Visualizzazione post con etichetta pastoralia. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta pastoralia. Mostra tutti i post
mercoledì 28 settembre 2011
Prima che lui dica bah
Il ghiro è tornato.
Alle prime luci dell’alba, puntuale, inizia a rovistare nel sottotetto facendo un casino pazzesco e svegliandoci inesorabilmente.
E’ la sua stagione.
Saggezza popolare dice – che poi qui in paese i vecchi saggi iniziano a farsi dei bianchi alle sei del mattino e quando sono solo le undici più che saggi sono pieni marci – che sta facendo provviste per il lungo e gelido inverno che lo/ci attende. Pare che stia mettendo insieme una scorta di noci per tre-quattro mesi di letargo.
Astuto.
Astuto e coraggioso.
La pianta del noce dista almeno dieci metri dal tetto di casa mia, e l’unico collegamento tra di essi è un vecchio cavo del telefono posto a circa sei metri d’altezza. Me lo vedo, quel figlio di puttana, camminare sul filo come un equilibrista trascinando con sé - sospesa sopra la testa? - una noce ancora avvolta dal mallo.
Un lavoraccio, cazzo.
Resta il fatto che casino fa casino, che siano le noci che mette via o - se la saggezza popolare è solo leggenda - che si accontenti di rosicchiare le lastre di poliuretano espanso o le cantinelle di abete grezzo della copertura.
La reazione c'è stata, ed è stata dura. Dura e decisa.
L’altro ieri ho scagliato sul tetto una dozzina almeno di esche velenose, potentissime: una di quelle è in grado di squarciargli lo stomaco in pochi minuti e - prima che lui dica bah - polverizzargli poi tutti gli organi vitali. Brutta fine. Roba da pazzi sadici, lo ammetto. Ma è una guerra senza esclusione di colpi.
Tanto non ottengo alcun effetto.
Ci credo, Cristo, sono bustine dall’inquietante color azzurrognolo, davvero non si vede perché lo stronzo dovrebbe essere attratto da quella roba così sgargiante e un tantino psichedelica. A meno che non sia un ghiro tossico, un ghiro dal sorriso sdentato e appassionato di trip lisergici e pasticche colorate varie.
La verità, dicono sempre i vecchi saggi, è che non bisogna toccare le esche con le mani, così facendo i piccoli bastardi di roditori – che siano topi o ghiri – sentono l’odore dell’umano e non si lappano l’inquietante bustina dal colore azzurrognolo.
Dunque dovrò riprovare usando i guanti di lattice, come un infermiere, e magari una fionda artigianale per arrivare più in lato sul tetto.
Che poi, a pensarci bene, a un ghiro così astuto e coraggioso ci sarebbe da pagargli un bianchino, quell’ortrugo ormai sgasato per via del tappo di plastica che una volta si usava per le bottiglie della minerale, altro che esche velenose.
martedì 22 marzo 2011
Fragola e cioccolato
C’era quello scrittore francese – Delerme mi pare si chiamasse – che ha venduto un pacco di copie del suo libro che semplicemente elencava i piccoli piaceri della vita, quelli a cui davvero non si può rinunciare.
Il primo sorso di birra, cose del genere.
Ebbene, venerdì scorso, ho pensato a lui e al suo libretto del cazzo quando, dopo essere passato a prendere mia figlia davanti a scuola, per la prima volta ci siamo fiondati – io e lei e una masnada di bambini chiassosi – nell’unica gelateria del paese, che ha aperto i battenti da pochi giorni dopo la pausa invernale.
Il sole del tardo pomeriggio ancora scaldava e si poteva stare in mezze maniche, e quindi abbiamo impilato i cappotti e i giubbotti sulle sedie di plastica bianca affiancate al muro coperto di muschio o appoggiati in terra vicino alla vetrina.
Dentro al negozio, ho convinto tutti quanti a prendere un cono di fragola e cioccolato.
E’ tradizione che il primo gelato della stagione debba essere fragola e cioccolato, ho detto ai bambini che mi guardavano increduli.
E’ una regola ormai consolidata.
(Non credevo ci cascassero così facilmente, erano già sul punto di cedere).
Infrangere la regola porta sfiga, ho aggiunto: non sia mai.
E così quei poveretti si sono presi un cono fragola e cioccolato, tutti, senza eccezioni, sotto lo sguardo pieno d’odio della gelataia per via che i cestelli degli altri gusti rimanevano immacolati.
Avrebbe voluto dirmi, e bravo il mio cretino, adesso a chi la do’ la zuppa inglese?
Al gatto?
Comunque: cos’era buono il mio cono fragola e cioccolato.
Me lo sono gustato passeggiando avanti e indietro sull’ampio marciapiede che fronteggia la provinciale, dove - appena accostato sul lato sbagliato della strada - era parcheggiato lo scuolabus del paese, un pulmino arancione, un Turbodaily tutto ammaccato e con i fari pieni di condensa e i tergicristalli senza spatole che quando piove bisogna andare a passo d’uomo e mettere fuori la testa dal finestrino. Sarà un Euro0, quel fottuto Turbodaily. Cazzo, quando parte sprigiona una nube tossica che è peggio della centrale di Fukushima.
L’autista – che poi è anche il cantoniere, e anche il necroforo, quando occorre - era dentro la gelateria, lui e il suo equipaggio: quattro o cinque bambini, tutti maschi, chissà se c’è un motivo che sono sempre tutti maschi quelli dello scuolabus. Ha ordinato un cono per ognuno di loro. Sbrigatevi a scegliere i gusti, ripeteva ad alta voce, visibilmente spazientito dalla lunga attesa. C’era un bimbo originario dell’Ecuador o giù di lì che non capiva la domanda della gelataia, che da qualche minuto gli stava chiedendo se voleva le praline colorate. Un bel bambino, con il viso tondo e una frangia così di capelli corvini. Suo fratello invece è un gigante, fa paura. Fa le medie ed è piu’ alto di me, non che io sia poi così alto, ma insomma. Porta i capelli lunghi, oltre le spalle, e, cazzo, sembra proprio l’indiano di Qualcuno volò sul nido del cuculo, quello che alla fine sradica il lavandino di marmo e lo scaglia contro le inferriate, le sfonda e infine si allontana dal manicomio. Le vuoi o no le praline colorate?, ha sbuffato l’autista. Poi si è avvicinato al banco e ha fatto per pagare. Sei gelati da un euro e mezzo per un totale di nove euro. Allontanandosi mi ha visto e si è accorto che lo stavo osservando e allora mi ha fatto, prendo cinque euro di straordinario per portare a casa questi piccoli bastardi e ne spendo quasi il doppio per pagargli il gelato.
Hai fatto un affare anche oggi, ho detto io con un sorriso compiaciuto.
Cazzo, ha risposto lui.
Poi mi ha schiacciato l’occhio e ha iniziato a richiamare i bambini, ricordando loro che dovevano muoversi, cazzo, erano già in ritardo di quindici minuti sulla tabella di marcia.
Avete finito o no?, ripeteva.
Uno di loro era ancora indietro con il suo gelato e ha fatto il gesto di salire sul bus, e allora l’autista si è incazzato sul serio e lo ha preso per un orecchio, delicatamente, però. Non puoi mangiare il gelato sul bus, gli ha detto. Fa già schifo così, ci manca solo che mi sporchi i sedili col tuo gelato. Infine ha aspettato che quell’altro finisse, ha caricato il suo equipaggio sul bus, ha salutato con un gesto della mano e poi ha ingranato la marcia verso le colline ricoperte di vigneti ancora spogli.
E io me ne sono restato in silenzio a finire il mio cono fragola e cioccolato.
Ancora più felice, però.
venerdì 18 dicembre 2009
Dicembre
Il lampeggiante giallastro dello spazzaneve si riflette, a intermittenza, sul vetro appannato dell'ingresso.
Metto il naso fuori di casa.
La neve scende dal cielo, senza tregua, e una soffice coltre bianca copre ogni cosa.
Persino lo zerbino è sommerso di neve, eppure è sotto un portico profondo quasi tre metri.
In mezzo al campo immacolato, oltre il ruscello, c'è un coniglio gigante. Ha le orecchie appuntite e il muso sembra un teschio argentato. C'è anche Nonna Morte, con la sua zazzera bianca, che attraversa la strada innevata con le sue pantofole per andare a controllare la buca delle lettere.
Danno Donnie Darko stasera.
Non resta che mettersi a spalare il vialetto di casa, domattina, se vorremo uscire di qui, prima o poi.
Badile e sale grosso.
Con quell'idiota del cane che ti fissa annoiato. Non fa un cazzo dalla mattina alla sera, quel cane bastardo. Se ne resta sempre lì, sdraiato nella neve, a raffrescarsi le palle. Quando non è attaccato al computer per chattare su facebook.
Penso: la neve, a metà dicembre, ci sta.
Non è necessario essere esperti di metereologia per rendersene conto.
Eppure, è bello potersi tutte le volte sorprendersi, come se fosse la prima volta, assaporare lo stupore nel viso della gente che goffa sale e scende dal marciapiede cercando di farsi strada tra i cumuli e le lastre di ghiaccio, godere lo spettacolo dei fiocchi che avvolgono la statale illuminata dai fari allo xeno delle auto che avanzano a strappi.
Penso allo stupore di Agnese, la mattina del 13 dicembre.
Si è svegliata molto presto (probabilmente non aveva chiuso occhio tutta la notte per la tensione). Ha aperto la porta con gli occhi gonfi di sonno e si è trovata davanti, sul pavimento ancora freddo del corridoio, una fila di caramelle - le ha messe giu' sua mamma, davvero una bella scenografia - che portavano alla scala e poi, seguendo le caramelle giu' dalla scala in soggiorno, e infine sino al grande tavolo della sala da pranzo, dove facevano bella mostra i giocattoli ancora incartati.
Ha mangiato la carota!, ha urlato lei, riferendosi all'asino.
Santa Lucia, invece, si è fatta fuori una fetta di crostata al cioccolata - che però non l'ha fatta Sandy, che fa sempre un sacco di torte grandiose, ma l'abbiamo presa all'ipermercato in offerta speciale - e poi, povera donna, le è toccato bere un bicchiere di ginger.
Sì, il ginger, quella spuma rossa e un pò amara che si beveva un secolo fa nei bar tipo il Domus o il Parisienne - il primo era sotto casa, l'altro all'inizio di via Tibini - bar con i tavoli di formica e il regolamento del giuoco delle carte fissato con le puntine a muri scrostati, insieme a cartelli con scritte tipo: E' VIETATO SPUTARE PER TERRA, bar con i biliardi con ancora le buche e i gessetti azzurri da strofinare sulla punta delle stecche, bar con il distributore delle nocciole tostate, con le sanagola e i boeri, che vincevi sempre, mica come adesso che non si vince mai un cazzo.
Poteva andarle peggio.
Potevamo prepararle quello strano intruglio che era solito trangugiarsi mio nonno, Cristo santo, quell'uomo mescolava lo sciroppo d'orzata e quello di tamarindo con acqua fredda da frigo, la madonna se faceva schifo. Passavamo le estati nella sua casa di campagna, a pochi passi da qua, quella con i finti mattoncini rossi appicciacti sulle pareti e le tapparelle bianche: sempre stato un geometra da spendere poco. Era un tipo scorbutico ma capace anche di tenerezze. Dovevamo sempre farlo vincere a carte, se no s'incazzava di brutto. Ogni mattina andava a far la spesa a Rivergaro con la Fiat 128 Sport giallo senape - quella col doppio faro tondo posteriore, uno superclassico del design italico - e quando tornava suonava il clacson come un pazzo finchè non correvamo ad aiutarlo a scaricare il baule. Alle volte lo accompagnavamo in paese, nella discesa giu' dal ponte di Statto metteva la folle per risparmiare la nafta, quel taccagno.
Agnese è rimasta soddisfatta.
Santa Lucia le ha portato la Cuccio-clinica®, una specie di ospedale per piccoli animali con una veterinaria alta bella e bionda. La osservo mentre gioca. Borbotta qualcosa e sbuffa. E' alle prese con un caso disperato. Un cavallo con un femore rotto. Vedrai che starai meglio, sussura al cavallino accarezzandogli la criniera.
Tutto come copione: Agnese aveva chiesto Cuccio-clinica® nella sua letterina, dopo una serie indicibile di tormenti interiori e di clamorosi voltafaccia. D'altro canto, non bastassero tutti quegli ignobili spot pubblicitari - in quelle che dovrebbero essere fasce orarie protette - adesso ti inviano a casa anche dei cataloghi illustrati di giocattoli. Tipo il Postal Market (chi non se lo ricorda? Il mio vicino di banco alle elementari si tirava le seghe sfogliando le pagine di biancheria intima...). Un giocattolo per ogni pagina, foto grande a colori, e ognuno con il suo bel codice in neretto: per semplificare la scelta e non sbagliare gli ordini.
Cara Santa Lucia,
ti prometto che sarò brava con il papà e la mamma.
Per favore portami:
- CHT 74524
- FTG 05938
- GTD 98735
(Chissà, forse ci sono anche gli ippopotamini affamati.)
Metto il naso fuori di casa.
La neve scende dal cielo, senza tregua, e una soffice coltre bianca copre ogni cosa.
Persino lo zerbino è sommerso di neve, eppure è sotto un portico profondo quasi tre metri.
In mezzo al campo immacolato, oltre il ruscello, c'è un coniglio gigante. Ha le orecchie appuntite e il muso sembra un teschio argentato. C'è anche Nonna Morte, con la sua zazzera bianca, che attraversa la strada innevata con le sue pantofole per andare a controllare la buca delle lettere.
Danno Donnie Darko stasera.
Non resta che mettersi a spalare il vialetto di casa, domattina, se vorremo uscire di qui, prima o poi.
Badile e sale grosso.
Con quell'idiota del cane che ti fissa annoiato. Non fa un cazzo dalla mattina alla sera, quel cane bastardo. Se ne resta sempre lì, sdraiato nella neve, a raffrescarsi le palle. Quando non è attaccato al computer per chattare su facebook.
Penso: la neve, a metà dicembre, ci sta.
Non è necessario essere esperti di metereologia per rendersene conto.
Eppure, è bello potersi tutte le volte sorprendersi, come se fosse la prima volta, assaporare lo stupore nel viso della gente che goffa sale e scende dal marciapiede cercando di farsi strada tra i cumuli e le lastre di ghiaccio, godere lo spettacolo dei fiocchi che avvolgono la statale illuminata dai fari allo xeno delle auto che avanzano a strappi.
Penso allo stupore di Agnese, la mattina del 13 dicembre.
Si è svegliata molto presto (probabilmente non aveva chiuso occhio tutta la notte per la tensione). Ha aperto la porta con gli occhi gonfi di sonno e si è trovata davanti, sul pavimento ancora freddo del corridoio, una fila di caramelle - le ha messe giu' sua mamma, davvero una bella scenografia - che portavano alla scala e poi, seguendo le caramelle giu' dalla scala in soggiorno, e infine sino al grande tavolo della sala da pranzo, dove facevano bella mostra i giocattoli ancora incartati.
Ha mangiato la carota!, ha urlato lei, riferendosi all'asino.
Santa Lucia, invece, si è fatta fuori una fetta di crostata al cioccolata - che però non l'ha fatta Sandy, che fa sempre un sacco di torte grandiose, ma l'abbiamo presa all'ipermercato in offerta speciale - e poi, povera donna, le è toccato bere un bicchiere di ginger.
Sì, il ginger, quella spuma rossa e un pò amara che si beveva un secolo fa nei bar tipo il Domus o il Parisienne - il primo era sotto casa, l'altro all'inizio di via Tibini - bar con i tavoli di formica e il regolamento del giuoco delle carte fissato con le puntine a muri scrostati, insieme a cartelli con scritte tipo: E' VIETATO SPUTARE PER TERRA, bar con i biliardi con ancora le buche e i gessetti azzurri da strofinare sulla punta delle stecche, bar con il distributore delle nocciole tostate, con le sanagola e i boeri, che vincevi sempre, mica come adesso che non si vince mai un cazzo.
Poteva andarle peggio.
Potevamo prepararle quello strano intruglio che era solito trangugiarsi mio nonno, Cristo santo, quell'uomo mescolava lo sciroppo d'orzata e quello di tamarindo con acqua fredda da frigo, la madonna se faceva schifo. Passavamo le estati nella sua casa di campagna, a pochi passi da qua, quella con i finti mattoncini rossi appicciacti sulle pareti e le tapparelle bianche: sempre stato un geometra da spendere poco. Era un tipo scorbutico ma capace anche di tenerezze. Dovevamo sempre farlo vincere a carte, se no s'incazzava di brutto. Ogni mattina andava a far la spesa a Rivergaro con la Fiat 128 Sport giallo senape - quella col doppio faro tondo posteriore, uno superclassico del design italico - e quando tornava suonava il clacson come un pazzo finchè non correvamo ad aiutarlo a scaricare il baule. Alle volte lo accompagnavamo in paese, nella discesa giu' dal ponte di Statto metteva la folle per risparmiare la nafta, quel taccagno.
Agnese è rimasta soddisfatta.
Santa Lucia le ha portato la Cuccio-clinica®, una specie di ospedale per piccoli animali con una veterinaria alta bella e bionda. La osservo mentre gioca. Borbotta qualcosa e sbuffa. E' alle prese con un caso disperato. Un cavallo con un femore rotto. Vedrai che starai meglio, sussura al cavallino accarezzandogli la criniera.
Tutto come copione: Agnese aveva chiesto Cuccio-clinica® nella sua letterina, dopo una serie indicibile di tormenti interiori e di clamorosi voltafaccia. D'altro canto, non bastassero tutti quegli ignobili spot pubblicitari - in quelle che dovrebbero essere fasce orarie protette - adesso ti inviano a casa anche dei cataloghi illustrati di giocattoli. Tipo il Postal Market (chi non se lo ricorda? Il mio vicino di banco alle elementari si tirava le seghe sfogliando le pagine di biancheria intima...). Un giocattolo per ogni pagina, foto grande a colori, e ognuno con il suo bel codice in neretto: per semplificare la scelta e non sbagliare gli ordini.
Cara Santa Lucia,
ti prometto che sarò brava con il papà e la mamma.
Per favore portami:
- CHT 74524
- FTG 05938
- GTD 98735
(Chissà, forse ci sono anche gli ippopotamini affamati.)
giovedì 19 novembre 2009
Ritorno in Valnure
Il virus HNV1 ha decimato la scuola del paese, senza alcun riguardo per i piu' piccoli e i piu' deboli, anzi.
Stamattina, in tutto ci sono sette bambini.
Solo una in quinta, che infatti se ne ritorna mestamente a casa.
Le maestre ci guardano come a chiederci, cosa li lasciate qui a fare? Sembrano un poco contrariate dal fatto che qualcuno ha deciso di portare ugualmente i propri figli a scuola. Dopo un rapido consulto telefonico con Sandy, decido di lasciare la bambina a scuola. Io potrei anche portarmela dietro, ma in ogni caso, c'è un suo compagno equadoregno i cui genitori lavorano entrambi, iniziano la mattina presto, non sapremmo come raggiungerli, adesso.
Così bacio Agnese sulla fronte, scendo la scalinata in travertino e mi incammino verso l'osteria, dove per bere un caffè aspetto che la barista termini una tutt'altro che urgente conversazione telefonica.
Scusami, mi fa, dopo aver riagganciato. Era mia madre, mi chiama sempre, piu' volte al giorno. Anche durante il lavoro. Mi ripete sempre le stesse cose.
Io le dico che invece mia madre non chiama mai, deve avere un'allergia verso il telefono. Il giorno del mio compleanno la devo chiamare io, per consentirle di farmi gli auguri, aggiungo.
Quest'anno, mi racconta lei, per spiegarmi come sbrigare la faccenda dei fiori da portare al cimitero per i morti, la mia ha iniziato a chiamarmi in agosto. Mi ha elencato il tipo di crisantemi, il loro numero, il colore, la composizione che voleva per la tomba di mio padre. Sono dovuta andarli a prenotare a metà settembre, non puoi immaginarti la faccia della fiorista.
Io sorrido e, mentre mi gusto il mio caffè bollente, penso: è brutto rimanere da soli.
Poi ripenso alla lista degli sms che Paulette, qualche giorno fa, ha abilmente trascritto dalla cartella degli sms inviati del portatile di mia madre:
Sono spr pr
No biondi
Buona pasqua (qui evidentemente qualcuno l'ha aiutata, ndr)
Tut
Niente male, cazzo, la vecchia.
Prima di andarmene do' un'occhiata alla gazzetta e poi scambio due chiacchiere con gli altri avventori.
C'è una tipa che che smanetta su una macchinetta del videopoker, passa le sue mattine su quella dannata macchinetta. Ancora un pò e ci lascia giu' anche le mutande.
C'è il mister, lo prendo in giro per la classifica piuttosto deludente. Quattro punti. Sei gol subiti anche domenica scorsa, nel derby con il Marsaglia. Lui si lamenta del campo pesante. Si lamenta dell'arbitro, che è un testa di cazzo,l'ha sempre detto, lui, che è u testa di cazzo. Si lamenta che non hanno un portiere. Perchè non convinci il Gio, mi fa. Viene a finire il campionato titolare in seconda, poi torna alla base. Mah, aggiunge lui alla fine, non so se me lo danno in prestito.
C'è un uomo di mezz'età - uno che non ho mai visto qui in giro - che ha appena finito di leggere il giornale appoggiato al bancone.
Ce l'ha con il computer, con internet e con tutte quelle diavolerie elettroniche. Adesso i ragazzi non escono piu' di casa, sentenzia, si parlano attraverso le chat e quelle robe lì, ditemi voi se è normale. Io pago il mio caffè e intanto rispondo che certe cose non sono il diavolo, che come per tutte le cose l'importante è non abusarne, e che comunque certi strumenti possono aiutare i piu' timidi a mettersi in relazione con gli altri. Lui scrolla la testa. Ci credo poco, mi fa.
Io non sono Matusalemme, ho solo cinquantacinque anni, però davvero non li capisco, aggiunge dopo una lunga pausa.
Poi, con una strana espressione da posseduto dipinta in volto, afferma:
Io sono credente: per me, una bella Ave Maria al mattino, recitata bene, è molto meglio che un pomeriggio intero passato sul computer.
Infine inizia a raccontarmi di una sua conoscente di Bettola che negli anni Sessanta è emigrata a Nuova York - così ha detto lui, Nuova York - e che là si è fatta una vita, figli, lavoro e tutto quanto. Sua figlia, che nel frattempo si è anche lei sposata con un americano, qualche anno fa è tornata in Valnure per presentare al marito i suoi parenti piacentini. Sono rimasti piu' di un mese. Lui si collegava tutti i giorni con il computer e svolgeva da lì il suo lavoro. Vuoi sapere come è andata a finire? La sua ditta, una ditta americana che opera nel settore delle telecomunicazioni, gli ha chiesto di rimenere in Italia. Per loro era il massimo della comodità, il fatto che ci sono sei-sette ore di differenza nel fuso permetteva ai suoi colleghi di arrivare in ufficio e trovare già tutto pronto.
Vedi?, gli faccio io, riferendomi alla nostra conversazione di prima.
Lui annuisce pensieroso.
Quest'uomo non ha le idee chiare, penso io.
Sono quasi le nove.
Saluto tutti e me ne vado, e mentre raggiungo la macchina ripenso a quello che ha detto quell'uomo.
Che cazzo avrà voluto dire, poi, con la storia dell'Ave Maria.
Ma perchè non la lascia fuori, la Santissima Vergine, da certi discorsi?
Stamattina, in tutto ci sono sette bambini.
Solo una in quinta, che infatti se ne ritorna mestamente a casa.
Le maestre ci guardano come a chiederci, cosa li lasciate qui a fare? Sembrano un poco contrariate dal fatto che qualcuno ha deciso di portare ugualmente i propri figli a scuola. Dopo un rapido consulto telefonico con Sandy, decido di lasciare la bambina a scuola. Io potrei anche portarmela dietro, ma in ogni caso, c'è un suo compagno equadoregno i cui genitori lavorano entrambi, iniziano la mattina presto, non sapremmo come raggiungerli, adesso.
Così bacio Agnese sulla fronte, scendo la scalinata in travertino e mi incammino verso l'osteria, dove per bere un caffè aspetto che la barista termini una tutt'altro che urgente conversazione telefonica.
Scusami, mi fa, dopo aver riagganciato. Era mia madre, mi chiama sempre, piu' volte al giorno. Anche durante il lavoro. Mi ripete sempre le stesse cose.
Io le dico che invece mia madre non chiama mai, deve avere un'allergia verso il telefono. Il giorno del mio compleanno la devo chiamare io, per consentirle di farmi gli auguri, aggiungo.
Quest'anno, mi racconta lei, per spiegarmi come sbrigare la faccenda dei fiori da portare al cimitero per i morti, la mia ha iniziato a chiamarmi in agosto. Mi ha elencato il tipo di crisantemi, il loro numero, il colore, la composizione che voleva per la tomba di mio padre. Sono dovuta andarli a prenotare a metà settembre, non puoi immaginarti la faccia della fiorista.
Io sorrido e, mentre mi gusto il mio caffè bollente, penso: è brutto rimanere da soli.
Poi ripenso alla lista degli sms che Paulette, qualche giorno fa, ha abilmente trascritto dalla cartella degli sms inviati del portatile di mia madre:
Sono spr pr
No biondi
Buona pasqua (qui evidentemente qualcuno l'ha aiutata, ndr)
Tut
Niente male, cazzo, la vecchia.
Prima di andarmene do' un'occhiata alla gazzetta e poi scambio due chiacchiere con gli altri avventori.
C'è una tipa che che smanetta su una macchinetta del videopoker, passa le sue mattine su quella dannata macchinetta. Ancora un pò e ci lascia giu' anche le mutande.
C'è il mister, lo prendo in giro per la classifica piuttosto deludente. Quattro punti. Sei gol subiti anche domenica scorsa, nel derby con il Marsaglia. Lui si lamenta del campo pesante. Si lamenta dell'arbitro, che è un testa di cazzo,l'ha sempre detto, lui, che è u testa di cazzo. Si lamenta che non hanno un portiere. Perchè non convinci il Gio, mi fa. Viene a finire il campionato titolare in seconda, poi torna alla base. Mah, aggiunge lui alla fine, non so se me lo danno in prestito.
C'è un uomo di mezz'età - uno che non ho mai visto qui in giro - che ha appena finito di leggere il giornale appoggiato al bancone.
Ce l'ha con il computer, con internet e con tutte quelle diavolerie elettroniche. Adesso i ragazzi non escono piu' di casa, sentenzia, si parlano attraverso le chat e quelle robe lì, ditemi voi se è normale. Io pago il mio caffè e intanto rispondo che certe cose non sono il diavolo, che come per tutte le cose l'importante è non abusarne, e che comunque certi strumenti possono aiutare i piu' timidi a mettersi in relazione con gli altri. Lui scrolla la testa. Ci credo poco, mi fa.
Io non sono Matusalemme, ho solo cinquantacinque anni, però davvero non li capisco, aggiunge dopo una lunga pausa.
Poi, con una strana espressione da posseduto dipinta in volto, afferma:
Io sono credente: per me, una bella Ave Maria al mattino, recitata bene, è molto meglio che un pomeriggio intero passato sul computer.
Infine inizia a raccontarmi di una sua conoscente di Bettola che negli anni Sessanta è emigrata a Nuova York - così ha detto lui, Nuova York - e che là si è fatta una vita, figli, lavoro e tutto quanto. Sua figlia, che nel frattempo si è anche lei sposata con un americano, qualche anno fa è tornata in Valnure per presentare al marito i suoi parenti piacentini. Sono rimasti piu' di un mese. Lui si collegava tutti i giorni con il computer e svolgeva da lì il suo lavoro. Vuoi sapere come è andata a finire? La sua ditta, una ditta americana che opera nel settore delle telecomunicazioni, gli ha chiesto di rimenere in Italia. Per loro era il massimo della comodità, il fatto che ci sono sei-sette ore di differenza nel fuso permetteva ai suoi colleghi di arrivare in ufficio e trovare già tutto pronto.
Vedi?, gli faccio io, riferendomi alla nostra conversazione di prima.
Lui annuisce pensieroso.
Quest'uomo non ha le idee chiare, penso io.
Sono quasi le nove.
Saluto tutti e me ne vado, e mentre raggiungo la macchina ripenso a quello che ha detto quell'uomo.
Che cazzo avrà voluto dire, poi, con la storia dell'Ave Maria.
Ma perchè non la lascia fuori, la Santissima Vergine, da certi discorsi?
venerdì 30 ottobre 2009
Mio padre, John Lennon
Non ho mai conosciuto mio padre.
Se ne è andato troppo presto, quando io e Paulette avevamo solamente diciotto mesi. Non che agli fratelli sia andata meglio: avevano rispettivamente dieci e sette anni, nemmeno il tempo di ricordarselo, dopo.
Si è ammazzato di lavoro. Eppure il dottore glielo aveva detto piu' volte, di andarci piano, dopo il primo, leggero, infarto. Aveva compiuto cinquant'anni due settimane prima.
Quello che mi resta è un album di cuoio, ormai sdrucito, con i ricordi di una vita.
Una collezione di pallide fotografie in bianco e nero, sbiadite, e i documenti del periodo in cui fu partigiano nelle valli tra il Luretta e la Pietra Parcellara.
Il Capitan Bologna.
Medaglia d'argento al Valor Militare per la Resistenza.
(Talmente sentita, che hanno sbagliato persino il cognome, hanno scritto MANZANI)
C'è anche un trafiletto, poco piu' di sei righe, sul Dizionario dei Concittadini Illustri.
Bella roba.
Avrei preferito che avesse continuato a tenerci sulle ginocchia, mentre leggeva il giornale seduto a tavola.
Una bella mattina di ottobre.
Il sole è improvvisamente sbucato dalla fitta coltre di nubi che nei giorni scorsi ci ha impedito di guardare oltre il cielo.
E' il periodo giusto per mettere a dimora i crochi e i tulipani. Sandy ne ha presi un paio di sacchetti pieni. Ci sono anche due esemplari di aglio selvatico. L'anno scorso ne abbiamo piantato uno, e quella specie di patata spelacchiata è diventato un fusto alto piu' di un metro, con in cima un fiore lilla, grosso come un arancio.
Agnese mi aiuta a smistare i semi e i bulbi nelle varie buche che mi sono preparato, con l'ausilio di un badile e di un piccone.
Le piace aiutarmi, anche se poi si stufa subito.
E allora si mette a preparare la pappa per i suoi figli, stamattina ne ha addirittura quattro: due barbie, un altro bambolotto - un bambolotto inquietante, un umanoide cyber che muove le labbra e piange lacrime finte, e che se gli butti uno strano liquame grigiastro in bocca lui poi si caga addosso - e addirittura un orsachiotto di pezza.
Se vuoi puoi essere mio marito, mi dice mentre accarezza l'orsachiotto.
Se proprio insisti, abbozzo io. A dire il vero, quattro figli mi sembrano un pò troppi. Tutti in una volta, poi.
Quando rientriamo in casa ci mettiamo in cucina a disegnare con i pennarelli.
Dopo un pò mi dice: devo far vedere i miei disegni alla nonna Giulia.
Ok, rispondo io, e intanto mi alzo per prepararmi un caffe'. Quando viene a trovarci glieli facciamo vedere.
Poi mi chiede: ma la nonna non ha un marito?
Lo aveva, rispondo io. Adesso non c'è piu'.
Ah, fa lei. E come si chiamava?
Giovanni.
Ah.
Era mio padre, aggiungo io (lo sapete anche voi, i bambini faticano assai a entrare nel complesso meccanismo delle parentele. E Agnese non fa certo eccezione, anzi diciamo pure che gli alberi genealogici non sono il suo forte).
Lei resta lì, immobile, lo sguardo fisso su un punto qualunque della nuda parete d'intonaco.
Sembra perplessa.
D'altro canto, come non comprenderla: suo padre si chiama Giovanni, suo fratello si chiama Giovanni, e suo nonno come si chiamava? Giovanni. La Madonna che fantasia, potrebbe pensare. Un paio di Madonne le ha gia' tirate, infatti, fortunatamente senza aggettivi.
Ma poi si lascia distrarre dalla radio che gracchia una musica conosciuta.
Cerco di spostare l'antenna nella speranza di ricevere meglio il segnale, mentre lei canticchia sullo sfondo.
Torno fuori per stendere un pò di terriccio con il rastrello, e poi innaffio l'aiuola scura e polverosa.
Rientro in casa e accendo la televisione. Su Mtv c'è un programma sui Beatles. Deve essere un anniversario di qualche cosa, perchè per tutta la mattina mettono dei vecchi filmati, interviste e materiali d'archivio.
C'è anche un video nel quale quattro pupazzi - a immagine e somiglianza dei Fab Four - suonano Ticket to ride e A day in the life.
Agnese guarda il video rapita. Io nel frattempo le massaggio la pancia, dovreste provarla anche voi, è morbida come la pasta delle pizza dopo che è lievitata per un intero pomeriggio.
Chi sono?, mi chiede.
Dei musicisti, rispondo. Si chiamavano Beatles. In Italiano vuol dire: scarafaggi.
Che schifo.
Guarda, le dico, quello lì si chiamava Paul, sì, insomma, Paolo. Quello con i capelli piu' lunghi si chiamava Giorgio. Quello invece era Ringo. Ringo Starr. Suonava i tamburi. E quello là in fondo era John, Giovanni. Anche lui adesso non c'è piu'.
Giovanni?, ripete stupita.
Sì, Giovanni.
Lei resta in silenzio, ma io mi accorgo che sta macchinando qualche idea strampalata in quella sua testolina di cazzo, e infatti dopo qualche istante mi chiede:
Ma era lui tuo papa'?
Io rido forte. Chi? John Lennon?
Anche lei ride, adesso.
No, non era lui, rispondo io accarezzandole i capelli, sottili e castani come i miei.
E intanto i quattro pupazzi, sullo schermo in 16:9, attaccano With a little help from my friends.
Verso sera, esco di nuovo per fare legna. Il sole è sparito all'orizzonte, e la temperatura è scesa improvvisamente. Meglio accendere il camino.
Sono lì che scelgo con cura i pezzi di carpino e robinia dalla catasta sotto il pergolato nascosto dal gelsomino, che poi è un falso gelsomino, qualsiasi cosa voglia dire, e intanto ripenso a John Lennon.
Cazzo, avrebbe potuto essere davvero mio padre.
In fondo era del '40.
Anche se non ce la vedo molto, la Giulia, con il vecchio John. E poi cosa cazzo è andata a fare a Liverpool?
Però.
Però non si sa mai.
Prendo la Scenìc e vado giu' in paese a comprare un pò di insetticida, anche se siamo un pò fuori stagione c'è un'invasione di formiche rosse.
Fuori dall'emporio, c'è un gippone parcheggiato con due ruote sul marciapiede. Si apre la portiera e scende un uomo di mezz'età, corporatura robusta e un principio di chierica sul cranio.
Mi guarda senza alcuna espressione particolare.
Io ricambio il suo sguardo ottuso e poi gli dico: John Lennon era mio padre.
E lui: chi, quell'hippy sciroccato che cantava tutte quelle cazzate sulla pace e sull'amore universale?
Immagina un mondo senza possessi/mi chiedo se ci riesci/senza necessità di avidità o fame/La fratellanza tra gli uomini/Immagina tutta le gente/condividere il mondo intero....
Stronzate.
Brutta bestia, l'invidia.
Mentre torno in macchina mi dico, 'fanculo, adesso chiamo McCartney.
Cazzo, Macca, gli dico, quand'è che mi mandi i diritti d'autore delle ultime compilation?
Lui balbetta qualcosa di incomprensibile. Deve essere ancora incazzato per la storia della dicitura "Lennon/McCartney" sui dischi. Secondo lui, andrebbe ribaltata, almeno per i pezzi che in realtà, così dice, ha scritto lui. Non gli hanno mai spiegato la proprietà commutativa.
Macca? Mi senti?
Devi chiedere a Yoko, mi risponde lui dopo una lunga pausa. Ho già datto tutto a Sean e a Julian.
Non fare il furbo con me, gli faccio, domattina voglio il bonifico.
Poi gli detto il codice IBAN:
I
T
6
0
R
...
Ma la cornetta adesso suona a vuoto.
Tuuu... tuu....
Ha messo giu', quel bastardo.
Che gran figlio di puttana.
Te l'avevo detto che non dovevi fidarti di lui, papà.
IMMAGINE DA:
http://www.robertoagostini.it/uploads/images/Ritratti/john%20lennon.jpg
mercoledì 14 ottobre 2009
State bene voi
Sotto zero anche stamattina.
Ma almeno non c'è da spalare la neve, malgrado le previsioni catastrofiche di tutti quei fottuti metereologi. Sarà una precipitazione epocale, ci ripetevano da giorni. Una nevicata senza precedenti.
Invece niente.
Un pò me lo aspettavo, ieri notte ero sceso sino al fiume per una passeggiata con il cane, e il fragore assordante della piena rimbombava sotto un sipario stellato talmente ampio da sembrare finto.
Impiego del tempo per raschiare il ghiaccio dal parabrezza dell'auto.
Il motore si avvia al primo colpo.
La vecchia Renault non dimostra i suoi anni e le miglia percorse e, dopo aver avanzato a strappi solo all'inizio, si arrampica decisa sulla strada impervia e piena di buche.
In paese non c'è anima viva.
Le serrande delle botteghe sono ancora abbassate, e il benzinaio è nascosto nel suo bugigattolo in lamiera metallica, al caldo di una stufetta elettrica difettosa.
Incrocio lo Scuolabus sulla provinciale. Alzo un cenno di saluto all'autista, che poi è anche il cantoniere e persino il necroforo, nelle comunità piccole bisogna arrangiarsi, e il materiale umano a disposizione è quello che è.
Cerco una stazione decente, ma la radio gracchia a ripetizione.
Alla fine mi rassegno ad ascoltare - un'altra volta - l'ultimo dei Massive Attack.
Il sole si alza tardi e timidamente filtra tra i rami spogli delle fitte boscaglie alle pendici del passo appenninico.
Sullo sfondo, un jet squarcia con il suo vapore biancastro il cielo limpido e pulito.
Contro luce, la montagna mostra i suoi muscoli.
Invincibile.
Un altro paese.
L'insegna lampeggiante della farmacia indica la temperatura: meno quattro.
Una pattuglia dei Carabinieri resta immobile nel mezzo del piazzale di asfalto crepato. All'interno dell'abitacolo, un agente legge il giornale scaldandosi con il motore diesel acceso al minimo.
Gran lavoratore.
Abbandono l'auto sul marciapiede e scendo per acquistare due marche da bollo. La tabaccheria è un vero e proprio bazar: vendono funghi secchi, caciotte nostrane, riviste di costume, biancheria intima, giocattoli passati di moda. Come un drugstore della remota frontiera americana.
Mi avvicino al bancone.
C'è qualcuno?, chiedo senza ottenere risposta.
Ehi, c'è qualcuno?, ripeto alzando la voce.
Mentre osservo gli scaffali senza curiosità mi accorgo che nel negozio c'è un freddo bestiale. Improvvisamente, da dietro una porta dal vetro zigrinato di colore brunito compare una signora anziana che mi viene incontro malvolentieri. Indossa una buffa cuffia colorata, tre o quattro maglioni, uno sull'altro, e almeno tre paia di calzettoni di lana, oltre a un paio di pantofole di velluto a coste sottili.
Mi serve in silenzio, dopo un vago sorriso di benvenuto, e allora mi accommiato piu' rapidamente possibile.
Oltrepasso i campi innevati e gli orti addormentati, con le file di cavoli protette dal gelo con teli di plastica trasparente. Le cataste di fascine sono allineate lungo i filari di gelsi, freschi di potatura. Un gruppo di oche grasse e zoppicanti si avvicinano al bordo della strada.
Arrivo a destinazione che non sono nemmeno le dieci.
Dopo un paio di tentativi andati a vuoto, individuo l'ufficio giusto, che si trova in fondo a un ballatoio sospeso nel vuoto. Le antiche lastre di pietra basaltina sono rese scivolose dal ghiaccio, e così avanzo a piccoli passi. Non bastasse, sulla balaustra in ferro battuto c'è un cartello con la scritta: vietato appoggiarsi alla ringhiera.
Devo consegnare una pratica per richiedere un'Autorizzazione al Vincolo Idrogeologico.
Una volta, un agente immmobiliare che doveva trascrivere una clausola su una bozza di compromesso che recitava, piu' o meno, che "l'atto di compravendita era vincolato all'approvazione, da parte delle autorità competenti, del Piano dell'Assetto Idrogeologico", scrisse invece "all'approvazione del Piano dell'Assetto Ideologico". Non so se fu colpa del correttore automatico di Word, avete presente quella graffetta del cazzo che compare all'improvviso e modifica le parole a suo piacimento, sta di fatto che rileggendo piu' volte l'atto, lui non ci trovava nulla da ridire.
Piano dell'Assetto Ideologico.
Non suona male.
Roba da far rabbrividire George Orwell.
Roba da dittature serie.
Era un tipo niente male, quel mediatore. L'unico che ho conosciuto che non portasse scarpe a punta di vernice nera. Era solito darti una pacca sulle spalle, e dirti: Allora, tutto bene, caro architetto? Eh, sì, sta bene lei, caro architetto. Diceva sempre così a tutti, stai bene tu, caro te, state bene voi, cari voi.
(Si racconta che una sera fu invitato a cena da una coppia di amici che viveva con la madre di lei in casa, costretta da oltre un decennio dentro un polmone d'acciaio, e che non appena pronunciò la fatidica frase fu buttato fuori di casa a metà pasto, senza esitazioni, anzi: a calci nel culo).
Il tecnico non c'è.
La mattina va a fare fisioterapia.
Sa, recentemente ha avuto problemi col ginocchio, gli dava continuamente fastidio e così ha dovuto sottoporsi a un piccolo intervento chirurgico, mi spiega una sua collega, per nulla imbarazzata. La tipa non sospetta nemmeno che c'è qualcuno, come il sottoscritto, che deve fare un'ora e mezzo di strada per arrivare sino lì, in quel suo ufficio del cazzo, nel buco del culo del mondo, che alle pareti ci hanno persino attaccato anche la propaganda del candidato del centrodestra alle ultime elezioni provinciali, il che non mi aiuta a mantenere la calma e dunque a rapportarmi con lei con la dovuta educazione.
Sa, è un pò sovrappeso, e quindi le articolazioni sono sempre sotto sforzo.
Non so per quale ragione del cazzo, ma la tipa pensa che il quadro clinico di quel lardoso geometra possa in qualche modo suscitare il mio interesse.
Ah, beh, certo, rispondo io, cercando inultilmente di nascondere la mia irritazione.
E quando arriverebbe?, chiedo dopo una lunga pausa.
Verso le undici, risponde lei allontanandosi per andare a rispondere al telefono.
Non mi rimane che incamminarmi verso la piazza. Fa ancora freddo, e allora mi infilo in un bar qualsiasi. Presso il tavolino piu' vicino all'uscita, due avventori di mezz'età restano seduti a leggere la Gazzetta. Merda, altra brutta notizia. Devo controllare le formazioni, ho il match decisivo al Fantacalcio e non so ancora che Mourinho schiererà Balotelli e Thiago Motta.
Ordino un caffè e prendo posto su uno sgabello.
Dietro a un paravento decorato in modo floreale, un gruppo di donne discute del caso Morgan. Secondo me hanno fatto bene a lasciarlo a casa, dice la piu' giovane. A me sta antipatico, è arrogante e canta male, aggiunge, ma si vede benissimo che mente e che si farebbe scopare da lui, seduta stante, sui divanetti imbottiti del bar.
Un'altra ribatte che invece buttarlo fuori è ingiusto. Se si droga sono fatti suoi, proclama.
Scopro di non avere un'opinione al riguardo.
Mi viene in mente un titolo di Cuore, anno 1991 o 1992: I Beatles si drogavano. Mino Reitano no. Vogliamo parlarne?
Al bancone c'è una donna ancora giovane che continua a lamentarsi del tempo. Quest'anno non sono potuta andare via per via della malattia di mia madre, proclama piu' volte, ma l'anno prossimo scappo a novembre in una qualche isola caraibica e fino a marzo non torno. Ah, vi avverto, fino a marzo non mi vedete piu', ripete lei mentre la barista annuisce severamente.
Sembra quasi una minaccia.
Fosse per me, puoi stare via anche il resto dell'anno, sbuffa sarcastico uno dei due lettori della Gazzetta.
L'altro se la ride sotto i baffi.
Fratello, mi stai simpatico, sul serio, vorrei dirgli io, ma ti prego, lasciami leggere quella Gazzetta del cazzo, che devo vedere se gioca Balotelli.
sabato 19 settembre 2009
Il mio tema

Il castello di Montichiaro è avvolto, spettrale, nella nebbia.
Uno spiraglio di luce, assai debole, filtra tra i boschi che costeggiano il fiume, boschi resi umidi dalla brina mattutina. Sono bastati pochi giorni di pioggia, e già si sono riaperte le frane, dappertutto la strada è invasa da pietre e terriccio: sembra quasi che la montagna non riesca piu’ a restare su, che abbia invece la volontà di cadere, di rotolare a valle.
Non bastassero le frane, un cinghiale ha attraversato la provinciale, l’altra notte, proprio mentre noi tornavamo dalla riunione organizzativa per la scuola. Un bell’esemplare, il pelo folto e grigiastro, le zanne affilate in evidenza. Immobile, illuminato dai fari della nostra auto, a lungo ci ha osservato incuriosito. Trovarselo davanti, così improvvisamente, al buio, dopo una curva, vi assicuro, un po’ vi cagate sotto.
Alla riunione ci dicono che Agnese ha avuto finalmente i suoi maestri unici, quattro maestri unici, per la precisione: la maestra unica di matematica, la maestra unica di italiano, la maestra unica di inglese, il maestro unico di religione.
Crepi l’avarizia.
I loro nomi si sono saputi soltanto nella notte, dopo una lunga e inutile attesa, dopo una serie concitata di fax e telefonate. Tuttavia, non si può sapere se saranno loro ad accompagnarla durante il suo primo anno di scuola: a fine ottobre, per via degli strani meccanismi che regolano la scuola primaria, verranno richiamate le ulteriori code di precari in lista d’attesa, che potrebbero optare per Travo, e dunque lo scenario potrebbe cambiare. Sostituzioni, trasferimenti, e poi i soliti riscorsi, le sentenze del TAR di turno, ecc, e quindi fino a Natale, boh. E’ come il calciomercato di qualche anno fa. Sempre aperto.
Cazzo, mica male come partenza.
Quella di italiano, essendo di ruolo, quella però non cambierà. Deve aver firmato un triennale. A meno che non si svincoli per via della Legge Bosman…
In compenso i tagli – da alcuni piuttosto comicamente definiti “Riforma” – hanno riguardato non solo i docenti ma anche i bidelli, o meglio “personale ATA” o "AFA", non ho capito bene. E’ solo grazie ad alcuni di loro che – pur non essendo a loro richiesto – volontariamente (chissà se Brunetta lo sa) scorrazzano in tutta la valle, da un “plesso” all’altro, se negli ultimi tempi riesco a tenere aperte le scuole qui in montagna, dice sconsolata la direttrice. Ha lo sguardo abbattuto ma un piglio ancora deciso, nonostante tutto.
Il primo giorno di scuola.
Agnese è tranquilla.
Nemmeno un po’ di commozione, nemmeno una lacrima.
Certo, è corsa ad abbracciare sua mamma, appena ha sentito la campanella. La campanella che segnala l’inizio di tutto, un brivido che corre lungo la schiena.
Lo zaino delle Winx è stracolmo di libri, libretti, quaderni e quadernoni. E’ già piu’ pesante di un divanoletto. In fondo allo zaino, ci sono una mela e un succo di pera. Una merenda frugale. Come Pinocchio. O come Vasco. Mica come io e Paulette, che tutte le mattine ci compravamo una focaccina tonda dal vecchio Fumi, che aveva il negozio di alimentari proprio sotto casa. Non a caso, eravamo grassi inquartati. Costava sessanta lire: me lo ricordo bene. Anche se sono passati trentacinque anni. Una vita fa.
L’aula di Agnese è come è sempre stata.
Nulla è cambiato.
Ma nulla davvero.
Ci sono ancora i banchetti con il ripiano di formica verde chiaro, le seggioline di legno curvato, la lavagna con i gessetti colorati e il cancellino a spirale, come quello che ci lanciavamo dietro la schiena appena la maestra si girava, la cattedra con la struttura metallica e il buco tra il top e il laterale, attraverso il quale spiavamo le gambe di quella supplente di matematica. Portava sempre le calze a rete, quella zoccola.
C’è persino la carta geopolitica dell’Europa.
E poi un bellissimo pavimento di graniglia, di quelli di una volta. Solo le vecchie finestre in legno sono state sostituite dalle nuove in PVC. Erano mezze marce e lasciavano passare gelidi spifferi.
E' come fare un viaggio indietro nel tempo.
Anche i nomi dei suoi compagni sembrano arrivare dal passato: Teresa, Edoardo, Letizia, Giorgia.
L'aula non grande, ma i bambini sono solo undici, per cui c'è spazio da buttare. Vi chiederete: così pochi? Da queste parti, trattasi di classe assai numerosa. Perlomeno, è stato scongiurato il rischio di una pluriclasse.
A dire il vero, qualcosa che non quadra c’è: un quadretto di Papa Woityla, sopra la cattedra. Pensavo ci dovessero mettere il presidente della Repubblica. Non che sia un bell’uomo, quello no. Ma insomma. D’altronde, quì, la scuola chiude al mercoledì pomeriggio, perché il parroco fa la dottrina.
Guarda sempre il lato positivo delle cose, CJ. Almeno non c’è il pastore tedesco. Se c’era Nazinger, allora sì, che erano cazzi.
Se c’era Nazinger, mi inversavo sul serio.
Ma, in fin dei conti, cosa ti aspettavi, CJ?
Divanetti in finta pelle? Una tappezzeria etnochic? Tavolini in polipropilene con gambe in acciaio inox, magari disegnati da Philippe Starck? Un maxischermo a cristalli liquidi al posto della lavagna?
Niente di tutto questo, per fortuna.
C’è ancora, nonostante tutto, nonostante i tagli, la cara e vecchia scuola, grazie al cielo.
Ancora qualcosa a cui aggrapparci.
Mentre torniamo a casa, io e Sandra ci chiediamo: cosa starà facendo adesso Agnese?
Pagheremmo per essere là dentro. Sul serio.
L’importante è che si comporti bene, ci diciamo. Che poi, io non lo so se mi comportavo bene, a scuola. Di sicuro, mi toglievo sempre le scarpe, almeno in prima lo facevo, e spesso mi sdraiavo sul pavimento per disegnare. Me lo ripete sempre la mia vecchia maestra, tutte le volte che la incrocio sul sagrato della chiesa. Anche a casa, mi piaceva stare sdraiato sul pavimento - freddo - di marmo del salotto. Un modo di agire non del tutto civile, adesso che ci penso. In compenso, sapevo già leggere e scrivere. Sfido io, con tutti quei temi che ci faceva fare la Manza. Quasi sempre sulla mela. Tema: la mela. Non svariava troppo nei titoli, quella iena.
La scuola di Agnese adesso è lontana, e noi corriamo già. Dobbiamo affrontare il nuovo giorno che avanza. Con meno voglia, stamattina.
Giusto un pensiero sul tempo che scorre troppo in fretta, inesorabilmente.
Ci pensi poco, magari perchè hai ancora pochi capelli bianchi, o perchè ancora hai voglia di fare un pò il cazzone con gli amici, quelli rimasti, quelli veri.
Però passa lo stesso.
Agnese, alla vigilia del suo primo giorno di scuola, mi ha regalato un piccolo cuoricino fucsia – anzi fuffian, come diceva lei quando era piu'piccola – e lo ha attaccato sullo schermo del mio i-Phone.
Così ti ricorderai sempre di me, mi ha detto.
Ok, ho risposto io.
Così ti ricordi me quando sei morto, ha aggiunto.
Le ho sorriso, un sorriso amaro.
Non so se lo prenderò su, sai. Probabilmente, laggiu’ non c’è campo.
E dirò di pietre consumate, di città finite, morte sensazioni,
racconterò le mie visioni spente di fantasmi e gente lungo le stagioni
e canterò soltanto il tempo...
mercoledì 8 luglio 2009
Questo meravilglioso, piccolo e ottuso angolo di mondo

Arrivo in paese nel tardo pomeriggio.
C'è un afa pazzesca.
Una nuvola di vapore sale dall'asfalto bollente.
I grilli cantano della grossa, nel bel mezzo dei campi di grano dorato, e neppure le cicale se ne stanno zitte. Un frastuono terrificante.
Per raggiungere la piazza è un'Odissea.
Davanti a me ho una vecchia Panda 4x4 - qui tutti hanno almeno una Panda 4x4, in pratica è un requisito per ottenere la residenza: nel mio caso qualcuno ha chiuso un occhio - che avanza come fosse un somaro, con passo lento e andatura costante.
Al volante c'è un uomo col cappello. Starà andando ai trenta all'ora, non di più. Impossibile superarlo, la strada è stretta e piena di buche. Mi fa venire in mente lo zio Cecco, da Carpaneto. Erano anni che usava la sua Ritmo, color carta di zucchero e con i parafanghi in tinta carrozzeria, solo nel fine settimana. Un giorno sua sorella, sentendo gli sforzi del motore in terza sulla provinciale, era sabato mattina e stavano andando al mercato giu' in città, gli disse:
Cecco, perchè non metti la quarta?
Perchè? C'è anche la quarta?
Lascio l'auto nei pressi della nuova lottizzazione, dove le nuove villette con i loro archetti in calcestruzzo nascono come funghi, che non per tutti sono commestibili.
Al campo giochi l'erba è talmente alta che i piu' piccoli potrebbero perdersi.
Ci sono auto abbandonate ovunque. L'anarchia dei parcheggi è una nota dolente.
Anni fa un consigliere comunale arrivò per protesta a dimettersi - bei tempi - perchè qualcuno aveva tolto la rimozione forzata davanti al cippo dei partigiani, uno di quei cippi dove ancora puoi leggere frasi tipo: "caduti in cento epiche battaglie". Che poi, eccesso di retorica a parte, suonano davvero bene.
Anche quest'anno è estate, e la tranquillità è andata a farsi benedire.
Il paese, da poco uscito dal lungo torpore invernale, è stato improvvisamente invaso da una moltitudine di terrificanti umanoidi in tuta di cuoio nera, bandana al collo, rayban d'ordinanza e fronte perlata di sudore, in sella alle loro rombanti e scintillanti motociclette dalle marmitte cromate. Stazionano sotto la topia in canette di bambu' del bar in piazza, guardandosi attorno soddisfatti, con una pinta di birra in mano. Sembrano esponenti di una qualche setta satanica. A me un pò fanno paura, cazzo. Scommetto che ogni tanto buttano l'occhio per controllare che nessuno osi sfiorare le carrozzerie tirate a lucido dei loro mostri metallici.
Oddio, l'accoglienza per loro è piuttosto tiepida.
Qui ai villeggianti mica li attendono al varco con un comitato d'accoglienza e la banda di ottoni che suona una marcetta trionfale. Mica gli srotolano davanti ai piedi un tappetino rosso.
Gli va bene se li sopportano. Con malcelata riluttanza, come direbbe Lupo Alberto.
La leggenda narra che un oste della zona, non ricordo bene di quale frazione, apostrofò una coppia di milanesi - colpevoli di essere stati forse un pò pignoli nelle ordinazioni - con una frase che suonava più o meno così: ma con tutti i posti che c'erano da Milano fino a qui, ma proprio da me dovevate venire a rompere le balle?
Su un bellissimo muro in sassi e mattoni che costeggia le case che si spingono verso il fiume, sono stati affissi i manifesti per la convocazione dei comizi elettorali. Si sfidano quattro contendenti sindaci, tutti e quattro piu' o meno con lo stesso programma, divisi per lo piu' da rancori e inutili personalismi (nulla di cui stupirsi, dalle nostre parti per fare il presidente della Pro loco c'è chi sarebbe disposto a vendere la madre).
Tutti e quattro contro il parco del Trebbia, ovvio.
Qui, se qualcuno sente la parola parco, tirano fuori la pistola.
Sono peggio di Goebbels.
Dall'altra parte della strada, vedo un gruppetto di bambini dirigersi dal benzinaio per farsi gonfiare il pallone di cuoio.
Una scena d'altri tempi, che giaceva nascosta in qualche interstizio remoto della mia memoria. Una scena che mi ripaga della mia scelta di venire a vivere in questo piccolo, meraviglioso e ottuso angolo di mondo.
Oddio (e due), noi qui siamo stati accolti bene, superata una fase di diffidenza iniziale, insita nel DNA quasi montanaro.
E' gente che non si tira indietro, questa: se hai bisogno di qualcosa, puoi stare certo che si fanno in quattro per aiutarti.
Mi ricordo i primi tempi, le riunioni della sezione del partito - quando il partito era il partito, le sezioni si chiamavano ancora sezioni, e non circoli, quando non erano ancora in mano agli stupratori seriali - che facevamo in un ripostiglio della scuola media, senza finestre, seduti su vecchie cattedre accatastate con gente che fumava una sigaretta dietro l'altra. Non si respirava, cazzo. A turno, si usciva a prendere una boccata d'aria e poi si rientrava nello stanzino, come dei sub a corto di bombole. Si discuteva, Cristo, si discuteva anche animatamente, ma alla fine una soluzione si trovava.
E' stato proprio lì che ho fatto le mie prime amicizie, in paese.
Passo davanti al circolo Anspi, prorpio di fianco all'insegna dell'idraulico, un'enorme insegna al neon fuori scala che si accende a intermittenza.
Ci sono quattro vecchi seduti al tavolo che giocano a carte. Altri, in piedi, fanno da capannello e ogni tanto scuotono la testa, in segno di disapprovazione.
Porcamadonna, ma gioca il tre, no, cosa lo tieni in mano da fare?
Cosa dici gioca il tre! Ma se l'asso è ancora fuori, asino che non sei altro!
E tu prova lo stesso, coglione.
Ma cosa devo provare, d'un locco compagno...
Le carte finiscono presto rovesciate sul tavolo.
C'è da ordinare un altro giro di ortrugo frizzante, per sedare un pò gli animi.
Mi piacerebbe conoscerli tutti, questi arzilli vecchietti con le gote arrossate e il vestito della festa. A loro modo, sono dei personaggi famosi, in paese. Delle vere e proprie istituzioni. In questi anni ho ascoltato decine di racconti e di aneddoti, ma l'unico che mi viene in mente, adesso, è questo: c'è un tipo sempre brillo che è a casa di amici a giocare alle carte, all'improvviso si alza dal tavolo e dice: bon, io vado a pisciare e poi si inoltra nel corridoio; la moglie del padrone di casa lo insegue per anticiparlo e per mettere un pò a posto il casino che il marito gli lascia sempre in bagno, ma il tipo, iniziando a orinare su un tappeto nel bel mezzo del corridoio, le dice: non disturbarti, donna, piscio qui.
E intanto la briscola riparte, e volano ancora dei porcodio.
Qui non ci fa piu' caso nessuno, neanche il prete, che poi tra parentesi arriva da Milano e non se lo fila nessuno.
E poi, finalmente, tornerà l'autunno, e la calma tornerà a regnare.
Delle sagre e delle feste agostane rimarranno solo echi sfuggenti, la pedana metallica per ballare il liscio da smontare e qualche chiazza di olio frusto, e di grasso di carne di maiale, sulle lastre di pietra di Luserna della piazza del borgo antico.
mercoledì 25 marzo 2009
L'apocalisse è alle porte

I primi segnali, adesso che ci penso, avevano fatto la loro comparsa nello scorso fine settimana.
Prima un fagiano spiaccicato sull'asfalto, nei pressi del Parco della Galleana. Le sue belle piume variopinte, nonostante tutto, brillavano attraverso il parabrezza.
Poi un cane che mi attraversa la strada all'improvviso.
Segnali inequivocabili, ai quali tuttavia non ho dato il giusto peso.
Che peso vuoi dare a un cane che ti attraversa improvvisamente la strada?
Ora invece ho capito tutto: gli animali si stanno preparando a un suicidio collettivo.
Non si spiegherebbe altrimenti.
Evidentemente, loro sanno qualcosa che noi non sappiamo.
Ieri sera, sulla strada del ritorno a casa, ne ho finalmente la certezza.
Sul lungo rettilineo di Croara, mentre procedo a velocità tutto sommato moderata, proprio nel mezzo della carreggiata mi ritrovo un riccio.
E' immobile.
Si appallottola su se' stesso ed estrae i suoi aculei appuntiti.
Cazzo vuoi fare, con quei tuoi patetici aculei, a un treno di Michelin 215/75 R15-100in piena corsa?
Eppure l'idiota mette fuori il muso e rimane lì a fissarmi - con aria di sfida, posso leggergli negli occhi tutto il suo odio nei miei confronti, odio maturato da tutti i disastri dei quali si è resa responsabile la razza umana - mentre lo sfilo di pochi centimetri con la mia ruota anteriore sinistra.
Nello stesso istante, mi sorpassa una Mini Cooper - un esemplare del modello nuovo, quello che sembra la vecchia Mini reduce da una cura massiccia di steroidi e anabolizzanti che neanche Del Piero - e al momento non so dirvi se anch'essa riesce a evitarlo con la sua anteriore destra: se così è andata, quel fottuto riccio si è ritrovato proprio in mezzo alle due auto in corsa.
Roba da infarto.
Ma non finisce qui.
Nei pressi della chiesa di Statto, due gatti dal pelo rossiccio e raffazzonato mi osservano da lontano, ma non si spostano dalla mia corsia, così mi vedo costretto a scartare di alto e invadere la corsia opposta.
Fortuna che a quest'ora non c'è in giro un cazzo di nessuno.
E poi ci si mettono anche gli uccelli, Cristo santo.
A pochi metri dal bivio di Fiorano, dopo la mezza curva a gomito che precede l'ingresso al ponte di mattoni, scorgo un passerotto sull'asfalto reso lucido dalla luce al neon dei lampioni al margine della strada.
Cazzo ci fa, lì, lo sa solo il Signore.
Probabilmente è ferito, è ferito a un'ala e non riesce più a volare.
Arresto la marcia e tamburello nervosamente le dita grassocce sul volante, mentre aspetto che il piccoletto si allontani, con quei suoi timidi passettini, quel tanto da potermi consentire di procedere verso casa.
Fai pure con comodo, cazzo, non ho mica fretta.
Forse è vero, loro sanno qualcosa che noi non sappiamo.
La cosa peggiore sono gli animali. A un certo punto, a luglio, sono scappati tutti, nessuno escluso. Uno non ci fa nemmeno caso, fino a quando non scompaiono. A un certo punto, il silenzio. Non ci sono uccelli che cantano. Non ci sono scoiattoli che fanno acrobazie sui rami o che scorrazzano per la soffitta. Perfino i grilli: scomparsi. Cani, gatti, criceti: spariti. Il gatto di mia madre, Pois, se n'è andato chissà dove molto tempo fa. Lei ha pianto per giorni interi. Gli animali che non potevano andarsene sono molti nelle gabbie. Il mio pesce rosso, a pancia in su nella vaschetta. Sono tutti morti, gli animali scomparsi? O se ne sono andati tutti in un altro posto, con un esodo di massa nel cuore della notte? Un gregge, un branco, una mandria, un'orda. In fila per due lungo la strada? Verso qualche posto sicuro? Non lo sapremo mai.
- Sono i topi che abbandonano la nave che affonda, - dice mio padre. - Loro sanno qualcosa che noi non sappiamo.
"I giorni del cane"
Judy Budnitz
martedì 17 febbraio 2009
Letame
(Attenzione: contiene liriche esplicite)

Il pallido sole è appena sbucato nella valle e nulla può, per ora, contro la brina che durante la notte ha avvolto le colline dall'erba ingiallita.
Il termometro segna ancora sotto zero.
Devo ricredermi: domenica mi ero illuso che la primavera sarebbe presto arrivata.
Invece c'è il gelo.
Il fiume scorre tranquillo. C'è una quiete impressionante, dopo le ondate di piena delle ultime settimane. Gli argini questa volta hanno tenuto, non c'è stata nessuna tracimazione - non dobbiamo usare il termine "esondazione", ci ha detto il maestrone l'altra sera - ed è già una notizia.
Altre notizie incombono.
Il radiogiornale snocciola, impietoso, i dati delle elezioni sarde.
Si è perso, sai che novità.
In questo paese di merda.
Lo speaker potrebbe evitare di infierire, ripetendo, con quella sua voce stridula da tacchino, tutti quei numeri e quelle percentuali, con precisione maniacale. Cazzo, potrebbe capire il mio, il nostro momento di difficoltà, quel figlio di puttana. Potrebbe sorvolare, che so, fare solo un cenno fugace e rimandare tutti gli ascoltatori interessati a un ulteriore approfondimento successivo, cosicchè tutti gli altri possano cambiare stazione o addirittura spegnere la radio.
E invece no.
Quel bastardo, insensibile e forse addirittura sadico, manda in onda persino un commento di Gasparri.
Segnati il nome di questo bastardo, penso io.
Uno dice: ma ormai si perde sempre, non fa più nemmeno male. Un pò è vero: prevale da tempo immemorabile un'apatica e lucida rassegnazione. Tuttavia, è pur sempre vero quello che diceva il Principe di Niviano (qualcuno lo ricorderà, era uno dei tipici avventori dell'osteria del Doriano, alla Pieve, dove si poteva avere un gin tonic per millecinquecento lire): "la prima volta fa male, ma la seconda è anche peggio, perchè si rompono le croste". (Il Principe, mezzo poeta e mezzo filosofo, era un intellettuale un pò da battaglia, lo avrete capito...
E il Doriano, lo chiamavamo così perchè la panca di legno appena fuori dal locale era dipinta a strisce azzurre, bianche, rosse e blu.
Nessuno gli ha mai chiesto perchè. E magari lui teneva alla Juve...)
Non puoi ascoltare Gasparri, Country Joe.
A tutto c'è un limite, cazzo.
Devi reagire.
E allora metto in atto la mia vibrante protesta: spengo la radio.
Metto un cd a caso: "Dry your eyes", un rap malinconico e ossessivo di The Streets.
Sembra perfetto.
Con il passare dei minuti, la vasta pianura pare riprendere conoscenza.
Contemplo il succedersi ripetitivo dei campi. La loro aratura rasenta la perfezione, infinite linee parallele che si perdono all'orizzonte.
In mezzo ai campi ci sono alcuni trattori giganteschi, sembrano animali preistorici, con quelle loro stupide ruote dalle dimensioni assurde. Forse sono creature mitologiche. Quei fottuti moloch sono là che spandono liquami nerastri dappertutto, con ovvie ricadute sulla qualità dell'aria.
Ruoto la manopola che ne regola l'ingresso nell'abitacolo e mi giro verso Agnese, che nel frattempo se ne resta lì seduta sul suo seggiolino e si gira tra le mani un pupazzo a forma di topo color fucsia.
Se ne sbatte, lei, di Soru.
- Che odore!, - le faccio.
- Non sono stata io, - risponde lesta lei, avendo già capito di cosa la sto per accusare.
- E allora chi è stato?
- Tu!
- Non sono stato io. E' l'odore del letame.
- Cos'è?
- La cacca della mucca. I contadini la stanno buttando sui campi.
Agnese scrolla la testa, con il suo sorriso più bello stampato sul viso, lo posso vedere attraverso lo specchietto retrovisore. Cerco il suo sguardo, e mi accorgo che non mi crede. Nulla di cui stupirsi. Normalmente lei non crede a quello che dico. Non c'è da biasimarla. Mi diverto troppo a prenderla in giro, raccontandole le cose più assurde, e più sono assurde più le giuro che è vero. Quasi sempre cose raccapriccianti, di spirito pecoreccio.
L'altro giorno si stava frugando nel naso, e allora le ho detto: - Se trovi qualche caccola, dammela, per favore. Faccio la collezione. Le metto via tutte, in un cassetto su in soffitta. Ho ancora quelle di quando ero bambino...
- Sul serio, Agnese. Prendono la cacca delle mucche e la distribuiscono sui campi, per renderli più fertili. Così ci crescono verdure più grandi e più buone.
- Che schifo!
- Può sembrare che faccia schifo, ma è così. Con la cacca delle mucche ci fanno dei pomodori giganti!
- Non è vero.
- Sì che è vero. Puoi chiederlo alla mamma.
Agnese guarda fuori dal finestrino, pensierosa, in direzione dei campi coltivati.
Dopo qualche attimo di silenzio, sentenzia:
- Se ci pensi, papà, le verdure crescono nella terra. Non crescono nella cacca delle mucche.

Il pallido sole è appena sbucato nella valle e nulla può, per ora, contro la brina che durante la notte ha avvolto le colline dall'erba ingiallita.
Il termometro segna ancora sotto zero.
Devo ricredermi: domenica mi ero illuso che la primavera sarebbe presto arrivata.
Invece c'è il gelo.
Il fiume scorre tranquillo. C'è una quiete impressionante, dopo le ondate di piena delle ultime settimane. Gli argini questa volta hanno tenuto, non c'è stata nessuna tracimazione - non dobbiamo usare il termine "esondazione", ci ha detto il maestrone l'altra sera - ed è già una notizia.
Altre notizie incombono.
Il radiogiornale snocciola, impietoso, i dati delle elezioni sarde.
Si è perso, sai che novità.
In questo paese di merda.
Lo speaker potrebbe evitare di infierire, ripetendo, con quella sua voce stridula da tacchino, tutti quei numeri e quelle percentuali, con precisione maniacale. Cazzo, potrebbe capire il mio, il nostro momento di difficoltà, quel figlio di puttana. Potrebbe sorvolare, che so, fare solo un cenno fugace e rimandare tutti gli ascoltatori interessati a un ulteriore approfondimento successivo, cosicchè tutti gli altri possano cambiare stazione o addirittura spegnere la radio.
E invece no.
Quel bastardo, insensibile e forse addirittura sadico, manda in onda persino un commento di Gasparri.
Segnati il nome di questo bastardo, penso io.
Uno dice: ma ormai si perde sempre, non fa più nemmeno male. Un pò è vero: prevale da tempo immemorabile un'apatica e lucida rassegnazione. Tuttavia, è pur sempre vero quello che diceva il Principe di Niviano (qualcuno lo ricorderà, era uno dei tipici avventori dell'osteria del Doriano, alla Pieve, dove si poteva avere un gin tonic per millecinquecento lire): "la prima volta fa male, ma la seconda è anche peggio, perchè si rompono le croste". (Il Principe, mezzo poeta e mezzo filosofo, era un intellettuale un pò da battaglia, lo avrete capito...
E il Doriano, lo chiamavamo così perchè la panca di legno appena fuori dal locale era dipinta a strisce azzurre, bianche, rosse e blu.
Nessuno gli ha mai chiesto perchè. E magari lui teneva alla Juve...)
Non puoi ascoltare Gasparri, Country Joe.
A tutto c'è un limite, cazzo.
Devi reagire.
E allora metto in atto la mia vibrante protesta: spengo la radio.
Metto un cd a caso: "Dry your eyes", un rap malinconico e ossessivo di The Streets.
Sembra perfetto.
Con il passare dei minuti, la vasta pianura pare riprendere conoscenza.
Contemplo il succedersi ripetitivo dei campi. La loro aratura rasenta la perfezione, infinite linee parallele che si perdono all'orizzonte.
In mezzo ai campi ci sono alcuni trattori giganteschi, sembrano animali preistorici, con quelle loro stupide ruote dalle dimensioni assurde. Forse sono creature mitologiche. Quei fottuti moloch sono là che spandono liquami nerastri dappertutto, con ovvie ricadute sulla qualità dell'aria.
Ruoto la manopola che ne regola l'ingresso nell'abitacolo e mi giro verso Agnese, che nel frattempo se ne resta lì seduta sul suo seggiolino e si gira tra le mani un pupazzo a forma di topo color fucsia.
Se ne sbatte, lei, di Soru.
- Che odore!, - le faccio.
- Non sono stata io, - risponde lesta lei, avendo già capito di cosa la sto per accusare.
- E allora chi è stato?
- Tu!
- Non sono stato io. E' l'odore del letame.
- Cos'è?
- La cacca della mucca. I contadini la stanno buttando sui campi.
Agnese scrolla la testa, con il suo sorriso più bello stampato sul viso, lo posso vedere attraverso lo specchietto retrovisore. Cerco il suo sguardo, e mi accorgo che non mi crede. Nulla di cui stupirsi. Normalmente lei non crede a quello che dico. Non c'è da biasimarla. Mi diverto troppo a prenderla in giro, raccontandole le cose più assurde, e più sono assurde più le giuro che è vero. Quasi sempre cose raccapriccianti, di spirito pecoreccio.
L'altro giorno si stava frugando nel naso, e allora le ho detto: - Se trovi qualche caccola, dammela, per favore. Faccio la collezione. Le metto via tutte, in un cassetto su in soffitta. Ho ancora quelle di quando ero bambino...
- Sul serio, Agnese. Prendono la cacca delle mucche e la distribuiscono sui campi, per renderli più fertili. Così ci crescono verdure più grandi e più buone.
- Che schifo!
- Può sembrare che faccia schifo, ma è così. Con la cacca delle mucche ci fanno dei pomodori giganti!
- Non è vero.
- Sì che è vero. Puoi chiederlo alla mamma.
Agnese guarda fuori dal finestrino, pensierosa, in direzione dei campi coltivati.
Dopo qualche attimo di silenzio, sentenzia:
- Se ci pensi, papà, le verdure crescono nella terra. Non crescono nella cacca delle mucche.
domenica 18 gennaio 2009
Ritorno al Penice, 02

Avevamo appena preso possesso delle nostre squallide camere, ancora non avevamo iniziato a svuotare le nostre valigie, che il mitico Chio**** ne aveva già combinata una delle sue.
La prima di una lunga serie, qui in settimana bianca, quella lunga serie che lo proietterà di diritto nell'Olimpo dei migliori compagni di classe di sempre.
La temperatura era sotto zero, e sulle balconate in tavole di legno erano appese gigantesche stallattiti di ghiaccio: alcune erano lunghe quasi mezzo metro.
- Non toccate le stalattiti!, aveva appena finito di dire la maestra, - potreste farvi male!, che ecco venirle incontro dal piano di sopra un altro nostro compagno, In***, in lacrime, con una mano tutta sanguinante. Chio**** gli aveva letteralmente aperto la mano durante un duello di fioretto con due stalattiti particolarmente appuntite.
Era il numero uno, Chio****.
Fu uno dei primi esempi, un esempio quasi ante litteram, di bullismo nella scuola pubblica, anche se in questo caso stiamo parlando un bullismo divertente, pecoreccio, tutto sommato innocuo (a parte la mano sanguinante di In***, si intende). Figlio di un poliziotto emigrato a Piacenza da chissà quale città del sud, abitava in quelle case popolari anni Trenta che ci sono all'inizio del Facsal.
Per tutte le elementari, fu il nostro indiscusso leader.
Tanto per dirne una, era lui il nostro capitano al torneo di Sant'Anna (negli annali rimane un suo clamoroso rigore sprecato, scivolando su una pozzanghera durante la fase di rincorsa, proprio nel match decisivo contro la squadra di Gigi la Puzza).
Nemmeno il fatto che a scuola fosse una mezza sega, e anzi una vera e propria sega - all'esame di quinta aveva portato il Veneto: la commissione, con davanti un'enorme cartina geografica, gli chiese di indicare la posizione del Veneto, e lui partì dalla Sicilia, poi la Puglia, ecc... per poi arrivare al Veneto dopo un'interminabile e comico giro d'Italia - poteva intaccare il suo innegabile e inarrivabile carisma. Anzi, ne accresceva l'aura di compagno maledetto.
La prima lezione di sci gli causò i primi problemi seri. Perse uno sci a metà pomeriggio, durante una delle sue ultime goffe discese, e per recuperarlo - all'epoca, stiamo parlando di metà anni '70, gli sci non montavano quei piccoli freni a lato degli attacchi - decise di buttarsi giù per una pista ripida con uno sci solo. Si smarrì nel bosco, tanto che fu necessario andarlo a riprendere con un gatto delle nevi, e rientrò in albergo quando tutti noi stavamo già cenando.
Un'altra sera mandò nel panico la maestra. Era già mezzanotte, ormai, e come di consueto lei aveva fatto una ricognizione di tutte le stanze per sincerarsi che fosse tutto a posto, e che non mancasse nessuno, ma Chio**** non c'era. I suoi compagni di stanza, quella sera, non l'evevano visto proprio. Fummo svegliati tutti, e a tutti ci venne chiesto dov'era Chio****, ma nessuno lo sapeva. La maestra era disperata.
Chio**** era scappato.
Magari stava cercando di tornare a casa, nel gelo di una notte d'inverno, solo e sperduto nella notte.
Sconvolta, la maestra decise allora di andare a chiamare la polizia, o i carabinieri di Bobbio, qualcuno insomma, e intanto probabile che pensava: ma chi me lo fa fare di portare in settimana bianca queste piccole teste di cazzo?
Scese nella hall dell'albergo per chiedere un telefono. Mentre apettava qualcuno del personale, gettò un rapido sguardo nella saletta del bar. Che mi venga un colpo se quello seduto al tavolo con i maestri di sci non è lui, pensò, se quel piccolo bastardo che canta a squarciagola mentre gioca a carte e beve delle birre al tavolo dei maestri di sci, non è lui, non è Chio****.
Quandò entrò nella saletta per andare a prenderlo per un'orecchio e trascinarlo nella sua stanza, Chio**** non fece una piega, come se trovarsi lì fosse del tutto normale, anzi si lagnò un poco per il fatto che stava vincendo dei soldi.
Poteva fargli finire almeno la mano, cazzo.
Ma il suo capolavoro fu certamente quello della gara di pupazzi di neve.
Maschi contro femmine.
Chi costruiva il pupazzo di neve più bello vinceva.
Occorre qui rammentare che, in seconda elementare, a queste gare ci si teneva da Dio. Dovevamo farglela vedere, a quelle sgualdrinelle. Noi maschi stavamo dunque lavorando alacremente e il nostro pupazzo prendeva forma. Ma le femmine non demordevano, anche grazie all'aiuto - poco sportivo, a nostro modo di vedere - della maestra stessa. Allora ci fu una pausa di riflessione.
- Dobbiamo costruirlo ancora più grande, - disse qualcuno.
- Serve ancora della neve, - disse qualcun'altro.
- Ci penso io!, - proclamò solennemente Chio****.
Il nostro carismatico leader si stava avvicinando al pupazzo con un bidone della spazzatura tra le mani. Ovviamente, era appena nevicato, per cui la sommità del bidone era ricoperta da uno strato di neve fresca.
Tutto si svolse così rapidamente, non ci fu il tempo per fermarlo.
Ricordo perfettamente quella scena, è come se si svolgesse di nuovo qui davanti a me, al rallenty.
Lui che si trascina dietro, con grande fatica, il bidone metallico.
Lui che si accosta al pupazzo di neve, incurante dei richiami di alcuni di noi che già presagivano il peggio.
Lui che raccoglie le sue forze e che solleva il bidone, con il viso reso paonazzo dallo sforzo.
Lui che rovescia il contenuto del bidone stesso - un sottile strato di neve fresca, e poi: cartacce, lattine di birra, pacchetti di patatine, kleenex accartocciati, bucce di arance, rifiuti domestici di vario tipo - sul pupazzo di neve della squadra dei maschi.
Inutile stare qui a raccontarvi chi ha vinto la gara.
sabato 10 gennaio 2009
Ritorno al Penice, 01
E' il giorno di Santo Stefano, e dobbiamo farci trovare già pronti sulle piste, alle dieci in punto. Non è facile svegliare Agnese, convincerla a vestirsi in fretta con la calzamaglia rossa e la tuta imbottita, talmente gonfia da farla sembrare un pagliaccio del circo, impedirle la consueta razione mattiniera di cartoni e, con il biberon - al biberon non ci rinuncia, per nessuna ragione al mondo - ancora pieno a metà, farla salire in macchina per dirigerci verso le vette innevate del Penice. Mentre fuori, quasi, è ancora buio.
E' la sua prima lezione di sci.
Per questo riesco nella difficile impresa, Agnese è molto motivata, da quando ha visto sfrecciare Anna e Bianca qualche domenica prima si è messa in testa che anche lei deve andarci, sugli sci.
L'appuntamento è fissato al bar Travo verso le nove meno un quarto, ma di Anguilla e degli altri amici non c'è traccia. Verso le nove, ormai spazientito, decido di cominciare ad avviarmi. Chiamo gli altri, io intanto vado, dico, ci vediamo là.
Tragico errore tattico.
Fino a Bobbio, tutto bene. E' sui primi tornanti della strada che conduce al passo che sorgono i primi problemi. La temperatura scende rapidamente sotto zero, e cominciano a scendere i fiocchi di neve, leggerissimi, che fluttuano nell'aria come fossero piume di un uccello. La strada in pochi istanti si imbianca.
Procedo a velocità assai ridotta. Non ho le gomme da neve e, malgrado si tratti di pneumatici quasi nuovi, sento l'auto sbandare pericolosamente. Quando ormai mi sembra di aver scampato il pericolo, la Multipla davanti a noi - la fottuta Multipla davanti a noi - improvvisamente si inchioda e non riesce più a ripartire.
Merda.
Fottuta Multipla del cazzo.
Ovviamente, non riesco a scartarla di lato, sarebbe stata una manovra un pò azzardata considerata la mia tenuta di strada alquanto approssimativa, e così sono costretto a fermarmi anch'io. Faccio per ripartire ma niente, le gomme slittano sulla neve e la macchina scivola inesorabilmente all'indietro. Caccio due madonne, ma solo due perchè in fin dei conti è sempre Santo Stefano, e scendo dalla Scenìc per recuperare le catene dal baule. Non muoverti di qui, dico ad Agnese, che mi osserva divertita dal finestrino. Sotto un'abbondante nevicata, sdraiato sul piumino disposto sulla strada innevata, cerco di montarle come riesco: trattasi infatti di oggetti diabolici, se trovo chi le ha inventate me lo inculo, lo giuro.
Una decina di minuti dopo sfreccia Anguilla a tutta velocità, non potevo fermarmi, mi dirà più tardi, altrimenti non sarei più ripartito nemmeno io.
Sto per finire il mio patetico lavoretto che si ferma un fuoristrada grigio in mio soccorso.
Scende un ragazzo che mi avvicina e mi fa: hai bisogno di aiuto?
Mentre mi osserva negli ultimi dettagli, scrolla la testa e mi fa: perchè monti le catene di dietro?
Non vanno davanti?
Ovvero: ho montato le catene sulle ruote posteriori, sulla mia Scenìc, che notoriamente ha la trazione anteriore, come quasi la totalità delle auto in commercio.
Questo per dirvi che razza di stronzo sono.
Allora smonto le catene con freddezza inusuale, con gesti quasi automatici. Anzi per la verità ne smonto solo una, la rimonto in tutta fretta sulla ruota anteriore sinistra, e poi controllo l'orologio: cazzo, sono quasi le dieci. E' tardissimo. Perderemo la lezione. Così decido di imbarcarmi sugli ultimi tornanti con una catena davanti e una catena dietro, dimenticando persino la scatola che le conteneva sul ciglio della strada. Miracolosamente - qualcuno deve avermi sentito, prima - arriviamo al passo, con la Scenìc che sculetta visibilmente a ogni curva, non prima di aver perso una delle due catene in prossimità dell'ultima curva a gomito.
Quando scendo dall'auto, una volta arrivati, trovo gli amici ad aspettarmi con la faccia incredula.
Devo avere veramente un brutto aspetto, con la giacca a vento sporca di fango e le mani che quasi sanguinano per il gelo, se decidono di non infierire e di partire alla ricerca di catena e scatola e di tutto ciò che ho disseminato sulla strada, novello Pollicino.
(Per la cronaca: anche l'altra catena è stata montata da schifo e si è incastrata dietro al cerchione in lega, tanto che è stato necessario smontare addirittura la gomma per recuperarla...)
Mi rimane poco tempo, e quindi porto Agnese - che non ha mai smesso di dire: che bravo Papà, siamo arrivati fino in cima; bravo un cazzo, avrei voluto dirle - giù al noleggio, le allaccio gli scarponi, le faccio regolare gli attacchi e poi l'accompagno sulle piste. Lei sembra un soldatino. Nemmeno un lamento, che so: ho i piedi gelati, oppure ho gli scarponi troppo stretti, roba così.
Eppure c'è un freddo pungente.
Deve aver capito che non è giornata.
Poi torno sul piazzale ghiacciato, dove ad aspettarmi ci sono gli amici che nel frattempo mi hanno sistemato la Scenìc. Mi guardano con le loro facce da cazzoni. Anguilla mi fa: io non dico niente. Ridacchia sommessamente, il bastardo. E' chiaro che non vede l'ora di sputtanarmi a destra e manca. Insiste: il mio silenzio si può comprare. Tutto si può comprare, a questo mondo.
Allora entriamo nel rifugio e offro a tutti un punch caldo.
Non basterà, tra poche ore lo saprà tutto il paese.
Mentre sono al bancone mi avvicina un tipo anziano e mi dice, passavo di lì e ti ho visto montare le catene di dietro, ma come si fa, Cristo, a montare le catene di dietro?
Gli rispondo: prima di tutto sono un coglione.
E poi, non penso mai a quello che faccio.
E lui, pensieroso: la tua sincerità è da apprezzare.
Sorrido, e faccio il gesto di brindare verso la sua direzione.
Poi scendo di nuovo sulla pista, per ammirare il coraggio di quella piccola incosciente che già si vuole buttare giù sulla discesa.
Dopo un pò che la osservo, mentre risale con la manovia, lei se ne accorge e mi saluta con la manina guantata.
Mi emoziono, non posso farci niente.
Guardo nel cielo la neve che scende e poi rido, cos'altro devo fare.
E' la sua prima lezione di sci.
Per questo riesco nella difficile impresa, Agnese è molto motivata, da quando ha visto sfrecciare Anna e Bianca qualche domenica prima si è messa in testa che anche lei deve andarci, sugli sci.
L'appuntamento è fissato al bar Travo verso le nove meno un quarto, ma di Anguilla e degli altri amici non c'è traccia. Verso le nove, ormai spazientito, decido di cominciare ad avviarmi. Chiamo gli altri, io intanto vado, dico, ci vediamo là.
Tragico errore tattico.
Fino a Bobbio, tutto bene. E' sui primi tornanti della strada che conduce al passo che sorgono i primi problemi. La temperatura scende rapidamente sotto zero, e cominciano a scendere i fiocchi di neve, leggerissimi, che fluttuano nell'aria come fossero piume di un uccello. La strada in pochi istanti si imbianca.
Procedo a velocità assai ridotta. Non ho le gomme da neve e, malgrado si tratti di pneumatici quasi nuovi, sento l'auto sbandare pericolosamente. Quando ormai mi sembra di aver scampato il pericolo, la Multipla davanti a noi - la fottuta Multipla davanti a noi - improvvisamente si inchioda e non riesce più a ripartire.
Merda.
Fottuta Multipla del cazzo.
Ovviamente, non riesco a scartarla di lato, sarebbe stata una manovra un pò azzardata considerata la mia tenuta di strada alquanto approssimativa, e così sono costretto a fermarmi anch'io. Faccio per ripartire ma niente, le gomme slittano sulla neve e la macchina scivola inesorabilmente all'indietro. Caccio due madonne, ma solo due perchè in fin dei conti è sempre Santo Stefano, e scendo dalla Scenìc per recuperare le catene dal baule. Non muoverti di qui, dico ad Agnese, che mi osserva divertita dal finestrino. Sotto un'abbondante nevicata, sdraiato sul piumino disposto sulla strada innevata, cerco di montarle come riesco: trattasi infatti di oggetti diabolici, se trovo chi le ha inventate me lo inculo, lo giuro.
Una decina di minuti dopo sfreccia Anguilla a tutta velocità, non potevo fermarmi, mi dirà più tardi, altrimenti non sarei più ripartito nemmeno io.
Sto per finire il mio patetico lavoretto che si ferma un fuoristrada grigio in mio soccorso.
Scende un ragazzo che mi avvicina e mi fa: hai bisogno di aiuto?
Mentre mi osserva negli ultimi dettagli, scrolla la testa e mi fa: perchè monti le catene di dietro?
Non vanno davanti?
Ovvero: ho montato le catene sulle ruote posteriori, sulla mia Scenìc, che notoriamente ha la trazione anteriore, come quasi la totalità delle auto in commercio.
Questo per dirvi che razza di stronzo sono.
Allora smonto le catene con freddezza inusuale, con gesti quasi automatici. Anzi per la verità ne smonto solo una, la rimonto in tutta fretta sulla ruota anteriore sinistra, e poi controllo l'orologio: cazzo, sono quasi le dieci. E' tardissimo. Perderemo la lezione. Così decido di imbarcarmi sugli ultimi tornanti con una catena davanti e una catena dietro, dimenticando persino la scatola che le conteneva sul ciglio della strada. Miracolosamente - qualcuno deve avermi sentito, prima - arriviamo al passo, con la Scenìc che sculetta visibilmente a ogni curva, non prima di aver perso una delle due catene in prossimità dell'ultima curva a gomito.
Quando scendo dall'auto, una volta arrivati, trovo gli amici ad aspettarmi con la faccia incredula.
Devo avere veramente un brutto aspetto, con la giacca a vento sporca di fango e le mani che quasi sanguinano per il gelo, se decidono di non infierire e di partire alla ricerca di catena e scatola e di tutto ciò che ho disseminato sulla strada, novello Pollicino.
(Per la cronaca: anche l'altra catena è stata montata da schifo e si è incastrata dietro al cerchione in lega, tanto che è stato necessario smontare addirittura la gomma per recuperarla...)
Mi rimane poco tempo, e quindi porto Agnese - che non ha mai smesso di dire: che bravo Papà, siamo arrivati fino in cima; bravo un cazzo, avrei voluto dirle - giù al noleggio, le allaccio gli scarponi, le faccio regolare gli attacchi e poi l'accompagno sulle piste. Lei sembra un soldatino. Nemmeno un lamento, che so: ho i piedi gelati, oppure ho gli scarponi troppo stretti, roba così.
Eppure c'è un freddo pungente.
Deve aver capito che non è giornata.
Poi torno sul piazzale ghiacciato, dove ad aspettarmi ci sono gli amici che nel frattempo mi hanno sistemato la Scenìc. Mi guardano con le loro facce da cazzoni. Anguilla mi fa: io non dico niente. Ridacchia sommessamente, il bastardo. E' chiaro che non vede l'ora di sputtanarmi a destra e manca. Insiste: il mio silenzio si può comprare. Tutto si può comprare, a questo mondo.
Allora entriamo nel rifugio e offro a tutti un punch caldo.
Non basterà, tra poche ore lo saprà tutto il paese.
Mentre sono al bancone mi avvicina un tipo anziano e mi dice, passavo di lì e ti ho visto montare le catene di dietro, ma come si fa, Cristo, a montare le catene di dietro?
Gli rispondo: prima di tutto sono un coglione.
E poi, non penso mai a quello che faccio.
E lui, pensieroso: la tua sincerità è da apprezzare.
Sorrido, e faccio il gesto di brindare verso la sua direzione.
Poi scendo di nuovo sulla pista, per ammirare il coraggio di quella piccola incosciente che già si vuole buttare giù sulla discesa.
Dopo un pò che la osservo, mentre risale con la manovia, lei se ne accorge e mi saluta con la manina guantata.
Mi emoziono, non posso farci niente.
Guardo nel cielo la neve che scende e poi rido, cos'altro devo fare.
mercoledì 7 gennaio 2009
Olio di gomito
Al ritorno è tutto come prima: sale grosso, pala e olio di gomito.
Come dire, il nuovo anno parte alla grande...
C'è voluta più di un'ora, ieri pomeriggio, per issare quel vecchio bestione dell'America sullo stradello di casa, dieci tonnellate di fottuta vetroresina. Fortuna che mi ha aiutato il Gio.
E giovedì scorso era andata anche a peggio, con la batteria a terra e il gasolio che si era ghiacciato nel serbatoio. Siamo riusciti a partire solo dopo l'intervento provvidenziale del Carlino, che sant'uomo. Carlino è l'elettrauto di Rivergaro.
Bisognerebbe fargli un monumento nella piazza pubblica al Carlino, giù a Rivergaro. Mi ha detto: se succede ancora, controlli il filtro del carburante, lo sa dov'è, vero? Gli ho detto: non solo non so dov'è, non so nemmeno cosa sia. Se ne è andato solo dopo essersi sincerato che non avrei toccato nulla senza il suo permesso. Mi ha prestato persino una batteria di scorta e i cavi per il collegamento, perchè i miei - non si offenda, mi ha detto il Carlino - erano veramente dei cavi grammi.
E ho dovuto insistere per pagarlo.
Cazzo aspettano a farglielo davvero, quel monumento?
Stamattina, c'è da rifare tutto daccapo.
Saranno almeno quaranta-cinquanta centimetri, alla faccia di PiacenzaSera che si ostina a dire che è peggio in pianura che in collina... (scherzo, amici)
E quindi: sale grosso, pala e olio di gomito.
E' tutto così spettacolare, così magico, con la neve.
Oggi, mentre mangiavamo, un piccolo pettirosso è venuto a spigolare le briciole di pane secco che Sandra aveva disseminato sotto il portico.
Bisogna sapersi ancora commuovere, ogni tanto.
Peccato non ci sia il vecchio Oscar, lui la neve se la gode di brutto.
Ancora non sono riuscito a recuperarlo, le strade sono impraticabili.
Quest'anno sono stato costretto a portarlo in una di quelle tristi pensioni per cani, un bel posto, per carità, uno chalet in legno tra le colline imbiancate sopra Tollara. Non si è sistemato male, ha la sua gabbia - ampia e confortevole, recita il depliant - e una cuccia riscaldata con stufetta elettrica. E un grande campo per sgranchirsi le gambe almeno tre-quattro volte al giorno, così mi hanno giurato. Ci sono anche un cucciolo di samoyedo e un vecchio spinone.
Lasciarlo lì mi ha messo malinconia, sul serio, ma anche lui se le va a cercare, quel vecchio bastardo, ha combinato guai ovunque, e adesso non lo vuole più nessuno: una volta litiga con il cane del vicino e gli fa uno sbrego di venti centimetri sul muso, l'altra riduce in polpette un gatto randagio, l'altra ancora abbaia tutta la notte disturbando il vicinato.
E' meglio se metti la testa a posto, caro il mio bastardo, così non si può andare aventi.
Come dire, il nuovo anno parte alla grande...
C'è voluta più di un'ora, ieri pomeriggio, per issare quel vecchio bestione dell'America sullo stradello di casa, dieci tonnellate di fottuta vetroresina. Fortuna che mi ha aiutato il Gio.
E giovedì scorso era andata anche a peggio, con la batteria a terra e il gasolio che si era ghiacciato nel serbatoio. Siamo riusciti a partire solo dopo l'intervento provvidenziale del Carlino, che sant'uomo. Carlino è l'elettrauto di Rivergaro.
Bisognerebbe fargli un monumento nella piazza pubblica al Carlino, giù a Rivergaro. Mi ha detto: se succede ancora, controlli il filtro del carburante, lo sa dov'è, vero? Gli ho detto: non solo non so dov'è, non so nemmeno cosa sia. Se ne è andato solo dopo essersi sincerato che non avrei toccato nulla senza il suo permesso. Mi ha prestato persino una batteria di scorta e i cavi per il collegamento, perchè i miei - non si offenda, mi ha detto il Carlino - erano veramente dei cavi grammi.
E ho dovuto insistere per pagarlo.
Cazzo aspettano a farglielo davvero, quel monumento?
Stamattina, c'è da rifare tutto daccapo.
Saranno almeno quaranta-cinquanta centimetri, alla faccia di PiacenzaSera che si ostina a dire che è peggio in pianura che in collina... (scherzo, amici)
E quindi: sale grosso, pala e olio di gomito.
E' tutto così spettacolare, così magico, con la neve.
Oggi, mentre mangiavamo, un piccolo pettirosso è venuto a spigolare le briciole di pane secco che Sandra aveva disseminato sotto il portico.
Bisogna sapersi ancora commuovere, ogni tanto.
Peccato non ci sia il vecchio Oscar, lui la neve se la gode di brutto.
Ancora non sono riuscito a recuperarlo, le strade sono impraticabili.
Quest'anno sono stato costretto a portarlo in una di quelle tristi pensioni per cani, un bel posto, per carità, uno chalet in legno tra le colline imbiancate sopra Tollara. Non si è sistemato male, ha la sua gabbia - ampia e confortevole, recita il depliant - e una cuccia riscaldata con stufetta elettrica. E un grande campo per sgranchirsi le gambe almeno tre-quattro volte al giorno, così mi hanno giurato. Ci sono anche un cucciolo di samoyedo e un vecchio spinone.
Lasciarlo lì mi ha messo malinconia, sul serio, ma anche lui se le va a cercare, quel vecchio bastardo, ha combinato guai ovunque, e adesso non lo vuole più nessuno: una volta litiga con il cane del vicino e gli fa uno sbrego di venti centimetri sul muso, l'altra riduce in polpette un gatto randagio, l'altra ancora abbaia tutta la notte disturbando il vicinato.
E' meglio se metti la testa a posto, caro il mio bastardo, così non si può andare aventi.
lunedì 24 novembre 2008
Il cucchiaio e la neve

Sarà capitato anche a voi, almeno una volta.
Non potete vedere una partita di Champions perchè dovete andare, ad esempio, all'ennesima riunione di condominio per decidere la sostituzione delle grondaie in lamiera preverniciata e la tinteggiatura del vanoscala - le ultime tre volte avete dato la delega a quello del terzo piano, quel rottinculo che organizza sempre le riunioni tupperware, e se gli proponete di andare anche questa volta a vostro nome finisce che poi quello si incazza pure - e così decidete di registrare il match per vederlo con calma al rientro.
Tornando a casa, mettete in campo tutte le precauzioni utili e necessarie per evitare di venire a conoscenza del risultato.
Scegliete le strade più sfigate.
Camminate rasente il muro.
Evitate i bar e i luoghi di ritrovo notturni.
Vi infilate un passamontagna scuro per essere sicuri di non essere riconosciuti.
Spegnete il cellulare, perchè c'è sicuramente qualche amico stronzo che ha saputo e chi vi invierà un messaggio.
Per ora tutto liscio.
Ma.
Siete quasi sulla soglia di casa, siete lì che state frugando nel borsello alla ricerca delle chiavi, non si trovano mai, chiavi di merda, dove cazzo si saranno andate a cacciare, e dalla finestra di un appartamento lì di fronte percepite il flebile segnale di una radiolina a transistor:
- All'Olimpico, la Roma vince tre a zero. Cucchaio di Totti.
Merda.
Allora salite bestemmiando le scale, aprite la porta e lesti vi dirigete in cucina verso il frigorifero. Un sorso di birra ghiacciata e poi subito a letto, si fotta la partita, che gusto c'è adesso che sapete il risultato, e si fotta anche il cucchiaio di Totti.
(Che poi il cucchaio io ancora non l'ho visto, domenica sera ero nel bel mezzo del viaggio di ritorno da Lione, in un furgone ammaccato talmente saturo di flatulenze intestinali da assomigliare a un vagone piombato delle SS).
La stessa cosa è successa ieri mattina.
Io e Sandra eravamo ancora a letto, in quello strano e piacevole dormiveglia che precede la sveglia mattutina.
Fuori non era ancora l'alba.
Arriva un sms.
E' il Gio, che ci dice:
- E' nevicato!
Così, tanto per rovinarci la sorpresa: a lui faceva schifo che noi si aprivano gli antoni sul terrazzo, come tutte le mattine, e ci si trovava improvvisamente di fronte al magnifico spettacolo della coltre biancastra che ci circondava dappertutto.
Appena sveglia, Agnese guarda fuori dalla finestra.
Quasi le vengono le convulsioni, tanto ride di felicità.
Sandra le dice: hai visto quanta neve?, l'ha portata a casa il papà. E' andato fino in Francia per trovarne un pò.
Davvero?, dice lei, guardardomi con aria interrogativa.
Sì, dico io. L'ho comprata a Lione.
No, la neve scende dal cielo!, esclama, un sorriso dolcissimo stampato sul viso, come dire, non mi prendete in giro!
Ci vestiamo alla svelta, dopo una rapida doccia, e ci tuffiamo nei campi oltre il ruscello per dare vita a una furiosa battaglia di palle di neve.
Anche Oscar partecipa alla festa.
Con le mani ghiacciate, perchè le muffole sono durate un minuto, un minuto e mezzo al massimo, ma letteralmente ubriaca di gioia, Agnese sale sul suo seggiolino per scendere verso l'asilo.
Mentre le allaccio la cintura incrocio il suo sguardo, le sue grosse pupille nere sembrano palle di terracotta.
Con un filo di voce mi chiede, papà, davvero l'hai portata tu la neve?
sabato 15 novembre 2008
Uomini e topi, 02
L'altra notte è tornato.
Solita ora, cinque in punto (non sgarra di un minuto).
Sandy si sveglia per prima, un pò in ansia, poi anch'io vengo disturbato da alcuni strani rumori che provengono dal tetto di camera nostra.
Sulle prime, pensiamo si possa trattare di qualche gazza o qualche cornacchia che zampetta sulle tegole in cerca di vermi o scarafaggi, capita spesso, non dormono mai, questi uccellacci.
A pensarci bene, cazzo ci fa una cornacchia sul tetto con questo tempaccio?
Piove ininterrottamente da tre giorni.
L'argilla nei campi è zuppa, e il Trebbia è salito pericolosamente, un'immensa colata di melma e fango spinge sui piloni in mattoni del vecchio ponte di Statto.
Restiamo in trepida attesa.
Qualche minuto dopo, lo stronzo ci passa proprio sopra i nostri nasi.
Percepiamo distintamente ogni singolo passettino.
Non dovresti essere in letargo, testa di cazzo di un ghiro?
Perchè cazzo non ti fai i tuoi sei mesi di riposino invernale invece di rompere i coglioni a noi, che a differenza tua si va a lavorare tutte le sante mattine?
Ovviamante lui se ne fotte, il piccolo bastardo (lo sapevate che arriva a misurare al massimo 30 cm, di cui ben 12 di coda?).
Fa lo stesso tragitto più volte, avanti e indietro, avanti e indietro.
Poi lo sentiamo trascinare qualcosa sulle tavole di abete grezzo. Molto lentamente. Deve fare una fatica enorme. Si ferma per prendere fiato, e poi riparte in direzione del suo nuovo fottuto rifugio.
Adesso è tutto chiaro.
Lo stronzo sta facendo un trasloco.
Probabilmente la vecchia tana è stata disturbata da qualcosa o da qualcuno, che so, da un uccello predatore, o forse si è spostata una tegola e quindi improvvisamente si è trovato alla mercè della pioggia incessante.
In ogni caso, continua imperterrito a sportare le sue cose da un posto all'altro: per la precisione, il suo nuovo indirizzo è localizzato in prossimità del cuscino di Sandy, un paio di metri sopra voglio dire, abbastanza vicino al canale della gronda. Deve stare attento a non piombare giù, lo stronzo, se nel sonno gira il gallone si ritrova spiaccicato sulla ghiaia.
E lui continua a trascinare i suoi effetti personali.
Ma quanta roba si porta dietro? Cazzo, uno pensa che un ghiro si possa accontentare di una semplice alcova, fatta di un pò di foglie secche e di rametti intrecciati, oppure di una lastra di poliuretano espanso. Questo qui pare stia arredando un trilocale. Ancora un pò e chiama Casana, il coglione. Cosa si porta dietro, il cassettone dell'ottocento? Il servizio da dodici che era della povera nonna? Il decoder di sky?
Forse sta facendo scorta di cibo, abbiamo letto su Wikipedia che in autunno l'animale aumenta notevolmente di peso, accumulando così una notevole quantità di grasso che gli sarà essenziale per sopravvivere durante il lungo letargo invernale.
Ce lo immaginiamo tutto intento a impacchettare le noci e le noccioline con il nastro adesivo marrone, e ci viene da ridere.
Poco prima dell'alba, i rumori cessano del tutto.
Buonanotte, stronzetto, gli dico.
Finalmente riusciamo a prendere sonno, anche se tra pochi minuti suonerà la sveglia, puntuale come Natale.
lunedì 10 novembre 2008
Ritorno a Spora, 01
_modif.jpg)
Funghi, zero.
Perchè potrei anche mentire dicendo che si è organizzata una passeggiata nei boschi del Monte Penna per respirare aria buona e fare due fotografie eccetera eccetera, ma in realtà la speranza è trovare qualche bel porcino da friggere impanato in padella.
E invece non ne troviamo nemmeno uno.
E' la seconda volta, quest'anno.
Va bene che quest'anno non ce n'è, lo dicono tutti al bar, a Travo, ma ho il sospetto di aver bisogno di una visita oculistica.
Ma poi dico, proprio dello stesso colore delle foglie secche, dovevano farli, sti benedetti porcini?
E perchè non blu, cazzo, o rossi? Le amanite, quelle sì che si vedono bene, e infatti: se le mangi non duri più di un quarto d'ora.
E' un disegno criminoso, ne sono certo.
Allora ripieghiamo su un piatto di polenta e una caraffa di vino rosso al rifugio, in compagnia di motociclisti tutti bardati di cuoio, con la bandana d'ordinanza e gli anfibi sporchi di fango, e alcune coppie stagionate, col vestito della festa, in trepida attesa che nel salone delle feste il leggendario Alberto Kalle possa dare il via alle danze con la sua inseparabile fisarmonica.
Nel pomeriggio facciamo tappa a Spora.
Nulla è cambiato, o quasi.
Parcheggiamo le auto nel piazzale inghiaiato, è vuoto, forse un pò meno grande di quanto me lo ricordavo. Verso valle, la ringhiera è ormai arrugginita, e cosi pure la piccola panchina in cemento sotto il crocifisso è in condizioni critiche. Oltre la strada, dove una volta c'era l'osteria del Dado, adesso c'è un recinto per i cavalli.
La copertura del box, quella che una volta era il nostro solarium pomeridiano, il luogo dove sonnecchiavamo sui sacchi a pelo ascoltando il radiolone portatile, si sta sgretolando tutta e avrebbe bisogno di un intervento di manutenzione urgente.
La chiesa invece è in ordine, il campanile e le absidi sono state riverniciati da poco. Proprio sotto le absidi, sosteneva il vecchio Zanelli, l'unico a essere a conoscenza di questo segreto, si dovrebbe trovare ormai da diversi decenni un tesoro dal valore inestimabile. Povero Zanelli, quante volte ha provato a convincerci, a noi ragazzi, di scavare sotto le absidi alla ricerca del tesoro. Avremmo dovuto farlo di notte, per non dare nell'occhio. E avremmo diviso in parti eque, così aveva promesso. Noi fingevamo di credergli, e allora perchè cazzo non scavate, avrà pensato lui.
Ricordo il giorno che arrivammo su per la prima volta per il campeggio estivo della parrocchia. Ci fece vedere le varie stanze della canonica, esaltandone i pregi sino all'inverosimile, per poi terminare in fondo al corridoio con la visita al bagno.
- Ullallà, c'è anche il bagno!, disse estasiato.
Ridemmo di lui, almeno ora comprendo il significato di quelle parole.
Riconosco le varie finestre, la pensilina, persino il numero civico non è cambiato.
C'è ancora la fontana con la grande vasca in cemento, la vasca dove ci si lavava tutte le mnttine, poco dopo l'alba, buttandoci sotto le ascelle qualche manciata di acqua gelida, prima di partire per l'ennesima gita con la leggendaria Uaz del Ludo: riusciva a trasportarci in venti-venticinque alla volta, quello squilibrato di un prete, altro che punti della patente.
Circumnavigando il fabbricato, io e Agnese ci troviamo nel piccolo giardino sul retro, che poi tanto retro non è, essendo il sagrato della chiesa. Qui, oltre l'ingresso secondario della canonica, c'è un orto curatissimo, due file di pomodori e qualche ciuffo di insalata, e le zucche.
E' il segnale evidente di una presenza umana, più o meno fissa.
Allora non è disabitata, penso.
Mi sporgo oltre il cancello e vedo spuntare una suora che rastrella le foglie cadute con il vento. Sopra il muro di contenimento in sassi, c'è un filare di gelsi.
Mi viene incontro, la saluto.
E' piccola, più piccola di me intendo, e indossa un abito celeste e un paio di sandali, senza calze.
Le spiego che sono venuto a rivedere i posti dove ho passato tante estati, tanti anni fa.
Annuisce, e mentre ci incamminiamo verso il piazzale, dove gli altri erano rimasti ad aspettare, resta in assoluto silenzio.
Dopo qualche istante di esitazione, ci racconta la sua storia.
Vive qui da qualche anno, da sola in questa grande casa. Con l'aiuto dell'anziana madre ha riparato il tetto e ha sistemato le stanze del primo piano, dove ha anche trasferito la cucina e il refettorio, perchè al piano terra c'era troppa umidità e poi sotto le porte si infila una quantità di bestie.
Topi.
Bisce.
Scarafaggi.
Lei odia le bestie, dice.
(Non è proprio come San Francesco, penso.)
Ha uno sguardo duro, ma dolce.
Prima di venire qui ha fatto venti anni di clausura in San Raimondo.
Ma poi non ce l'ha fatta più, ed è venuta qui a vivere come eremita.
Ci guardiamo attorno e vediamo solo prati, e montagne, e boschi, e solo in lontanzana scorgiamo il fumo salire da un comignolo in pietra.
E pensiamo: che botta di vita.
martedì 21 ottobre 2008
Tanz bambolina

Mi piace portare Agnese all'asilo, anche se non riesco a farlo poi così spesso.
Lei, invece, viene poco volentieri con me, un pò perchè adora sua madre, un pò perchè, sostiene lei, il seggiolino della mia auto è molto scomodo e quindi non riesce a schiacciare l'ultimo pisolo prima di arrivare a destinazione.
Così devo convincerla con metodi abietti, ovvero devo letteralmente comprarla.
A volte le prometto i soldi di cioccolato, un suo autentico "must", anche se il problema è che ormai non li vende più nessuno, è roba datata, nemmeno la cioccolateria sotto lo studio: li tengono solo sotto Natale, mi dicono. E allora non mi resta che andarli a cercare all'Autogrill, cazzo, davvero comodo.
Oppure le permetto di portarsi dietro, a titolo di risarcimento morale, quantità assurde di giochi e bambolotti, che sono in grado di consolarla come una coperta di Linus.
Stamattina, per dirne una, abbiamo caricato Chicken Little su un passeggino di Ciccio Bello.
Avreste dovuto vedere la faccia della sua maestra, mentre commentava con evidente disapprovazione l'ennesimo trasloco.
Io dico sempre all'Agnese: guarda che la maestra si arrabbia, ma lei alla fine l'ha sempre vinta, la piccola testolina di cazzo.
Avete presente quegli articoli sui giornali che tracciano l'identikit del padre moderno, immaturo e poco autorevole, che lascia alla madre - che già deve fare tutto il resto - il compito di dire di no?
Ecco: quello sono io.
Durante il viaggio, invece, comando io, ho la situazione sotto controllo.
Niente canzoncine per bambini.
Ho fatto credere a mia figlia, con una pietosa menzogna, che non esistono ancora sul mercato i cd con la sigla di Heidi o degli altri cartoni animati.
Lei l'ha bevuta.
Per ora.
Il suo preferito, adesso che sono in piena fregola anni '80, è Camerini.
"Tanz Bambolina", soprattutto.
Al nostro arrivo all'asilo, mettiamo in scena - ormai da due anni - la solita gag sul menù del giorno.
Lei mi chiede di leggere cosa c'è scritto sulla lavagnetta collocata proprio all'ingresso.
Io allora inizio:
- "Minestrina in brodo con topo morto",
oppure:
- "Formiche arrosto con contorno di farfalle e vermi disossati" (tanto lei non sa che sono invertebrati, ndr),
o anche:
- "Ali di pipistrello alla griglia in pasticcio di medusa e alga marina",
eccetera eccetera.
E lei ride.
Da quasi due anni.
Scrolla la testa ridendo e mi fa, non è vero, papà, ma cosa dici.
No, no, è tutto vero, rispondo io, tuttavia senza risultare essere troppo convincente.
Dopo aver oltrepassato l'androne, dove l'acre odore dei prodotti disinfettanti ci avvolge senza possibilità di scampo - non ho ancora capito cosa cazzo usano, forse uranio impoverito - facciamo ingresso nella grande stanza dei giochi, dove già un esercito di piccoli bastardi salta strilla e schiamazza senza sosta.
E qui succede una cosa strana.
Vado incontro ai bambini che conosco, normalmente figli di amici e amiche, faccio per dire due loccate con loro, e loro - gli stessi che quando ci vediamo fuori dall'asilo non mi mollano per un attimo - non mi cagano di striscio.
Mi guardano, guardano i loro compagni con aria interrogativa - del tipo: ma chi è questo stronzo? - e poi si girano dall'altra parte.
Cioè: si vergognano di me.
Sono davvero dei piccoli bastardi.
Allora saluto con un bacio in fronte Agnese, che nel frattempo si è messa il grembiule a quadretti bianchi e rosa, che sembra una tovaglia per la colazione, e due buffe pantofole con su un ippopotamo - non due ippopotami, ma un ippopotamo tagliato in due tronconi - e mi dirigo verso l'uscita.
Appena fuori, entro nel bar lì a fianco per bere un caffè.
La coppia di gestori è simpatica come un gatto sui maroni, normalmente mi servono il caffè con lo sguardo fisso sul monitor a cristalli liquidi collocato sul muro proprio alle mie spalle, di solito sintonizzato sulla replica di una merda di reality show.
D'istinto, stamattina, mi giro anch'io verso la tv.
C'è Mtv.
Il video non mi è nuovo, e nemmeno la musica.
Cazzo, sono i R.E.M.!, mi dico, ma non riconosco il pezzo. Lascio scorrere le immagini postmetropolitane sullo schermo e penso, sarà di uno degli ultimi album, li ho sempre un pò sottovalutati, gli ultimi album dei R.E.M., ma questo pezzo non è male.
Finalmente compare in sovraimpressione il titolo del brano: "Man-size wreath".
Lascio un euro sul bancone ed esco dal bar, canticchiando ancora "Man-size wreath".
Appena arrivo in studio, mi dico, vado sul sito dei R.E.M. e mando una mail di scuse.
Ehi, Michael, gli scrivo: Cazzo, davvero niente male, "Man-size wreath"!
lunedì 29 settembre 2008
Una nostra esclusiva
E così anche il vecchio ciliegio se n'è andato, non c'è stato nulla da fare.
Era stato colpito da una malattia frequente in questa specie, tipo invecchiamento precoce, probabilmente per colpa di una potatura piuttosto barbara.
L'unica cosa da fare era abbatterlo, aveva sentenziato quest'estate il Serr***, il nostro esperto in materia, un esperto per la verità con la mano un pò pesante, fosse per lui raderebbe al suolo ogni cosa che c'è in giardino, diciamo pure che non è per l'accanimento terapeutico.
Povera pianta, ci eravamo affezionati, in fondo era giovane, solo un paio d'anni in meno del sottoscritto...
Rientrando a casa, quel grande vuoto dietro casa mi ha colpito nel cuore.
La sua assenza è già opprimente, sembra un paradosso, lo so, nel senso che quell'albero enorme incombeva sulla casa in modo sinistro.
La verità è che con lui al nostro fianco, a guardarci le spalle, è come se ci sentissimo più protetti.
Ma intanto le motoseghe scoppiettano senza pietà, e del vecchio compagno ormai non vi è più traccia, se non alcune radici talmente diramate che sarà difficile eliminare.
Oscar guarda gli operai al lavoro e sembra pensare, cazzo, non si può mai stare quieti, qui, tutti i giorni ce n'è una, ma non sono capaci di stare un pò fermi?
Aprendo gli scuri della finestra del soggiorno, noto che adesso c'è più luce, molta più luce, magra consolazione, per chi ha visto almeno una volta lo spettacolo che andava in onda ogni marzo che il cielo mandava in terra, con la nuova fioritura. L'altra nota positiva, penso, è che quest'autunno dovremo rastrellare parecchie foglie in meno, e questa è già più convincente, cazzo, so di cosa parlo.
Sento il suono di un clacson, esco sulla soglia e mi trovo davanti un tizio obeso, ma direi obeso in modo raccapricciante, un paio di occhiali con montatura alla moda e due gote rosse, che mi saluta dicendo: si sta bene qui.
Eh sì, faccio io.
Oggi c'è caldo, dice asciugandosi la fronte con il dorso della mano.
Stamattina c'erano sette gradi, dico io, ma adesso s'è scaldato.
Le interessano dei surgelati, mi fa.
Ci siamo, penso io, sono qui immerso nell'infinita poesia di un ciliegio caduto e arriva lo stronzo a vendermi i suoi fottuti surgelati.
Devo ammettere che mi sbaglio.
Lo guardo bene, infatti, è un personaggio straordinario, nel senso letterale del termine. Persino letterario, direi, mi ricorda quei venditori di bibbie usate che popolano i romanzi di Soriano.
Senza impegno, mi fa lui, abbiamo un filetto di merluzzo favoloso, o il minestrone di verdure, è fantastico.
Mah, sa, di solito se ne occupa mia moglie, prendo tempo io, e intanto penso al modo più sbrigativo per liquidarlo senza essere maleducato.
Fagli vedere i gelati, dice il tipo al suo aiutante, un anziano anch'egli sovrappeso che era ancora seduto nel furgone. Eccomi qui nella trappola, penso io, non devo cedere a questi due cazzoni per nessun motivo.
Certo, qui abbiamo la confezione mista, mi fa l'altro dopo aver rinchiuso lo sportello a doppia mandata della cella frigorifera, ci sono anche il biscotto al cioccolato e un'imitazione del magnum con le praline di cacao fondente. Sono una nostra esclusiva, aggiunge e mi porge un'anonima confezione senza marca o logo o quant'altro.
Sticazzi, dico io prendendo in mano la scatola, quant'è?
lunedì 28 luglio 2008
Uomini e topi
Siamo nel bel mezzo di un'invasione di topi. E non solo topi. Diciamo di roditori.
Sono apparsi prima da mia madre.
Di notte li sentiva zampettare su nel sottotetto e non riusciva a prendere sonno.
La cosa più giusta da fare era quella di dare una bella ripulita alla mansarda, dove per anni la vecchia ha accumulato una serie impressionante di oggetti inutili e spesso fatiscenti. Ha sempre avuto quel trip, la vecchia. Non si butta via niente, dice. Non si sa mai. Penso si tratti di un'antico retaggio che ha origine nei tempi grami di guerra, quando era stata sfollata con la sua famiglia dalla casa di via del Pavone: alla sera, ci racconta spesso, le davano da mangiare una fetta di pane dopo averla sfregata un pò su un pezzo di coppa (la coppa niente, però).
Lo sgombero si rivela un'operazione complicata. Prima di tutto, il sole di luglio picchia duro sulle tegole in cemento, e sotto il tetto fa un caldo insopportabile. E poi, ci sono escrementi di topo un pò dappertutto. a Paulette e al Sardo tocca persino spostare un vecchio materasso fatto a pezzi dalle fastidiose bestioline, che nella soffice bambagia umida di urina ancora calda hanno eletto il loro fottuto nido. Brutta storia davvero. A turni, siamo costretti a prendere fiato in prossimità dell'unica finestrella verso nord. L'odore acre della decomposizione ci prende alla gola. La saliva diventa dolciastra.
Succede in una miriade di racconti o di romanzi di bassa lega: a un certo punto c'è un tipo che trova un baule nella soffitta del padre, o del nonno, o di un familiare qualsiasi, lo apre e vi trova dentro tutta una serie di fotografie e di documenti che danno il via ai ricordi del bel tempo che fu.
E siccome non vogliamo farcio mancare niente, ci tocca curiosare un pò.
La prima cosa che trovo è una valigia di acciaio con i documenti del Totocalcio, tra i quali i vecchi espositori e i tabelloni con i risultati. Poi mi imbatto in una busta dell'Alphaville con tutti i vinili di Guccini, quelli della Sandra, che sono anni che mi accusa di averglieli persi durante i lavori di ristrutturazione.
Infine c'è un vecchio ingranditore di fotografie che mi aveva regalato lo zio di Roma. Era un aggeggio un pò rudimentale, di fabbricazione russa. Non funzionava male, anche se in mezzo alle stampe si depositava sempre uno strano alone opaco, che in realtà non mi dispiaceva perchè conferiva alle fotografie un'aria austera da inizio secolo. Per qualche tempo mi sono divertito. Mi stufai per via delle delicate e interminabili fasi preparatorie della camera oscura: ottenevo il buio assoluto solo dopo aver sigillato con il nastro adesivo marrone, quello da pacco, tutte le tapparelle della mia stanza su via Abbadia.
Nelle vaschette tutte rosicchiate dai topi, così come i contenitori degli acidi per lo sviluppo, trovo qualche vecchia fotografia. C'è anche questo scatto praghese:

Ci sono io, c'è Paulette, c'è il Reggio, e c'è il Bonello.
Doveva essere l'ultimo dell'anno del 1991, se non ricordo male, con le date faccio sempre casino. Mi ricordo bene quella vacanza con il vecchio camper Briscola di Achille. Mi vengono in mente alcuni flash: il cambio al mercato nero, dove Paulette e il Reggio si fecero inculare con delle banconote polacche fuori corso in cambio di 200 dollaroni made in Usa, e il successivo tentativo di spacciare il denaro falso con un cartello sul camper che diceva "We sell polski money". Ci avvicinò un gruppo dal Belgio, avevano preso la stessa chiavata, ridevano come pazzi. Contenti loro. E poi mi ritornano nella memoria i cocci di vetro sulle strade dopo la grande festa, e "Losing my Religion", lo suonavano dappertutto quel pezzo, per le strade, sul Ponte Carlo, nei locali.
Ma torniamo ai topi.
Il nostro piano prevede una serie di trappole mortali e di esche disposte in ogni angolo dei locali del sottotetto. Sembra un campo minato. D'altro canto, il Sardo è o non è un cazzo di artificiere...
Nei giorni scorsi, non sono mancati consigli e suggerimenti. Il più suggestivo da parte dell'ex-guardia comunale, che mi indica un fantomatico prodotto, all'aroma di cioccolato, semplicemente irresistibile. Tale veleno, mi dice, produce un agghiacciante effetto matrioska, ovvero il primo topo ingoia l'esca e muore, il secondo arriva e cosa fa? Ma si mangia il cadavere del primo topo, è ovvio, perchè ancora profuma di cioccolato, e così via finchè l'ultimo dei topi superstiti si ingolla un supertopo morto costituito dalla somma di tutti gli altri. Come si chiama quel prodotto?, gli faccio. Lui mi ripete il nome. E' il migliore, aggiunge. Io mi appunto il nome su un foglietto, lo saluto, stammi bene gli dico, e poi butto il foglietto nella spazzatura.
Si sprecano anche gli aneddoti.
C'è chi ha trovato in cantina delle pantegane di trenta-quaranta centimetri. Roba da far impallidire la lepre alta mezzo metro che vide la Werza sul Tomarlo. O il fuoco alto trecento metri che il Tasso accese nel cortile di San Savino...
Un cantoniere mi racconta che quando era piccolo viveva alla Pieve, e un anno la casa era stata invasa dai topi. Il nonno consigliò a lui di prendere un porcellino d'India: li terrà lontani, gli aveva detto. Detto fatto, lui se ne fece comprare uno e lo mise giù in cantina. Dopo qualche giornò ne ritrovò la carcassa sotto alcune casse di legno, quei bastardi se l'erano divorato.
Niente male anche la storia che ci propinano Achille e Cristina. In un convento di suore sparivano, tutte le notti, dei grossi panini dai tavoli del refettorio. Allora si appostarono per capire cosa accadeva e davanti ai loro occhi si materializzò la seguente scena: arrivarono due topi, uno abbracciò con tutto il corpo un panino, l'altro gli prese la coda in una zampa e trascinò il pesante fardello - il primo topo più il panino - fino alla tana.
Bisognerebbe dire alle pinguine di smetterla con la roba pesante...
La notte seguente, io e Sandra ci svegliamo di soprassalto. Proprio sopra i nostri nasi, qualcuno si muove sotto le tegole, emettendo suoni striduli. Nel silenzio della notte, il rumore si amplifica sino a diventare insopportabile. Sembra che stiano rosicchiando il legname del tetto, oppure le lastre di isolante in poliuretano espanso. Cazzo, devono avere molta fame, gli stronzi.
La Sandra scende al piano terra e si mette a dormire sul divano.
Il mattino seguente mi rivolgo a una ditta specializzata in disinfestazioni. Non hanno tempo, mi dicono, c'è l'emergenza zanzara-tigre. Sarà un ghiro, aggiungono. Strana coincidenza, penso.
Sono già stati rinvenuti tre cadaveri di topo!
In ogni caso, per non sapere nè leggere nè scrivere, da vero gradasso deposito trentacinque euro di topicidi sotto le tegole.
Un'inutile dimostrazione di potenza.
Mi aiutano Slavisa e due suoi colleghi serbi. Quella mattina sono molto abbacchiati perchè hanno arrestato Radovan Karadzic. Porca puttana, mi spiace, commento io. Un uomo tutto d'un pezzo.
Il giorno dopo, recupero il corpicino stecchito di un ghiro nella zona del barbecue.
Sono apparsi prima da mia madre.
Di notte li sentiva zampettare su nel sottotetto e non riusciva a prendere sonno.
La cosa più giusta da fare era quella di dare una bella ripulita alla mansarda, dove per anni la vecchia ha accumulato una serie impressionante di oggetti inutili e spesso fatiscenti. Ha sempre avuto quel trip, la vecchia. Non si butta via niente, dice. Non si sa mai. Penso si tratti di un'antico retaggio che ha origine nei tempi grami di guerra, quando era stata sfollata con la sua famiglia dalla casa di via del Pavone: alla sera, ci racconta spesso, le davano da mangiare una fetta di pane dopo averla sfregata un pò su un pezzo di coppa (la coppa niente, però).
Lo sgombero si rivela un'operazione complicata. Prima di tutto, il sole di luglio picchia duro sulle tegole in cemento, e sotto il tetto fa un caldo insopportabile. E poi, ci sono escrementi di topo un pò dappertutto. a Paulette e al Sardo tocca persino spostare un vecchio materasso fatto a pezzi dalle fastidiose bestioline, che nella soffice bambagia umida di urina ancora calda hanno eletto il loro fottuto nido. Brutta storia davvero. A turni, siamo costretti a prendere fiato in prossimità dell'unica finestrella verso nord. L'odore acre della decomposizione ci prende alla gola. La saliva diventa dolciastra.
Succede in una miriade di racconti o di romanzi di bassa lega: a un certo punto c'è un tipo che trova un baule nella soffitta del padre, o del nonno, o di un familiare qualsiasi, lo apre e vi trova dentro tutta una serie di fotografie e di documenti che danno il via ai ricordi del bel tempo che fu.
E siccome non vogliamo farcio mancare niente, ci tocca curiosare un pò.
La prima cosa che trovo è una valigia di acciaio con i documenti del Totocalcio, tra i quali i vecchi espositori e i tabelloni con i risultati. Poi mi imbatto in una busta dell'Alphaville con tutti i vinili di Guccini, quelli della Sandra, che sono anni che mi accusa di averglieli persi durante i lavori di ristrutturazione.
Infine c'è un vecchio ingranditore di fotografie che mi aveva regalato lo zio di Roma. Era un aggeggio un pò rudimentale, di fabbricazione russa. Non funzionava male, anche se in mezzo alle stampe si depositava sempre uno strano alone opaco, che in realtà non mi dispiaceva perchè conferiva alle fotografie un'aria austera da inizio secolo. Per qualche tempo mi sono divertito. Mi stufai per via delle delicate e interminabili fasi preparatorie della camera oscura: ottenevo il buio assoluto solo dopo aver sigillato con il nastro adesivo marrone, quello da pacco, tutte le tapparelle della mia stanza su via Abbadia.
Nelle vaschette tutte rosicchiate dai topi, così come i contenitori degli acidi per lo sviluppo, trovo qualche vecchia fotografia. C'è anche questo scatto praghese:

Ci sono io, c'è Paulette, c'è il Reggio, e c'è il Bonello.
Doveva essere l'ultimo dell'anno del 1991, se non ricordo male, con le date faccio sempre casino. Mi ricordo bene quella vacanza con il vecchio camper Briscola di Achille. Mi vengono in mente alcuni flash: il cambio al mercato nero, dove Paulette e il Reggio si fecero inculare con delle banconote polacche fuori corso in cambio di 200 dollaroni made in Usa, e il successivo tentativo di spacciare il denaro falso con un cartello sul camper che diceva "We sell polski money". Ci avvicinò un gruppo dal Belgio, avevano preso la stessa chiavata, ridevano come pazzi. Contenti loro. E poi mi ritornano nella memoria i cocci di vetro sulle strade dopo la grande festa, e "Losing my Religion", lo suonavano dappertutto quel pezzo, per le strade, sul Ponte Carlo, nei locali.
Ma torniamo ai topi.
Il nostro piano prevede una serie di trappole mortali e di esche disposte in ogni angolo dei locali del sottotetto. Sembra un campo minato. D'altro canto, il Sardo è o non è un cazzo di artificiere...
Nei giorni scorsi, non sono mancati consigli e suggerimenti. Il più suggestivo da parte dell'ex-guardia comunale, che mi indica un fantomatico prodotto, all'aroma di cioccolato, semplicemente irresistibile. Tale veleno, mi dice, produce un agghiacciante effetto matrioska, ovvero il primo topo ingoia l'esca e muore, il secondo arriva e cosa fa? Ma si mangia il cadavere del primo topo, è ovvio, perchè ancora profuma di cioccolato, e così via finchè l'ultimo dei topi superstiti si ingolla un supertopo morto costituito dalla somma di tutti gli altri. Come si chiama quel prodotto?, gli faccio. Lui mi ripete il nome. E' il migliore, aggiunge. Io mi appunto il nome su un foglietto, lo saluto, stammi bene gli dico, e poi butto il foglietto nella spazzatura.
Si sprecano anche gli aneddoti.
C'è chi ha trovato in cantina delle pantegane di trenta-quaranta centimetri. Roba da far impallidire la lepre alta mezzo metro che vide la Werza sul Tomarlo. O il fuoco alto trecento metri che il Tasso accese nel cortile di San Savino...
Un cantoniere mi racconta che quando era piccolo viveva alla Pieve, e un anno la casa era stata invasa dai topi. Il nonno consigliò a lui di prendere un porcellino d'India: li terrà lontani, gli aveva detto. Detto fatto, lui se ne fece comprare uno e lo mise giù in cantina. Dopo qualche giornò ne ritrovò la carcassa sotto alcune casse di legno, quei bastardi se l'erano divorato.
Niente male anche la storia che ci propinano Achille e Cristina. In un convento di suore sparivano, tutte le notti, dei grossi panini dai tavoli del refettorio. Allora si appostarono per capire cosa accadeva e davanti ai loro occhi si materializzò la seguente scena: arrivarono due topi, uno abbracciò con tutto il corpo un panino, l'altro gli prese la coda in una zampa e trascinò il pesante fardello - il primo topo più il panino - fino alla tana.
Bisognerebbe dire alle pinguine di smetterla con la roba pesante...
La notte seguente, io e Sandra ci svegliamo di soprassalto. Proprio sopra i nostri nasi, qualcuno si muove sotto le tegole, emettendo suoni striduli. Nel silenzio della notte, il rumore si amplifica sino a diventare insopportabile. Sembra che stiano rosicchiando il legname del tetto, oppure le lastre di isolante in poliuretano espanso. Cazzo, devono avere molta fame, gli stronzi.
La Sandra scende al piano terra e si mette a dormire sul divano.
Il mattino seguente mi rivolgo a una ditta specializzata in disinfestazioni. Non hanno tempo, mi dicono, c'è l'emergenza zanzara-tigre. Sarà un ghiro, aggiungono. Strana coincidenza, penso.
Sono già stati rinvenuti tre cadaveri di topo!
In ogni caso, per non sapere nè leggere nè scrivere, da vero gradasso deposito trentacinque euro di topicidi sotto le tegole.
Un'inutile dimostrazione di potenza.
Mi aiutano Slavisa e due suoi colleghi serbi. Quella mattina sono molto abbacchiati perchè hanno arrestato Radovan Karadzic. Porca puttana, mi spiace, commento io. Un uomo tutto d'un pezzo.
Il giorno dopo, recupero il corpicino stecchito di un ghiro nella zona del barbecue.
Iscriviti a:
Post (Atom)