domenica 27 marzo 2011

Wow


E’ ancora presto per capire se sboccierà una nuova scena italiana – band emergenti quali Il Teatro degli Orrori, Il Pan del Diavolo, Bologna Violenta, Le Luci della Centrale Elettrica, Bachi da Pietra devono infatti mantenere le promesse – e allora nel frattempo volgiamo lo sguardo sulle vecchie conoscenze dell’(ex) Belpaese.
Detto di Giovanardi e della Donà, meriteranno attenzione i nuovi lavori di Paolo Benvegnu’, ex Scisma (Hermann), di Marco Parente, ex batterista dei C.S.I. (La Riproduzione Dei Fiori) e quello – da quello che si legge, insolitamente ruvido - dei napoletani 24 Grana (La Stessa Barca), che sono volati oltreoceano per farsi produrre da Steve Albini.

E ancora.
Irrompono nelle charts nostrane i Subsonica.
La band torinese giunge al sesto album - intitolato Eden (la danza di un mondo perfetto) e mixato presso le Officine Meccaniche di Mauro Pagani - e sbanca puntualmente il botteghino con una dance elettronica intelligente e ruffiana.
Tutto previsto: il livello è mediamente discreto, con punte di eccellenza (la title-track, anche primo singolo, che sembra tratto da Kid A, Serpente, L’Angelo) e con melodie troppo scontate (Il Diluvio, Sul Sole, Quando, La Funzione, quest’ultima tra Tozzi e Camerini).
A livello di liriche (“Contro la ginnastica dell’obbedienza” (…) ”Libera l’Italia subito/dal Prodotto Interno Lurido), la chicca è Benzina Ogoshi, nata attraverso lo scambio di messaggi con i fan e ironicamente autocritica: “Non siete riusciti a bissare/Microchip Emozionale”.

A sorprendere sono invece i Verdena, recentemente di passaggio al Fillmore, di nuovo in auge con un cartellone di tutto rispetto.
I ragazzi di Albino sono finalmente diventati grandi: superata ormai la fase di sterile copiatura del modello Sonic Youth, bissano il passo in avanti del penultimo Requiem dando alle stampe con Wow un mastodontico lavoro composto da ben 27 pezzi brevi e concisi, che tuttavia non annoia mai grazie a una notevole varietà compositiva e a continui cambiamenti di scena.

L’incipit è la beatlesiana Scegli me, poi c’è la wave di Loniterp (è l’anagramma di Interpol…), la ballata psycho-folk Per Sbaglio – con campanelli e coretti tipo Animal Collective e Panda Bear -, il rock spigoloso di Mi Coltivo, con un riff rubato ai Black Sabbath, la straordinaria Razzi Arpia Inferno e Fiamme – roba da Flaming Lips - e infine Adoratorio, uno strumentale quasi progressive.
Potremmo fermarci qui, ma c’è molto altro: le ballate acustiche Tu e Me ed E’ solo lunedì, poi Sorriso in Spiaggia Pt 1 e 2, lo spaghetti western di A Cappello, il countryfolk di Canzone Ostinata (Badly Drawn Boy), lo stoner granitico di Attonito e Lui Gareggia, il piano martellante stile Arcade Fire di Miglioramento e Rossella Roll Over, la coda ipnotica di Badea Blues, le psichedeliche Scarpe Volanti e Grattacielo.

Sarà che questi bergamaschi ci stanno simpatici (piu’ di Calderoli, sia detto) - li ricordiamo ormai anni fa alla Festa della Birra di Travo, dove ingannarono l’attesa del pomeriggio tirando due calci a un pallone nel campo adiacente al palco e mangiarono salamelle e spiedini con lo staff: nessun vezzo o atteggiamento da star – ma per noi questo Wow! è un gran disco.
Sarà difficile strappargli lo scettro di “Album italiano del 2011”.

giovedì 24 marzo 2011

martedì 22 marzo 2011

Fragola e cioccolato


C’era quello scrittore francese – Delerme mi pare si chiamasse – che ha venduto un pacco di copie del suo libro che semplicemente elencava i piccoli piaceri della vita, quelli a cui davvero non si può rinunciare.
Il primo sorso di birra, cose del genere.
Ebbene, venerdì scorso, ho pensato a lui e al suo libretto del cazzo quando, dopo essere passato a prendere mia figlia davanti a scuola, per la prima volta ci siamo fiondati – io e lei e una masnada di bambini chiassosi – nell’unica gelateria del paese, che ha aperto i battenti da pochi giorni dopo la pausa invernale.
Il sole del tardo pomeriggio ancora scaldava e si poteva stare in mezze maniche, e quindi abbiamo impilato i cappotti e i giubbotti sulle sedie di plastica bianca affiancate al muro coperto di muschio o appoggiati in terra vicino alla vetrina.
Dentro al negozio, ho convinto tutti quanti a prendere un cono di fragola e cioccolato.
E’ tradizione che il primo gelato della stagione debba essere fragola e cioccolato, ho detto ai bambini che mi guardavano increduli.
E’ una regola ormai consolidata.
(Non credevo ci cascassero così facilmente, erano già sul punto di cedere).
Infrangere la regola porta sfiga, ho aggiunto: non sia mai.
E così quei poveretti si sono presi un cono fragola e cioccolato, tutti, senza eccezioni, sotto lo sguardo pieno d’odio della gelataia per via che i cestelli degli altri gusti rimanevano immacolati.
Avrebbe voluto dirmi, e bravo il mio cretino, adesso a chi la do’ la zuppa inglese?
Al gatto?

Comunque: cos’era buono il mio cono fragola e cioccolato.
Me lo sono gustato passeggiando avanti e indietro sull’ampio marciapiede che fronteggia la provinciale, dove - appena accostato sul lato sbagliato della strada - era parcheggiato lo scuolabus del paese, un pulmino arancione, un Turbodaily tutto ammaccato e con i fari pieni di condensa e i tergicristalli senza spatole che quando piove bisogna andare a passo d’uomo e mettere fuori la testa dal finestrino. Sarà un Euro0, quel fottuto Turbodaily. Cazzo, quando parte sprigiona una nube tossica che è peggio della centrale di Fukushima.
L’autista – che poi è anche il cantoniere, e anche il necroforo, quando occorre - era dentro la gelateria, lui e il suo equipaggio: quattro o cinque bambini, tutti maschi, chissà se c’è un motivo che sono sempre tutti maschi quelli dello scuolabus. Ha ordinato un cono per ognuno di loro. Sbrigatevi a scegliere i gusti, ripeteva ad alta voce, visibilmente spazientito dalla lunga attesa. C’era un bimbo originario dell’Ecuador o giù di lì che non capiva la domanda della gelataia, che da qualche minuto gli stava chiedendo se voleva le praline colorate. Un bel bambino, con il viso tondo e una frangia così di capelli corvini. Suo fratello invece è un gigante, fa paura. Fa le medie ed è piu’ alto di me, non che io sia poi così alto, ma insomma. Porta i capelli lunghi, oltre le spalle, e, cazzo, sembra proprio l’indiano di Qualcuno volò sul nido del cuculo, quello che alla fine sradica il lavandino di marmo e lo scaglia contro le inferriate, le sfonda e infine si allontana dal manicomio. Le vuoi o no le praline colorate?, ha sbuffato l’autista. Poi si è avvicinato al banco e ha fatto per pagare. Sei gelati da un euro e mezzo per un totale di nove euro. Allontanandosi mi ha visto e si è accorto che lo stavo osservando e allora mi ha fatto, prendo cinque euro di straordinario per portare a casa questi piccoli bastardi e ne spendo quasi il doppio per pagargli il gelato.
Hai fatto un affare anche oggi, ho detto io con un sorriso compiaciuto.
Cazzo, ha risposto lui.
Poi mi ha schiacciato l’occhio e ha iniziato a richiamare i bambini, ricordando loro che dovevano muoversi, cazzo, erano già in ritardo di quindici minuti sulla tabella di marcia.
Avete finito o no?, ripeteva.
Uno di loro era ancora indietro con il suo gelato e ha fatto il gesto di salire sul bus, e allora l’autista si è incazzato sul serio e lo ha preso per un orecchio, delicatamente, però. Non puoi mangiare il gelato sul bus, gli ha detto. Fa già schifo così, ci manca solo che mi sporchi i sedili col tuo gelato. Infine ha aspettato che quell’altro finisse, ha caricato il suo equipaggio sul bus, ha salutato con un gesto della mano e poi ha ingranato la marcia verso le colline ricoperte di vigneti ancora spogli.
E io me ne sono restato in silenzio a finire il mio cono fragola e cioccolato.
Ancora più felice, però.

domenica 20 marzo 2011

COOL LONDON, 04






E’ come quando ti passa a trovare, dopo un sacco di tempo, un vecchio amico.
Lo fai entrare in casa, gli chiedi come va, lo fai accomodare sulla poltrona davanti al camino, gli offri un nocino e poi vi raccontate “dieci anni in poche frasi”: lei che ha lasciato lui, anzi, no, il contrario, lui che è in cassa integrazione, e suo figlio che cresce bene anzi è grasso come un maiale, ingurgita quelle maledette merendine dalla mattina alla sera.
Non vi vedete da anni, ma immediatamente si instaura un clima di complicità e di vicinanza, che è come se in tutto questo tempo aveste continuato ancora a frequentare il bar, ogni fottuta sera, come una volta.
La stessa cosa mi succede con questi due dischi.

Giovanardi è l’ex-cantante dei La Crus – storica band della grande stagione del rock indipendente italico (Afterhours, Marlene Kuntz, Almamegretta, CSI, ecc) e sigla con la quale ha partecipato all’ultimo Sanremo – e anche per lui il tempo è passato: non vi sarà certo sfuggita quella sorta di riporto dall’inquietante tinta Biscardiana, direi un RAL 2009, ad occhio. Questo nuovo lavoro ci è sembrato tutto sommato divertente, seppur non imprescindibile, e contiene, oltre alla già nota Io Confesso, brani orchestrali e musica leggera, oltre ad alcune cover dai mitici anni ’60, come direbbe Minà: Bang Bang (con Violante Placido) e Se Perdo Anche Te. La pecca è Neil Armstrong, dal testo esplicito (“può bastare un passo molto breve, per lasciare tutto alle tue spalle”) ma somigliante in modo imbarazzante a Bianca.

J. Mascis invece esibisce una strepitosa zazzera fluente e color grigio cenere, ed è il leader dei Dinosaur Jr, band campione del noise tornata lo scorso anno con il notevole Farm al livello dei primi anni ’90.
Several Shades Of Why è un disco acustico edito da Sub Pop, che va a colmare un vuoto incolmabile per tutti quelli che – come noi – hanno sempre sperato in un disco unplugged dei vecchi dinosauri e conferma la sua ritrovata vena compositiva.
Depurate dai consueti muri di chitarrone e da feedback e scariche violente di amplificatori, restano le melodie, piacevoli e struggenti, e la voce nasale di un J. Mascis indolente e sempre piu’ clone del suo idolo Neil "Cavallo Pazzo" Young (Can I): le classiche Not Enough, Is It Done e Where Are You non hanno nulla da invidiare al repertorio migliore (Get Me, Start Choppin’, Thumb), la title-track ricorda il folk-rock di C.S.N & Y., e dolcissime sono le crepuscolari Very Nervous And Love e Too Deep, forse la piu’ bella del lotto.
Bravissimo.

venerdì 18 marzo 2011

giovedì 17 marzo 2011


Dopo oltre cinque anni d’attesa esce in Italia il prossimo 22 marzo (il giorno prima negli USA), ma da oggi è possibile ascoltare in streaming sul loro sito ufficiale - http://new.thestrokes.com/featured/listen-to-angles-here - il nuovo e quarto album degli Strokes: PiacenzaSera non si è lasciata scappare l’occasione per darvi qualche anticipazione.

Non appena ripresi dallo shock derivato dalla bruttezza infinita della cover – un Escher psichedelico e anche un po’ daltonico – ci buttiamo dunque nell’ascolto di Angles, anticipato dal bel singolo Under Cover Of Darkness, disponibile sul web dall’inizio di febbraio.
Era impensabile – specie dopo il flop del penultimo, scialbo, First Impressions Of Earth – proseguire sulle tracce sin qui battute, ovvero il loro garage-rock fatto soprattutto di chitarre, scarno eppure melodico; poiché si sono perdute la freschezza e la spontanea degli esordi (che noia Taken For A Fool, e anche Gratisfation non è una novità).
I newyorchesi – non senza turbolenze e litigi: il leader Casablancas non ha partecipato alle prime sessions per non turbare i compagni - tentano allora la carta di un disco meno compatto ed essenziale, piu’ sfaccettato e anche – è ovvio - disomogeneo.
La novità è rappresentata dal massiccio utilizzo di tastiere e di campionamenti. Figuratevi che l’opener Macchu Picchu parte che sembrano i Men At Work di Down Under! Games, Life Is Simple In The Moonlight e la notevole Two Kind Of Happiness recuperano invece un’atmosfera New Romantic.
Fin qui i pezzi piu’ pop.
Poi c’è il tentativo di fare un pò di sperimentazione, un pò di ricerca.
E va decisamente peggio.
You’re So Right tenta la strada dell’elettronica un po’ ostica dei Radiohead di inizio decennio (lo scorso), ed è una strada, si sa, impervia e disseminata di trappole; Metabolism scopiazza invece il prog degli ultimi Muse, enfatico e magniloquente.

Correndo il rischio di prendere un granchio – l’ascolto in bassa fedeltà probabilmente non rende giustizia al loro sound, piu’ ricercato che in passato – ci azzardiamo ad affermare che, ancora una volta, la band di Julian Casablancas non regge la lunga distanza, confermandosi essenzialmente una band da singoli.

domenica 13 marzo 2011

QUASI COME KEROUAC, 12


July 1994, 27th
La colazione, qui nella Valle degli Dei, consiste in un paio di tazze di the bollente, un blueberry pancakes, ovvero una sorta di bortolina ai mirtilli, uno spicchio di pomplemo rosa e poi kiwi, di kiwi ce n'è quanti ne vogliamo.
Stanotte abbiamo riposato bene, immersi nella tranquillità quasi surreale di questo enorme silenzio che ormai ci accompagna da giorni, e dunque siamo pronti per metterci subito in strada, Statale 98, verso nord.
La strada attraversa il territorio Navaho, tra scenari di ampiezza inusitata e di chiarore abbacinante. Alla nostra sinistra, i Mormon Ridges, sulla destra prima la Grey Mesa e poi la l'Antelope Creek, che ci accompagnerà sino a Page, frequentato porto sul Powell Lake.
Una volta sulla spiaggia, una piccola striscia di sabbia delimitata da una staccionata di legno e da baracche in lamiera, ci spogliamo e abbandoniamo tutti i nostri indumenti, soldi e documenti compresi, in un fagotto nei pressi della risacca, poi ci addentriamo nell'acqua del lago.
Piu' tardi ci imbarchiamo sul Canyon King, un barcone tutto rabberciato e costruito di tavole di legno sbiancate dal sole che ricorda tanto, con la sua grande ruota smaltata di rosso posizionata sulla poppa, i battelli che solcano le acque del Mississippi.
Nessun giocatore d'azzardo, però, e nemmeno i neri che suonano il blues.
Solo turisti bianchi e orientali, con le loro macchinette fotografiche e le coca-cola, i chewing-gum e i sacchetti di chips in mano.
La vecchia imbarcazione costeggia le chiare scogliere e, piu' sopra, le rocce rossastre incombenti, quasi a picco sull'acqua azzurra e limpida che le riflette in nmodo quasi esatto, capovolte, certo, ma esattamente identiche che sembra quasi una suggestione o un miraggio.
Storditi da questo spettacolo, ci lanciamo delle occhiate in segno di approvazione, ammutoliti. Anche per via della temperatura. La morsa del caldo è implacabile, l'afa pomeridiana asfissiante. Fai fatica persino a respirare. Ma l'umore, lo stesso, è alle stelle. Sono solo poche ore che ci siamo lasciati alle spalle quella giungla di lamiere, asfalto e polvere che è Los Angeles.
Il caldo, che si fotta. Tanto noi si va ancora piu' a nord, verso le foreste e i grandi parchi nazionali.
Presto saremo a Yellowstone.
Riusciremo a vedere gli orsi?

giovedì 10 marzo 2011


PiacenzaSera ha ascoltato per voi il quindicesimo titolo dell’ormai sterminata discografia dei R.E.M., nei negozi e in download da ieri martedì 8 marzo.
Il primo approccio – nonostante le difficoltà legate all’immensa e immutata stima nei loro confronti e nonostante la puntuale stroncatura da parte della critica piu’ alternativa (con una puntualità che lascia qualche sospetto sul suo effettivo ascolto) – è positivo: belli la cover e il packaging a cura del grande fotografo Anton Corbjin, e un singolo divertente e orecchiabile, quell’Uberlin disponibile sul web da alcune settimane; a dire il vero, la casa discografica ha scelto diversi singoli per i vari territori: una più rock per l’America, Mine Smell Like Honey; UBerlin per l’Europa e Oh my heart – non se ne capisce il motivo - per la Germania.

Il lavoro è vario e mai annoia, come invece alcune delle ultime fatiche del terzetto di Athens, e anche il lungo elenco delle collaborazioni e dei cameo (ottimo il duetto con Peaches nella tirata Alligator Aviator Autopilot Antimatter, poi Eddie Vedder e Patti Smith) non disturba troppo, anche se nel caso di quest’ultima, la conclusiva e acidissima Blue assomiglia davvero troppo a E-Bow The Letter: d’altro canto, i remake di vecchi pezzi è una malattia conclamata degli ultimi R.E.M..
Certo, il confronto con i capolavori del passato – dal lontanissimo Murmur e Life Rich Pageant a Document, forse il piu’ bello di tutti, da Out Of Time ad Automatic For The People, fino a Monster – è implacabile, e, per dirla tutta, assurdo.
Il sound è il loro sound classico, curato e inconfondibile; molto mestiere, inventiva meno. In generale le ballate acustiche (Walk It Back, la filastrocca Every Day Is Yours To Win, Oh My Heart) si fanno preferire ai pezzi elettrici, spesso derivativi e raramente graffianti: Discoverer ricorda Finest Worksong, Mine Smell Like Honey sembra uscire da Life Rich Pageant.

Sul web è iniziato il dibattito tra chi, nostalgico, apprezza a prescindere: “a me va bene così: che i REM suonino come i REM”, e chi, invece, lo considera un disco inutile: “c’e’ troppa musica e troppo poco tempo e denaro per un disco come questo”.
Per noi, a prima botta, mantiene l’impostazione sobria e asciutta del penultimo lavoro Accelerate – benché molto meno aggressivo - e si va a posizionare almeno una spanna sopra il dittico Reveal/Around The Sun.

domenica 6 marzo 2011


Tornano di moda gli pseudonimi.
(I nostri preferiti di sempre restano Captain Beefheart, Dr. Octagon e – per ovvi motivi - Country Joe & The Fish).

Nota al pubblico per essere stata l’ultima compagna di Jeff Buckley, la polistrumentista Joan Wasser – in arte Joan As A Police Woman – è da tempo un punto di riferimento per l’universo indie femminile (da noi, sua grande ammiratrice è Cristina Donà, che in gennaio ha dato alle stampe l’ottimo Torno A Casa A Piedi).
La sua quarta fatica, intitolata The Deep Field, è un ascolto assai gradevole: molto black, permeato da venature soul (Marvin Gaye) e da reminiscenze funky (Prince), declinati però in maniera raffinata e personale, tutt’altro che convenzionale, così come sono riusciti a fare anche i Black Keys la passata stagione.
Ascoltate il bel singolo The Magic, per esempio, o le sensualissime The Action Man e The Specific Kiss (Sade). Su un registro piu’ cantautoriale si muovono le eccellenti Forever And A Year e Flash, che a noi ricorda i primi Radiohead. Poco convincente è invece il contributo del pur solitamente bravo Joseph Arthur, che con il suo spoken pseudo-erotico alla Isaac Hayes appesantisce oltre misura Human Condition.

Iron&Wine (“Ferro e Vino”) è invece il moniker del barbutissimo Sam Beam – texano d’adozione ma originario del South Carolina – giunto anch’esso al quarto album, uscito per la storica label 4AD.
Frettolosamente catalogato sotto l’etichetta folk-rock (dal Texas arrivano anche Midlake e John Grant), Kiss Each Other Clean propone una grande varietà di soluzioni sonore: arrangiamenti orchestrali, standard jazz rock a là Steely Dan (Bog Burned Hand), ballate in stile West Coast (Glad Man Singing, Tree By The River), blues e pulsioni etniche (Monkeys Uptown).
I nostri brani preferiti sono il singolo Walking Far From Home, che per la verità non ha le caratteristiche tipiche di un singolo, l’ipnotica Rabbit Will Run e la suggestiva Godless Brother In Love in cui Beam esibisce la stessa tensione emotiva di Rufus Wainwright, oltre all’epico finalone con Your Fake Name Is Good Enough For Me.