lunedì 26 gennaio 2009

"Sentìi fin da subito che il mio lavoro doveva camminare su due binari: l'ansia per una giustizia sociale che ancora non esiste e l'illusione di poter partecipare, in qualche modo, a un cambiamento del mondo. Quest'ultima si è sbriciolata presto, la prima, invece, rimane".

In attesa che anche Piacenza ricordi Fabrizio De Andrè dedicandogli una strada – il sindaco Roberto Reggi si è detto d’accordo con noi su questa ipotesi – diverse sono state le celebrazioni, in tutto il paese, indette in occasione del decimo anniversario della morte del più grande dei nostri cantautori.
Genova, la sua amatissima città, gli dedica fino al 3 maggio un’interessante mostra (http://www.palazzoducale.genova.it/deandre/index.htm) - curata da Vittorio Bo, Guido Harari, Pepi Morgia, Studio Azzurro e dall’onnipresente Vincenzo Mollica – purtroppo relegata negli spazi un po’ angusti dello scantinato del prestigioso Palazzo Ducale: il piano nobile ospita infatti una retrospettiva sull’artista italo-argentino Lucio Fontana, ed è possibile acquistare un biglietto cumulativo e visitare le due mostre con soli dieci euro.

La mostra cerca – per usare le parole di Studio Azzurro - di ricomporre i frammenti di un pensiero complesso, di rimappare un territorio creativo senza cedere a una facile celebrazione.
Il percorso espositivo – il cui allestimento e grafica sono stati stati realizzati dallo studio di architettura Sp10 - si snoda principalmente attraverso grandi pannelli traslucidi, sui quali vengono retroproiettate immagini, interviste e video d’annata (nella maggior parte dei casi non si tratta, tuttavia, di materiale inedito), e attraverso tavoli interattivi che consentono ai visitatori di scegliere i dischi o le canzoni delle quali vogliono conoscere la genesi, il testo, l’analisi critica e i commenti dello stesso De Andrè o dei suoi più stretti collaboratori (esiste persino la possibilità di creare un proprio personale tarocco ispirato alla sua musica).
A questo proposito, si sconsiglia vivamente di visitare la mostra di domenica, quando l’affollamento e la grande confusione finiscono inevitabilmente per disturbare la corretta percezione dei suoni e delle immagini.

Ne scaturisce, così, una narrazione multimediale, un vero e prorpio “ipertesto”, composto da suggestioni visive e sonore, che racconta in maniera intima, sobria e tutt’altro che spettacolare, le varie fasi della vicenda aritistica e umana di Fabrizio De Andrè.
Racconta degli inizi, piuttosto stentati (“La musica? Mi sedusse un po’ alla volta, come una troia prudente”), ovvero di quando Fabrizio era costretto a lavorare come contabile nell’azienda del ricco padre per sbarcare il lunario, di come si potè licenziare solo in seguito ai proventi dei diritti d’autore derivati dalla cover che Mina fece de La canzone di Marinella, nel gennaio del 1968: si pensi che la sua prima canzone (La ballata del Miche) è del 1960, mentre il suo primo 45 giri (Nuvole barocche/E fu la notte) è dell’anno successivo.
Racconta dei grandi amori musicali di De Andrè: in primo luogo gli chansonnier maledetti d’Oltralpe (Brel e Brassens), e poi Tenco, Dylan e Cohen; in particolare, del cantautore canadese egli tradurrà tre bellissimi pezzi: Suzanne, Nancy e Joan Of Arc.
Racconta del terribile periodo di prigionia in Sardegna, sul finire degli anni Settanta, delle sue paure da palcoscenico - superate grazie all’aiuto di Dori Ghezzi, sua compagna per oltre 25 anni - o dei tumulti post-Sessantotto con il suo primo concept album (Storia di un impiegato, 1973), della sua adesione al pensiero anarchico, del suo amore per Genova, per i suoi vicoli e i suoi bordelli frequentati da perdenti e tiratardi, da quegli ultimi e da quegli esclusi che popoleranno il suo cosmo musicale (“Ho tentato un affresco sulla miseria dell’uomo che è un invito alla pietà, alla fraternità”).
Racconta, inoltre, aneddoti di vario tipo.
Ad esempio, su quali fossero le canzoni che Fabrizio considerava le più belle tra quelle da lui scritte: Amico fragile (“è un pezzo della mia vita: ho raccontato un artista che sa di essere utile agli altri, eppure fallisce il suo compito quando la gente non si rende più conto di avere bisogno degli artisti”) e Il testamento di Tito (“da un’idea di come potrebbbero cambiare le leggi se fossero scritte da chi il potere non ce l’ha”) . Quest’ultima si è classificata terza in un sondaggio di Corriere.it, per il quale il brano più votato è invece risultato La canzone dell'amore perduto, e al secondo posto La guerra di Piero. Ma in questo caso, incredibilmente, Amico fragile non era nelle nomination, al pari di altri pezzi cult – almeno per il sottoscritto - come Giugno 73, Jamin-A, Il suonatore Jones e Rimini (ma la scelta delle 15 papabili era assai difficile, bisogna ammetterlo).

Numerosi sono poi i contributi in video degli amici e soprattutto dei collaboratori di Fabrizio, che era, su questo non esiste alcun dubbio, assai bravo nello sceglierli (una volta disse, con grande umiltà e anche lucidità, che amava cambiarli per non correre il rischio di ridursi a cantare sempre la stessa canzone). In alcuni casi a scoprirli. Non ci sono stati infatti solo la P.F.M., Francesco De Gregori e Ivano Fossati (Anime salve, 1996), ma anche un giovanissimo Nicola Piovani (futuro premio Oscar) per le musiche di Non al denaro non all’amore né al cielo (1971), il disco ispirato all’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, oppure lo sconosciuto cantautore veneto Massimo Bubola (Rimini, 1978 - L’indiano, 1981). Persino Mauro Pagani, il co-responsabile di quell’autentico e inarrivabile capolavoro che rimane Creuza de Ma(1984) - David Byrne, leader dei Talking Heads, arrivò a inserirlo nei cinque dischi più importanati del decennio - non era certo una star da classifica o da show del sabato pomeriggio televisivo.

Sulle pareti, nere come il carbone, sono infine trascritti gli spartiti e i testi originali di Fabrizio De Andrè.
In qualche caso si tratta di bozze, di semplici tracce di lavoro, di spunti iniziali.
O anche di correzioni, di ripensamenti e di riscritture continue, come nel caso de La domenica delle salme, una delle sue composizioni più apocalittiche e anche più sofferte (per la quale girò il suo unico videoclip, se di videoclip si può parlare, firmato da Gabriele Salvatores), o di Via della povertà, che tradusse in collaborazione con De Gregori dalla mitica Desolation row di Bob Dylan (in alcuni appunti compare persino il titolo provvisorio Via della dittatura) o infine di Smisurata preghiera, una geniale combinazione di parole e di frasi prese in prestito dalla saga di Maqroll il Gabbiere, ovvero da un trittico di romanzi dello scrittore colombiano Alvaro Mutis, che De Andrè ebbe la fortuna di conoscere negli anni Novanta (ne esiste una versione in spagnolo che fu inserita nella colonna sonora del film Ilona viene con la pioggia).

In ogni caso, si rimane estasiati e addirittura sconcertati dalla bellezza senza tempo di alcuni versi.
Per citare a caso:
“Hanno preso il nostro cuore/sotto una coperta scura”.
“Qual è la direzione/nessuno me lo imparò”.
“Mille anni al mondo mille ancora/che bell’inganno sei anima mia”.
“Ora alzatevi spose bambine/ ch’è venuto il tempo di andare”.
“Evaporato in una nuvola rossa/in una delle molte feritoie della notte”.

domenica 18 gennaio 2009

Ritorno al Penice, 02


Avevamo appena preso possesso delle nostre squallide camere, ancora non avevamo iniziato a svuotare le nostre valigie, che il mitico Chio**** ne aveva già combinata una delle sue.
La prima di una lunga serie, qui in settimana bianca, quella lunga serie che lo proietterà di diritto nell'Olimpo dei migliori compagni di classe di sempre.
La temperatura era sotto zero, e sulle balconate in tavole di legno erano appese gigantesche stallattiti di ghiaccio: alcune erano lunghe quasi mezzo metro.
- Non toccate le stalattiti!, aveva appena finito di dire la maestra, - potreste farvi male!, che ecco venirle incontro dal piano di sopra un altro nostro compagno, In***, in lacrime, con una mano tutta sanguinante. Chio**** gli aveva letteralmente aperto la mano durante un duello di fioretto con due stalattiti particolarmente appuntite.
Era il numero uno, Chio****.
Fu uno dei primi esempi, un esempio quasi ante litteram, di bullismo nella scuola pubblica, anche se in questo caso stiamo parlando un bullismo divertente, pecoreccio, tutto sommato innocuo (a parte la mano sanguinante di In***, si intende). Figlio di un poliziotto emigrato a Piacenza da chissà quale città del sud, abitava in quelle case popolari anni Trenta che ci sono all'inizio del Facsal.
Per tutte le elementari, fu il nostro indiscusso leader.
Tanto per dirne una, era lui il nostro capitano al torneo di Sant'Anna (negli annali rimane un suo clamoroso rigore sprecato, scivolando su una pozzanghera durante la fase di rincorsa, proprio nel match decisivo contro la squadra di Gigi la Puzza).
Nemmeno il fatto che a scuola fosse una mezza sega, e anzi una vera e propria sega - all'esame di quinta aveva portato il Veneto: la commissione, con davanti un'enorme cartina geografica, gli chiese di indicare la posizione del Veneto, e lui partì dalla Sicilia, poi la Puglia, ecc... per poi arrivare al Veneto dopo un'interminabile e comico giro d'Italia - poteva intaccare il suo innegabile e inarrivabile carisma. Anzi, ne accresceva l'aura di compagno maledetto.

La prima lezione di sci gli causò i primi problemi seri. Perse uno sci a metà pomeriggio, durante una delle sue ultime goffe discese, e per recuperarlo - all'epoca, stiamo parlando di metà anni '70, gli sci non montavano quei piccoli freni a lato degli attacchi - decise di buttarsi giù per una pista ripida con uno sci solo. Si smarrì nel bosco, tanto che fu necessario andarlo a riprendere con un gatto delle nevi, e rientrò in albergo quando tutti noi stavamo già cenando.

Un'altra sera mandò nel panico la maestra. Era già mezzanotte, ormai, e come di consueto lei aveva fatto una ricognizione di tutte le stanze per sincerarsi che fosse tutto a posto, e che non mancasse nessuno, ma Chio**** non c'era. I suoi compagni di stanza, quella sera, non l'evevano visto proprio. Fummo svegliati tutti, e a tutti ci venne chiesto dov'era Chio****, ma nessuno lo sapeva. La maestra era disperata.
Chio**** era scappato.
Magari stava cercando di tornare a casa, nel gelo di una notte d'inverno, solo e sperduto nella notte.
Sconvolta, la maestra decise allora di andare a chiamare la polizia, o i carabinieri di Bobbio, qualcuno insomma, e intanto probabile che pensava: ma chi me lo fa fare di portare in settimana bianca queste piccole teste di cazzo?
Scese nella hall dell'albergo per chiedere un telefono. Mentre apettava qualcuno del personale, gettò un rapido sguardo nella saletta del bar. Che mi venga un colpo se quello seduto al tavolo con i maestri di sci non è lui, pensò, se quel piccolo bastardo che canta a squarciagola mentre gioca a carte e beve delle birre al tavolo dei maestri di sci, non è lui, non è Chio****.
Quandò entrò nella saletta per andare a prenderlo per un'orecchio e trascinarlo nella sua stanza, Chio**** non fece una piega, come se trovarsi lì fosse del tutto normale, anzi si lagnò un poco per il fatto che stava vincendo dei soldi.
Poteva fargli finire almeno la mano, cazzo.

Ma il suo capolavoro fu certamente quello della gara di pupazzi di neve.
Maschi contro femmine.
Chi costruiva il pupazzo di neve più bello vinceva.
Occorre qui rammentare che, in seconda elementare, a queste gare ci si teneva da Dio. Dovevamo farglela vedere, a quelle sgualdrinelle. Noi maschi stavamo dunque lavorando alacremente e il nostro pupazzo prendeva forma. Ma le femmine non demordevano, anche grazie all'aiuto - poco sportivo, a nostro modo di vedere - della maestra stessa. Allora ci fu una pausa di riflessione.
- Dobbiamo costruirlo ancora più grande, - disse qualcuno.
- Serve ancora della neve, - disse qualcun'altro.
- Ci penso io!, - proclamò solennemente Chio****.
Il nostro carismatico leader si stava avvicinando al pupazzo con un bidone della spazzatura tra le mani. Ovviamente, era appena nevicato, per cui la sommità del bidone era ricoperta da uno strato di neve fresca.
Tutto si svolse così rapidamente, non ci fu il tempo per fermarlo.
Ricordo perfettamente quella scena, è come se si svolgesse di nuovo qui davanti a me, al rallenty.
Lui che si trascina dietro, con grande fatica, il bidone metallico.
Lui che si accosta al pupazzo di neve, incurante dei richiami di alcuni di noi che già presagivano il peggio.
Lui che raccoglie le sue forze e che solleva il bidone, con il viso reso paonazzo dallo sforzo.
Lui che rovescia il contenuto del bidone stesso - un sottile strato di neve fresca, e poi: cartacce, lattine di birra, pacchetti di patatine, kleenex accartocciati, bucce di arance, rifiuti domestici di vario tipo - sul pupazzo di neve della squadra dei maschi.

Inutile stare qui a raccontarvi chi ha vinto la gara.

sabato 10 gennaio 2009

Ritorno al Penice, 01

E' il giorno di Santo Stefano, e dobbiamo farci trovare già pronti sulle piste, alle dieci in punto. Non è facile svegliare Agnese, convincerla a vestirsi in fretta con la calzamaglia rossa e la tuta imbottita, talmente gonfia da farla sembrare un pagliaccio del circo, impedirle la consueta razione mattiniera di cartoni e, con il biberon - al biberon non ci rinuncia, per nessuna ragione al mondo - ancora pieno a metà, farla salire in macchina per dirigerci verso le vette innevate del Penice. Mentre fuori, quasi, è ancora buio.
E' la sua prima lezione di sci.
Per questo riesco nella difficile impresa, Agnese è molto motivata, da quando ha visto sfrecciare Anna e Bianca qualche domenica prima si è messa in testa che anche lei deve andarci, sugli sci.
L'appuntamento è fissato al bar Travo verso le nove meno un quarto, ma di Anguilla e degli altri amici non c'è traccia. Verso le nove, ormai spazientito, decido di cominciare ad avviarmi. Chiamo gli altri, io intanto vado, dico, ci vediamo là.

Tragico errore tattico.

Fino a Bobbio, tutto bene. E' sui primi tornanti della strada che conduce al passo che sorgono i primi problemi. La temperatura scende rapidamente sotto zero, e cominciano a scendere i fiocchi di neve, leggerissimi, che fluttuano nell'aria come fossero piume di un uccello. La strada in pochi istanti si imbianca.
Procedo a velocità assai ridotta. Non ho le gomme da neve e, malgrado si tratti di pneumatici quasi nuovi, sento l'auto sbandare pericolosamente. Quando ormai mi sembra di aver scampato il pericolo, la Multipla davanti a noi - la fottuta Multipla davanti a noi - improvvisamente si inchioda e non riesce più a ripartire.
Merda.
Fottuta Multipla del cazzo.

Ovviamente, non riesco a scartarla di lato, sarebbe stata una manovra un pò azzardata considerata la mia tenuta di strada alquanto approssimativa, e così sono costretto a fermarmi anch'io. Faccio per ripartire ma niente, le gomme slittano sulla neve e la macchina scivola inesorabilmente all'indietro. Caccio due madonne, ma solo due perchè in fin dei conti è sempre Santo Stefano, e scendo dalla Scenìc per recuperare le catene dal baule. Non muoverti di qui, dico ad Agnese, che mi osserva divertita dal finestrino. Sotto un'abbondante nevicata, sdraiato sul piumino disposto sulla strada innevata, cerco di montarle come riesco: trattasi infatti di oggetti diabolici, se trovo chi le ha inventate me lo inculo, lo giuro.
Una decina di minuti dopo sfreccia Anguilla a tutta velocità, non potevo fermarmi, mi dirà più tardi, altrimenti non sarei più ripartito nemmeno io.
Sto per finire il mio patetico lavoretto che si ferma un fuoristrada grigio in mio soccorso.
Scende un ragazzo che mi avvicina e mi fa: hai bisogno di aiuto?
Mentre mi osserva negli ultimi dettagli, scrolla la testa e mi fa: perchè monti le catene di dietro?
Non vanno davanti?

Ovvero: ho montato le catene sulle ruote posteriori, sulla mia Scenìc, che notoriamente ha la trazione anteriore, come quasi la totalità delle auto in commercio.

Questo per dirvi che razza di stronzo sono.

Allora smonto le catene con freddezza inusuale, con gesti quasi automatici. Anzi per la verità ne smonto solo una, la rimonto in tutta fretta sulla ruota anteriore sinistra, e poi controllo l'orologio: cazzo, sono quasi le dieci. E' tardissimo. Perderemo la lezione. Così decido di imbarcarmi sugli ultimi tornanti con una catena davanti e una catena dietro, dimenticando persino la scatola che le conteneva sul ciglio della strada. Miracolosamente - qualcuno deve avermi sentito, prima - arriviamo al passo, con la Scenìc che sculetta visibilmente a ogni curva, non prima di aver perso una delle due catene in prossimità dell'ultima curva a gomito.
Quando scendo dall'auto, una volta arrivati, trovo gli amici ad aspettarmi con la faccia incredula.
Devo avere veramente un brutto aspetto, con la giacca a vento sporca di fango e le mani che quasi sanguinano per il gelo, se decidono di non infierire e di partire alla ricerca di catena e scatola e di tutto ciò che ho disseminato sulla strada, novello Pollicino.
(Per la cronaca: anche l'altra catena è stata montata da schifo e si è incastrata dietro al cerchione in lega, tanto che è stato necessario smontare addirittura la gomma per recuperarla...)

Mi rimane poco tempo, e quindi porto Agnese - che non ha mai smesso di dire: che bravo Papà, siamo arrivati fino in cima; bravo un cazzo, avrei voluto dirle - giù al noleggio, le allaccio gli scarponi, le faccio regolare gli attacchi e poi l'accompagno sulle piste. Lei sembra un soldatino. Nemmeno un lamento, che so: ho i piedi gelati, oppure ho gli scarponi troppo stretti, roba così.
Eppure c'è un freddo pungente.
Deve aver capito che non è giornata.

Poi torno sul piazzale ghiacciato, dove ad aspettarmi ci sono gli amici che nel frattempo mi hanno sistemato la Scenìc. Mi guardano con le loro facce da cazzoni. Anguilla mi fa: io non dico niente. Ridacchia sommessamente, il bastardo. E' chiaro che non vede l'ora di sputtanarmi a destra e manca. Insiste: il mio silenzio si può comprare. Tutto si può comprare, a questo mondo.
Allora entriamo nel rifugio e offro a tutti un punch caldo.
Non basterà, tra poche ore lo saprà tutto il paese.
Mentre sono al bancone mi avvicina un tipo anziano e mi dice, passavo di lì e ti ho visto montare le catene di dietro, ma come si fa, Cristo, a montare le catene di dietro?
Gli rispondo: prima di tutto sono un coglione.
E poi, non penso mai a quello che faccio.
E lui, pensieroso: la tua sincerità è da apprezzare.
Sorrido, e faccio il gesto di brindare verso la sua direzione.

Poi scendo di nuovo sulla pista, per ammirare il coraggio di quella piccola incosciente che già si vuole buttare giù sulla discesa.
Dopo un pò che la osservo, mentre risale con la manovia, lei se ne accorge e mi saluta con la manina guantata.
Mi emoziono, non posso farci niente.
Guardo nel cielo la neve che scende e poi rido, cos'altro devo fare.

mercoledì 7 gennaio 2009

Olio di gomito

Al ritorno è tutto come prima: sale grosso, pala e olio di gomito.
Come dire, il nuovo anno parte alla grande...
C'è voluta più di un'ora, ieri pomeriggio, per issare quel vecchio bestione dell'America sullo stradello di casa, dieci tonnellate di fottuta vetroresina. Fortuna che mi ha aiutato il Gio.
E giovedì scorso era andata anche a peggio, con la batteria a terra e il gasolio che si era ghiacciato nel serbatoio. Siamo riusciti a partire solo dopo l'intervento provvidenziale del Carlino, che sant'uomo. Carlino è l'elettrauto di Rivergaro.
Bisognerebbe fargli un monumento nella piazza pubblica al Carlino, giù a Rivergaro. Mi ha detto: se succede ancora, controlli il filtro del carburante, lo sa dov'è, vero? Gli ho detto: non solo non so dov'è, non so nemmeno cosa sia. Se ne è andato solo dopo essersi sincerato che non avrei toccato nulla senza il suo permesso. Mi ha prestato persino una batteria di scorta e i cavi per il collegamento, perchè i miei - non si offenda, mi ha detto il Carlino - erano veramente dei cavi grammi.
E ho dovuto insistere per pagarlo.
Cazzo aspettano a farglielo davvero, quel monumento?

Stamattina, c'è da rifare tutto daccapo.
Saranno almeno quaranta-cinquanta centimetri, alla faccia di PiacenzaSera che si ostina a dire che è peggio in pianura che in collina... (scherzo, amici)
E quindi: sale grosso, pala e olio di gomito.

E' tutto così spettacolare, così magico, con la neve.
Oggi, mentre mangiavamo, un piccolo pettirosso è venuto a spigolare le briciole di pane secco che Sandra aveva disseminato sotto il portico.
Bisogna sapersi ancora commuovere, ogni tanto.

Peccato non ci sia il vecchio Oscar, lui la neve se la gode di brutto.
Ancora non sono riuscito a recuperarlo, le strade sono impraticabili.
Quest'anno sono stato costretto a portarlo in una di quelle tristi pensioni per cani, un bel posto, per carità, uno chalet in legno tra le colline imbiancate sopra Tollara. Non si è sistemato male, ha la sua gabbia - ampia e confortevole, recita il depliant - e una cuccia riscaldata con stufetta elettrica. E un grande campo per sgranchirsi le gambe almeno tre-quattro volte al giorno, così mi hanno giurato. Ci sono anche un cucciolo di samoyedo e un vecchio spinone.
Lasciarlo lì mi ha messo malinconia, sul serio, ma anche lui se le va a cercare, quel vecchio bastardo, ha combinato guai ovunque, e adesso non lo vuole più nessuno: una volta litiga con il cane del vicino e gli fa uno sbrego di venti centimetri sul muso, l'altra riduce in polpette un gatto randagio, l'altra ancora abbaia tutta la notte disturbando il vicinato.
E' meglio se metti la testa a posto, caro il mio bastardo, così non si può andare aventi.