vicina alla sceneggiatura, descrive una insegnante quarantenne, dai capelli ingrigiti, che dorme (male) solo dopo aver ingurgitato pastiglie. Vive in solitudine. Ricorda di aver stretto una tenera amicizia con un collega, il quale, dopo una sua esitazione, si alzò dalla panchina accampando una scusa lasciandola piangere, lì, per tutta la notte. L’insegnante è ancora precaria, e i precari per l’assegnazione di una cattedra devono entrare in uno stanzone a metà tra la bolgia e una sala-Bingo. Le emozioni, sue e di tutti gli altri, non sono indirizzate verso l’alto, semmai si attorcigliano attorno a un ennesimo rinvio senza che per questo ci siano movimenti di nuvole gioiose all’orizzonte. L’insegnante aspetta ore e ore, poi la chiamano e lei, inzuppata di sudore, ha finalmente il suo posticino in periferia, tra alunni che insultano e volgarizzano tutto, proprio tutto. Nel racconto Un brutto quarto d’ora un ragazzo, pur laureato e con specializzazione, tira a campare facendo l’intrattenitore alle feste organizzate per i bambini. Piccoli giochi, sorprese poco apprezzate, fiacchi sguardi del pubblico (giovanissimi e genitori: uniti da un malcelato disprezzo). Finché il protagonista, che ha sempre detestato i compleanni, a cominciare dal suo che fissò nella sua mente l’indifferenza del padre, si trova invischiato in una scena da rapina. Scombussolamento generale, paura. Paura anche sua. Nessuno l’aveva avvertito. È, ancora una volta, al margine di un mondo al margine.
Il racconto che chiude la racconta di Menzani, il cui titolo è lo stesso della collezione di queste prose brevi e oggettivamente nevrotiche, descrive una specie di stadio. Si vendono, all’entrata, cartoline che ritraggono uomini e donne «nell’atto del morire». Padre, madre e due figli entrano, e si dispongono su seggiole «su più file, ad assistere in religioso silenzio. Nessun cenno di compassione». Un dubbio: ci sarà il Ministro per la Vendetta del Popolo. Pare di no, si sussurra in giro. Uno dopo l’altro salgono sul palco i colpevoli di reati. Svariati reati. Alcuni efferati. «Mai visto un uomo morire» pensa uno dei figli, il cui padre, che a casa ha abbattuto l’esitazione della moglie, è eccitatissimo e convintissimo che quel circo della morte autorizzata sia educativo, fortificante. Peccato che i suoi ragazzi, dopo la prima morte in diretta, vadano nei bagni a vomitare. I sussulti finali dei predestinati sono più o meno lunghi, a seconda di come resistono alle scariche elettriche (anche 2000 volt). Il circo della giustizia sommaria che assomiglia a un centro commerciale si riempie di puzza di plastica bruciata. Un uomo dalla pelle scura si contorce, impiega tanto a tirare le cuoia. Eppoi la sorpresa: si fa vedere il Ministro per la Vendetta del Popolo, «accolto da un’ovazione». Ringrazia tutti, come si fa al Festival di Sanremo. Ultima frase del suo intervento: «Ringrazio Dio». Nessuno ha modo di contestare o riflettere sulle colpe. Si gridano vari “Amen”. E basta. E quel ragazzo appena diciottenne chiamato a morire bruciato che avrà mai fatto? L’organizzazione fornisce sempre una spiegazione: «Non è proprio uno stinco di santo… è reo confesso di un numero imprecisato di anziane signore benestanti». I bambini, uno dei quali orina in piedi per il ribrezzo e il terrore, di quella futuribile famiglia hanno dato segni di insofferenza. Così pensa il padre, che esce dallo stadio scuro in volto: «Non ne posso più di voi due», sbraita. «Siete proprio due bambini disobbedienti».
Pier Mario Fasanotti, da "Succede oggi", 17 dicembre 2013

martedì 3 dicembre 2013

TROVARSI IN MEZZO A BURROUGHS E GINSBERG

(da "Il Fatto quotidiano". edizione online, 01.12.2013)
Monumentale, mozzafiato, denso, caleidoscopico. Questo e molto altro è Sunnyside, il voluminoso romanzo dello scrittore statunitense Glen David Gold (tradotto da Daniela Liucci e pubblicato in Italia da LiberAria). Il libro si apre su una fredda giornata d’inverno del 1916: una come molte altre, se non fosse che in questa il famoso attore Charlie Chaplin viene avvistato in più di ottocento posti simultaneamente. La successiva e straordinaria delusione collettiva, suscitata dalla scoperta che si tratta solo di presunte, dunque false, apparizioni, legherà per sempre il destino di tre uomini ignoti l’uno all’altro: Leland Wheeler, il figlio dell’ultima (e peggiore) star del Wild West, che scoprirà un amore inaspettato sui campi di battaglia francesi; Hugo Black, arruolato per combattere sotto il comando del generale Edmund Ironside nella spedizione senza speranza contro i bolscevichi; infine lo stesso Chaplin, che sarà alle prese con una serie di infinite complicazioni: i magnati degli studios che metteranno in dubbio il suo patriottismo, il suo cuore irrequieto e, cosa ancor più minacciosa, la propria madre. La narrazione di Glen David Gold è ricca e vasta, tanto quanto l’ambientazione e l’elenco dei personaggi sono arricchiti da una lista strabiliante di persone vere e inventate: Mary Pickford, Douglas Fairbanks, Adolph Zukor, la prima moglie bambina di Chaplin, una scout ladra, il segretario del tesoro, uno studioso di cinema innamorato, tre principesse russe, una quantità industriale di fan e perfino il famoso cane Rin Tin Tin. Leggero ma sempre intenso, coinvolgente nella trama e strabiliante nello stile, Sunnyside è un romanzo ammaliante che ci racconta i sogni, l’ambizione e l’alba dell’epoca moderna.
Sempre per LiberAria è uscito un testo, evocativo e intenso, dell’architetto piacentino Giovanni Battista Menzani: L’odore della plastica bruciata. Tredici racconti conditi di humor allucinato e grottesco. Un’immensa periferia globale e stereotipata fatta di svincoli autostradali, capannoni prefabbricati, outlet di cartapesta e cartelloni pubblicitari. Un paesaggio scorticato, popolato da persone disilluse, incattivite, apparentemente senza prospettive in un contesto sociale caratterizzato da una pesante crisi economica. Cartoline dall’inferno spedite ai lettori. Un’Italia letta e scritta attraverso una lente di ingrandimento deformante dove gli unici sentimenti ancora possibili sono la paura e la conseguente rassegnazione alla pena di vivere in un mondo votato all’eccesso e privo della quotidianità rassicurante ormai ingoiata dai nuovi mostri: esseri senza ribellione e senza via di fuga.
Uno stile secco e diretto, senza fronzoli quello di Nuccio Franco, autore de Il sogno di Safiyya (Arkadia Editore), romanzo che nasce fra le ceneri della Bosnia violentata dalla guerra fratricida per giungere fino al villaggio di Nevè Shalom, un’oasi di pace dove musulmani, ebrei e cristiani convivono in perfetta armonia. Il libro narra la storia del reporter Jan, nella mente esso ha il sorriso di Youssuf e gli occhi della figlia Safiyya, che ha lasciato in Italia prima di partire come cronista. Tornato dai Balcani, abbandonato lo scenario truculento di Sarajevo, Jan deciderà di dare una svolta alla sua vita e convincere Safiyya a seguirlo alla ricerca di una terra in cui ogni essere umano è uguale, dove non si muore perché si appartiene alla fede sbagliata o si possiede un colore di pelle diverso.
Portato sul grande schermo da John Krokidas con il titolo Giovani ribelli-Kill your darlings, è stata pubblicato dal Saggiatore l’opera che ha ispirato il film, Bloodsong, di Allen Ginsberg (a cura di James Grauerholz). Nel 1943 alla Columbia University di New York nacque fra tre giovani un’amicizia che avrebbe dato vita al cuore del movimento beat: in quell’anno Allen Ginsberg, Jack Kerouac e William Burroughs frequentavano l’istituto insieme a Lucien Carr, lo studente che li aveva fatti incontrare. Allievo eccezionale dalla mente fertile, sognatore e amante della notte, Carr era il collante che teneva insieme i tre giovani artisti. L’anno successivo Carr venne accusato dell’omicidio di David Kammerer, amico di infanzia di Burroughs e rampollo di una ricca famiglia di St. Louis. Questo omicidio, per il quale Kerouac e Burroughs furono arrestati come testimoni e possibili complici, colpì terribilmente l’immaginazione di Ginsberg, che decise di trarne un romanzo, Bloodsong, rimasto incompiuto. Questo volume raccoglie una scelta di brani dai diari giovanili di Ginsberg, soffermandosi in particolare sul suo rapporto con Carr, sull’omicidio e sulle conseguenze che questo ebbe sui frammenti dell’opera incompiuta.
Può una religione diventare fonte di odio e di morte? Esiste, tra le varie fedi della terra, una più propensa rispetto ad altre a connotarsi in maniera fondamentalista? Se lo chiede, e cerca di rispondere, lo psicologo Christian Zanon in un saggio di facile e veloce lettura, Fondamentalismi. Le chiavi psicologiche per capire l’integralismo religioso (Arkadia Editore). L’autore prende in esame le più grandi religioni del pianeta interpretandole dal punto di vista psicologico per comprendere quali siano i meccanismi di trasformazione e come un messaggio, che dovrebbe essere di pace e amore, possa deviare dal suo cammino e produrre effetti a volte devastanti. Basandosi sulle vicende internazionali degli ultimi decenni, prendendo spunto dalle lunghe interviste con esponenti di diversa matrice religiosa, Zanon ricostruisce un quadro lineare ed esaustivo, arrivando alla conclusione che nessuna fede, di per sé, è fondamentalista. Sono gli uomini che vi aderiscono a determinarne sempre, per i più svariati motivi, le derive che conducono a massacri, guerre, attentati, discriminazioni, persecuzioni.
Di solito non mi occupo di poesia, ma Mattanza dell’incanto (Marco Saya Editore), di Nicola Vacca, una delle voci più originali, attente, indipendenti e coraggiose del panorama intellettuale italiano, va oltre il lirismo per imporsi al lettore come uno spaccato onesto e limpido della condizione attuale del Belpaese. Poesia civile di chiara indignazione ideologica e culturale quella dello scrittore, critico letterario e opinionista gioiese. Nella prefazione, Gian Ruggero Manzoni scrive: “Nicola Vacca indica, in questo suo ultimo libro, oltre che le cause, anche i possibili effetti del crollo, affidandosi alla poesia, la quale ritorna a diventare ‘metodo sociale di lotta’ al fine di sensibilizzare (accusare) poi di spronare una possibile reazione a uno stato, non accettato, putrescente e cancrenoso”. Un antidoto al nichilismo, una scossa per i sensi e per le atrofizzazioni mentali che investono tutti. “Il mondo brucia / anche se non ci sono fuochi / che accendono l’oscurità”. Da leggere e rileggere.
(Lorenzo Mazzoni)