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mercoledì 26 febbraio 2014

IL PAGELLONE DI SANREMO 2014

Vi siete ripresi dalla sbornia sanremese? Ecco l'immancabile pagellone di PiacenzaSera firmato da Giovanni Battista Menzani, che ha seguito per noi (twittando con moderazione) la kermesse canora. 
Il pagellone di Sanremo 2014
di Giovanni Battista Menzani (@GiovanniMenzani)

Arisa: 6,5
Con il passare dei giorni il look migliora e la platea di twitter si riprende dallo shock delle tette sfoggiate al debutto. “Controvento” è il pezzo perfetto per il Festival, is the new “Mentre il mondo cade a pezzi”. “Lentamente il primo che passa” ha un testo di Cristina Donà, ma l’incedere ricorda troppo Ravel. Perfetto per la soundtrack di un cartone della Disney

Cristiano De André: 7,5
La dimostrazione che la formula del ballottaggio tra le due canzoni è deleteria e abbassa la qualità del lotto che in finale si disputa la vittoria.
“Invisibili”, premio Mia Martini, è infatti la canzone più bella di tutto il Festival, struggente omaggio a Genova (anche se spuntano accuse di plagio a James Taylor).
“Il cielo e' vuoto” (“E Dio che si dimentica di fare il suo lavoro”) è più debole, ma sul voto incide anche la commovente interpretazione di “Verranno a chiederti del nostro amore” (anche se qui vince facile).
Sembra rinato, ed è una bella notizia.

Giusy Ferreri: 5
Sentita solo a sprazzi: sulla fiducia.

Frankie Hi-Nrg: 5
La sensazione e' che l'altro brano (Molto a là Jovanotti), “Un uomo è vivo”, fosse il migliore, malgrado quel verso “C’è istante in cui ogni uomo diventa sua madre” che urla ancora vendetta ed è l’erede naturale di “Fare l’amore in tutti i laghi”.
“Pedala” - che i media italiani hanno dedicato immediatamente a Renzi, “hai voluto la biciletta?”- è poco originale ma è perfetta per il Primo Maggio, già le vediamo sventolare tutte quelle bandiere coi quattro mori.

Rafael Gualazzi: 5,5
In finale il microfono si rifiuta di funzionare, malignano sul web, che si scaglia sul look demenziale di Bloody Beetroots (qualcuno maligna che dovendo sul palco con Gualazzi ha preferito rimanere anonimo).
Sarà perché in casa e' piaciuto a tutti, ma non ce la sentiamo di stroncare “Liberi o no”, malgrado un testo messo insieme un po’ alla cazzo: almeno ha il merito di svegliare la platea dal suo torpore.

Noemi: 5,5
Pesa sul giudizio l'imbarazzante look della serata di giovedì, quando si e' presentata sul palco dell'Ariston con un'acconciatura da calciatore e un attaccapanni infilzato nel collo.
Ha il pezzo più radiofonico, “Bagnati dal sole”, e la sua interpretazione ci piace, anche se sembra sempre un po’ insicura (e sì che ne ha fatta di strada).

Giuliano Palma: 4,5
Sarà perché il vintage rischia di diventare stucchevole, alla lunga.
Il pezzo co-firmato da Nina Zilli, “Cosi lontano”, e' proprio un compitino e lui non appare in gran forma. 

Perturbazione: 6
I rappresentanti della cosiddetta pattuglia indie non sprecano l’occasione del grande pubblico con un pezzo leggero, leggerissimo, “L’unica”, persino troppo incensato sul web. “L’Italia vista al bar è invece un inutile elenco di luoghi comuni (“e se la gente si incazza/scenderemo in piazza”).
Ci aspettavamo di più, comunque. Se pensiamo a Rice e Wainwright…

Francesco Renga: 5,5
Partiva super favorito, ha perso e proprio per questo l'Apparato lo elegge icona del progressismo. Maybe, il duetto con Kekko ha avviato il suo tracollo.

Ron: 5
“Sing in the rain” è un impalpabile folk stile Mumford&Sons, e in finale è pure stonato.
L’altro pezzo neanche ce lo ricordiamo.
Forse aveva il compito di rappresentare il cantautorato, come accadde a Finardi, Vecchioni e altri.
Fallisce.

Renzo Rubino: 6
E’ talmente agitato che a noi viene il dubbio che l'audio non sia sincronizzato e che la regia stia mandando in onda un altro pezzo, ovvero che lui in realtà stia eseguendo una cover dei Black Sabbath.
“Ora” è una canzone ben costruita, ma la sua interpretazione è sopra le righe.

Antonella Ruggiero: 6
La scongelano per Sanremo.
Su twitter si sprecano ironie e sarcasmo per l’inquietante somiglianza con Robert Smith dei Cure, il Sean Penn di “This must be the place” ed Edward mani di forbice”.
Look dark a parte, va detto che i suoi due brani sono raffinati e lei è un’interprete di classe.
“Da lontano”, con il suo ritornello che pare in lingua araba, andrebbe sottotitolata, altro che i versi da bullo da banlieu di Stromae.

Francesco Sarcina: 3
Se il suo talento fosse paragonabile all'autostima e all’egocentrismo - titolo del nuovo album: “Io” - questo sarebbe un fuoriclasse.
Invece strilla in modo quasi fastidioso, facendo addirittura rimpiangere i Moda'.

Riccardo Sinigallia: 6,5
L’ex Tiromancino è escluso per i motivi che sappiamo. Peccato, non demeritava.
Da ricordare la sua versione del classico di Lolli, con Paola Turci e Marina Rey.

BENTORNATO, CROZ

“Croz” è il suo soprannome storico. La scelta del titolo si deve a un gioco iniziato tanto tempo fa, nel 1971. Il suo primo album da solista si intitolava infatti “If I could only remember my name” (Se solo potessi ricordare il mio nome), grande disco, e il suo secondo invece, nel 1989, “Yes, I can” (Sì che posso). Quindi, il terzo: “Croz”. Lui, David Crosby, è un grande della musica americana, uno dei maestri della West Coast – prima nei Byrds poi nel celebre trio con Stills & Nash, che arruolarono successivamente Neil Young – degli anni Sessanta e Settanta. Croz torna inaspettatamente, dopo oltre un ventennio di silenzio. All’età di settantatre, con il coraggio di ieri. Forse per via del nuovo fegato, recentemente trapiantato (una vita di bagordi, il nostro Croz). E non delude le aspettative.
L’iniziale “What’s broken” è una raffinata ballata jazzy costruita attorno la suadente chitarra di Mark Knopfler. Come “Slice of time”, ricorda le atmosfere - recenti - di Iron&Wine e Deastroyer. Le successive “Time I have” e “Holding not to nothing” (con la tromba di Wynton Marsalis) hanno un tono più intimista e crepuscolare, così pure “Morning falling”. Stesso mood per “If she called”, anzi più drammatica: scritta osservando, dalla finestra di un albergo tedesco, alcune prostitute allineate ai bordi di una strada.
L’elettrica “The clearing”, con una bella coda di chitarre, la radiofonica (!) “Radio” – con un delizioso ritornello pop - e “Dangerous night” hanno un eco decisamente Seventies, ma del lotto nostalgico il brano che più piace è “Set the baggage down”, psichedelica e amara. Un pezzo che molte delle bands della cosiddetta scena neopsichedelica gli invidieranno non poco. Bentornato, Croz.

MONDAY MORNING

L’idea di questo album - un inno a nuove grandi speranze come suggerisce il titolo, “High hopes” – nasce dall’ingresso (temporaneo) di Tom Morello nella E Street Band, in sostituzione di Van Zandt,  durante la recente tournee australiana. La collaborazione con l’ex chitarrista dei Rage Against the Machine si è presto trasformata in idillio, tanto che si è pensato di realizzare un album infarcito di cover, outtakes e vecchi brani del Boss rivisitati con la nuova formazione. “High Hopes” pare quasi un disco live. La titletrack è una rivisitazione – in un tripudio di fiati - di un vecchio brano degli Havalinas di Tim Scott McConnell: “Monday morning” è un incipit notevole, e il verso “Gimme love/gimme peace” è un amarcord della stagione del florer power. La successiva “Harry’s Place” ha una base elettronica e un’anonimo andamento funk: forse serviva un arrangiamento più sobrio, meno ridondante. Segue una nuova versione di “American skin”, inutile qui ripetere dell’episodio di violenza razzista da cui nasce la canzone, tra le più belle della sua produzione recente. Ecco le cover: “Just like fire would” è un brano degli australiani Saints al quale se togli la ruvidezza e l’immediatezza del punk resta poco. Ricorda Mellencamp.
Onesto e sano rock, si dirà, ma da uno come il Boss si può pretendere di più: la scrittura dei pezzi è spesso elementare e non brilla certamente per originalità e per urgenza. “Down in the hole”, ad esempio, è affascinante, ma troppo simile a “I’m on fire”.
Tuttavia il nostro non si risparmia, as usually. “Heaven’s wall” è un gospel celtico nel mezzo del quale Morello entra con la delicatezza di un elefante in una cristalleria, e apre la sequenza folk che sta nel cuore dell’opera, completato da “Frankie fell in love”, “This is your sword” e “Hunter of invisible game”.
Il finale non ci aiuta a emettere un verdetto definitivo: la versione elettrica di “The ghost of Tom Joad” tradisce la disperazione dell’originale, con un Morello ancora sopra le righe e un finale pomposo e urticante, così poco Steinbeck. Nella speciale classifica delle cover peggio riuscite di sempre, è appena un gradino sopra “Knockin’ on heaven’s door” dei Gun’s Roses.
“The wall” è una ballata acustica dedicata a un marine (“Cigarettes and a bottle of beer/This poem I wrote for you/This black stone and these hard tears/Are all I've got left now of you/I remember you in your Marine uniform laughing/Laughing that you're shipping out probably/I read Robert McNamara says he's sorry”) e per ultimi i Suicide, vecchia passione. Notevoli i testi, ancora una volta dalla parte di chi sta al margine: “Questa è la musica che ho sempre sentito il bisogno di pubblicare. Dai gangster di “Harry’s Place”, i compagni di stanza di “Frankie Fell In Love”, (ombre di me e Steve che facciamo casino nell’appartamento di Asbury Park), i viaggiatori nella terra desolata di “Hunter Of Invisible Game”, fino ai soldati e i visitatori di “The Wall”, sentivo che si meritassero tutti una casa e un ascolto.”

mercoledì 5 febbraio 2014

GRANDI SPERANZE (RIPOSTE MALE)

L’idea di questo album - un inno a nuove grandi speranze come suggerisce il titolo, “High hopes” – nasce dall’ingresso (temporaneo) di Tom Morello nella E Street Band, in sostituzione di Van Zandt,  durante la recente tournee australiana. La collaborazione con l’ex chitarrista dei Rage Against the Machine si è presto trasformata in idillio, tanto che si è pensato di realizzare un album infarcito di cover, outtakes e vecchi brani del Boss rivisitati con la nuova formazione.  
 “High Hopes” pare quasi un disco live. La titletrack è una rivisitazione – in un tripudio di fiati - di un vecchio brano degli Havalinas di Tim Scott McConnell: “Monday morning” è un incipit notevole, e il verso “Gimme love/gimme peace” è un amarcord della stagione del florer power. La successiva “Harry’s Place” ha una base elettronica e un’anonimo andamento funk: forse serviva un arrangiamento più sobrio, meno ridondante. Segue una nuova versione di “American skin”, inutile qui ripetere dell’episodio di violenza razzista da cui nasce la canzone, tra le più belle della sua produzione recente. Ecco le cover: “Just like fire would” è un brano degli australiani Saints al quale se togli la ruvidezza e l’immediatezza del punk resta poco. Ricorda Mellencamp.
Onesto e sano rock, si dirà, ma da uno come il Boss si può pretendere di più: la scrittura dei pezzi è spesso elementare e non brilla certamente per originalità e per urgenza. “Down in the hole”, ad esempio, è affascinante, ma troppo simile a “I’m on fire”.
Tuttavia il nostro non si risparmia, as usually. “Heaven’s wall” è un gospel celtico nel mezzo del quale Morello entra con la delicatezza di un elefante in una cristalleria, e apre la sequenza folk che sta nel cuore dell’opera, completato da “Frankie fell in love”, “This is your sword” e “Hunter of invisible game”.
Il finale non ci aiuta a emettere un verdetto definitivo: la versione elettrica di “The ghost of Tom Joad” tradisce la disperazione dell’originale, con un Morello ancora sopra le righe e un finale pomposo e urticante, così poco Steinbeck. Nella speciale classifica delle cover peggio riuscite di sempre, è appena un gradino sopra “Knockin’ on heaven’s door” dei Gun’s Roses.
“The wall” è una ballata acustica dedicata a un marine (“Cigarettes and a bottle of beer/This poem I wrote for you/This black stone and these hard tears/Are all I've got left now of you/I remember you in your Marine uniform laughing/Laughing that you're shipping out probably/I read Robert McNamara says he's sorry”) e per ultimi i Suicide, vecchia passione. Notevoli i testi, ancora una volta dalla parte di chi sta al margine: “Questa è la musica che ho sempre sentito il bisogno di pubblicare. Dai gangster di “Harry’s Place”, i compagni di stanza di “Frankie Fell In Love”, (ombre di me e Steve che facciamo casino nell’appartamento di Asbury Park), i viaggiatori nella terra desolata di “Hunter Of Invisible Game”, fino ai soldati e i visitatori di “The Wall”, sentivo che si meritassero tutti una casa e un ascolto.”

venerdì 27 dicembre 2013

IL PAGELLONE DI FINE ANNO, 2013

25
ATOMS FOR PEACE - Amok

Snobbata dalla critica, la nuova band di Thom Yorke (Radiohead) propone un’elettronica d’avanguardia, in cui - rispetto al recente passato - appare più solida la base ritmica. La monolitica continuità dell’album è interrotta da episodi notevoli quali “Stuck together pieces”, il singolo (atipico, come singolo) “Judge jury and executioner” e “Unless”, il manifesto della nuova stagione della disillusione: ”Non me ne potrebbe fregare di meno”.




24
DAFT PUNK - Random Access Memories
DISCLOSURE - Settle

Ecco invece due dischi sopravvalutati.
Il caso più clamoroso è quello del duo parigino dei Daft Punk, incensati da VIP, gente comune e nostalgici della disco ‘80. Moroder addirittura in un cameo parla di “the sound of the future”. A noi invece sembrano a volte una stanca riedizione dei Kraftfwerk, e il loro suono metallico pare la colonna sonora di vecchi videogames come Nibbler o Donkey Kong. I pezzi più belli, le collaborazioni con Panda Bear e Gonzales.
Molte parole si sono fatte anche per il debutto dei londinesi Disclosure. In patria sono i nuovi idoli della scena underground danzereccia. Tre-quattro cose da ricordare, come “When a fire start sto burn”, “Latch” e “January”. E, anche qui, tante cose già sentite altrove.

23
DAUGHTER - If You Leave

Incidono per la 4AD, sinonimo di garanzia. Siamo in territori dark, musica da camera scarna, tormentata e delicatamente malinconica, testi poco allegri (eufemismo) e claustrofobici ("Fin dall’infanzia sono preda della forza di un’orribile malinconia, la cui profondità trova la sua vera espressione nella corrispondente capacità di nasconderla sotto apparente serenità e voglia di vivere").
Riferimenti del nuovo millennio: St.Vincent, Soap&Skin, Bon Iver, XX.

22
PEARL JAM - Lightning Bolt

Il solito disco onesto dei Pearl Jam.

21
DEPECHE MODE - Delta machine

La band di Gore recupera le sonorità cupe e claustrofobiche di uno splendido passato (“Black celebration” e “Songs of faith and devotion”), ammiccando alle atmosfere dark anni ’80 e al minimalismo tech della nuova scena elettronica (Autechre, Four Tet, Seefeel).
Quello che colpisce è la perfezione quasi assoluta del sound.

20
DAVID BOWIE - The Next Day

Un nuovo giorno. Partire dal (glorioso) passato e guardare al futuro.
Un Bowie in gran forma.

19
NATIONAL - Trouble Will Find Me

Ripetersi senza ripetersi è sempre difficile.
Tuttavia, la loro raffinata miscela di post-punk, canzone d’autore e rock intellettuale (Joy Division, Leonard Cohen, Nick Cave, Tindersticks) pur non essendo rivoluzionaria funziona sempre alla grande.

18
DEERHUNTER - Monomania

Non può essere eletto capolavoro di una carriera ormai decennale, ma “Monomania” è un concentrato di sonorità made in USA: echi lontani dei Sessanta (Love, Byrds), il lo-fi psichedelico a là Flaming Lips e Sebadoh, il Beck più casinista e artistoide, addirittura il garage degli Stooges (e dei Fall di Mark E Smith).

17
FOALS - Holy fire

Uno dei gruppi inglesi più interessanti degli ultimi tempi, almeno per chi scrive, amante del prog-rock (King Crimson, i primi Genesis, i Van der Graaf) e della scuola di Canterbury (e qui troviamo rimandi all’opera del maestro Bob Wyatt). Ascolto più che gradevole, sul quale spiccano almeno due gemme come “Bad Habit” e la minimale “Stepson”, ballata ipnotica e ripetitiva, oltre al singolo “Inhaler” - che ricorda i Jane’s Addiction.

16
DELOREAN - Apar

Arrivano dai Paesi Baschi e prendono il nome dalla macchina del tempo di “Ritorno al Futuro”.
Suonano un dreampop di gran classe.

15
IRON & WINE - Ghost on ghost
JOHN GRANT - Pale Blue Ghosts

Ovvero: Fantasmi 2.0
Abbandonato il folk da strada degli esordi, Iron&Wine prosegue il suo percorso verso un sound ricco ed elegante, jazzato, con riferimenti come Donald Fagen e Paul Weller, Calexico e Paul Simon.
Ex-leader degli Czars, Grant si era appena messo alle spalle una fase a dir poco turbolenta della sua vita quando scopre di essere sieropositivo. Smarrite le ultime, poche, certezze, da alle stampe il suo secondo album solista: discontinuo, cupo, drammatico, a tratti ancora magico.

14
MY BLOODY VALENTINE - MBV 

 
Capostipiti della scena shoegaze, gli irlandesi tornano dopo ben 22 anni: è subito trionfo di critica e pubblico.
Meritatissimo.
“MBV” riprende il filo interrotto, costruendo muri di chitarre elettriche e di feedback a fare da sfondo a melodie eteree e ipnotiche.

13
ANNA CALVI - One breath
JULIA HOLTER - Loud city song

Le donne dell’anno.
Per la prima, autrice inglese di origini italiane, è stato scomodato Jeff Buckley.
Per la seconda, dal Michigan, addirittura Robert Wyatt.
Curiosi?

12
GOLDFRAPP  - Tales of us

Nativa del Middlesex, Alison Goldfrapp è la splendida voce dell’omonimo duo, da sempre avvicinato dalla critica alla scena di Bristol.
Dopo un lungo silenzio, “Tales of us” è, più che una collezione di brani musicali, una vera e propria raccolta di racconti, dieci tracce dedicate ad altrettanti personaggi.
Musica da camera, senza tempo.

11
FUCK BUTTONS – Slow focus
DARKSIDE - Psychic

A Bristol fanno stanza anche i Fuck Buttons, autori di straordinarie cavalcate elettroniche.
I loro fottuti bottoni ci regalano strumentali tra la psichedelica e il krautrock, con echi dreamy e di danze tribali.
Colonna sonora di un futuro alle porte.
Notevole anche il disco dei Darkside:
Ambient? Elettronica d’avangiardia? Chambertronica?
Al diavolo le etichette, lasciatevi conquistare dai suoni e dalle atmosfere del nuovo progetto di Nicholas Jaar.

10
MUM - Smilewound

I Mum sono noti per la bizzarria degli arrangiamenti, un mix ben amalgamato tra tecnologia digitale e strumenti tradizionali, alcuni recuperati alle fiere locali del vintage.
La loro è una musica fiabesca, quasi in sospensione, una psichedelia minimale e misurata come solo dei gentili ragazzi del Nord Europa - vengono dall’Islanda - possono immaginare.

9
MASSIMO VOLUME - Aspettando i barbari

A distanza di ormai vent’anni dalle prime folgoranti poesie in musica, i bolognesi Massimo Volume riescono ancora a stupire e a emozionare.
Le liriche di Clementi sono di alto livello – “Ora che la sera/Accorcia le ombre/Noi ci ritiriamo/E di fronte allo specchio/Come spose/Ci acconciamo/In onore dei barbari” – manifesto impietoso di un tempo corrotto come il nostro.

8
VAMPIRE WEEKEND - Modern vampire of the city

Ne abbiamo spesso parlato male, in passato. Li avevamo accusati di non volere crescere. E invece i ragazzi newyorchesi sono diventati grandi, ma grandi davvero. Un bel passo in avanti per un disco godibile: il migliore pop in circolazione.

7
THESE NEW PURITANS - Field of reeds

Altra band sperimentale e assai interessante, i These New Puritans arrivano da Southend-on-Sea.
Il loro terzo album è lontano dalla nu-wave degli esordi, e suona come un meraviglioso post-rock espressionista e quasi dark, con orchestrazioni raffinate e minimali.
“Fragment Two” e “V (Island Song)” le gemme assolute dell’album.

6
KANYE WEST - Yeezus

Il genere non ci fa strepitare, ma come si può definire il genere di un disco come “Yeezus”: un sound più minimale rispetto al passato, ripulito e portato all’essenziale, quasi sperimentale; tracce di psichedelica e di suoni sixties - addirittura un sample di “Strange fruit”, nella versione di Nina Simone; ospiti illustri come Frank Ocean e Justin Vernon - aka Bon Iver -, tra i nostri preferiti.
E un diluvio di fuck: “Fuck you and your corporation/Y’all niggas can’t control me”, che nemmeno il Grande lebowski.
Insomma, lui è davvero gradasso (“I am God” (featuring God), “I just talked to Jesus, he said, ‘what up Yeezus?’” – oppure: "Ora, faccio solamente ciò che voglio, quando voglio, come cazzo voglio. Vaffanculo è il mio messaggio"), però è impossibile non ammettere che è proprio bravo.
(Fuck).

5
BILL CALLAHAN - Dream river
MARK KOZELEK & DESERTSHORE - Mark Kozelek & Desertshore

Chi ha detto che non nascono più grandi cantautori?
Bill Callahan, ad esempio, è uno di quelli che in futuro potrebbe essere affiancato a Cohen, Waits, Newman, Dylan…
L’ex leader degli Smog ha un magnifico timbro vocale, quasi baritonale, con il quale interpreta in modo personale e sofisticato le sue canzoni quiete, minimali, notturne. Canzoni che parlano della grande periferia americana, di praterie sconfinate e di motel fatiscenti, di lunghe strade che si perdono all’orizzonte e di pickup sgangherati. Canzoni che narrano di solitudine e paura, di angoscia e alienazione.
Prolifico come pochi, l’ex Red House Painters e Sun Kil Moon è uscito nel 2013 addirittura con due album. Il più notevole nasce dalla sua collaborazione con i Desertshore. Qui l’atmosfera è meno rilassata e più elettrica, il tono meno monocorde, c’è spazio per cambi di ritmo e divagazioni.

4
ARCTIC MONKEYS - AM

La band di Sheffield abbandona l’indie degli esordi ed emigra in America. Il suono ora è più maturo, scarno ed essenziale, la scrittura è più complessa.
L’album si apre con una spettacolare doppietta, “Do I wanna Know?” e “R U Mine?” - due domande, come a dire, risposte non ne abbiamo – e si chiude con una mielosa “Mad sounds” che termina in un Ullallà-ù di cui le scimmie sembrano non avere vergogna, a dimostrazione di una maturità raggiunta.
(Chissà cosa ne penseranno i fan della prima ora, quelli del clubbing più duro).

3.
NICK CAVE & THE BAD SEEDS - Push the sky away

 
Era dai tempi del bellissimo “No More Shall We Part” che l’artista australiano non trovava una simile ispirazione.
“Push the Sky Away”, quindicesimo album ufficiale del nostro con i Bad Seeds (che nel frattempo hanno perso Bargeld e Harvey, ma ritrovato Adamson), è un clamoroso ritorno alle atmosfere languide e rarefatte dei suoi capolavori.

2.
JAMES BLAKE - Overgrown

 
“Overgrown” (ovvero: cresciuto troppo, o troppo alla svelta - Blake è del 1988) è il significativo titolo del nuovo lavoro di questo enfant prodige della scena dubstep londinese. 
Una voce emozionante, struggente, matura e personale. Brani minimali e aspri, quasi spettrali, e poche concessioni a ritmi più sincopati e a un’elettronica house.
Un nuovo grandissimo cantautore. Un esploratore delle più intime emozioni, con squarci di luce pura. Quasi sacra.

1
ARCADE FIRE - Reflektor

 
“Reflektor” non e’ il disco dance della straordinaria band di Montreal, Canada.
E’ molto di più.
C’è più ritmo, e c’è un’atmosfera più serena e rilassata rispetto agli esordi, forse per merito del clima caraibico della Giamaica, dove il disco è stato registrato, e di Haiti, paese di provenienza di Régine Chassagne. Loro stessi ammettono: “Ci piace ballare, ma la musica dance è così stupida”. La co-produzione di Murphy degli LCD Soundsystem ha fatto il resto. C’è più glam, e lo stesso Win Butler appare sempre più consapevole del suo ruolo di star internazionale. Ci sono infine i rimandi letterari - il mito di Orfeo, Camus - e alla scultura di Rodin.
C’è, soprattutto, l’ambizione di voler dimostrare a tutti la propria forza.
Pronti a entrare nell’olimpo dei grandi.

domenica 15 dicembre 2013

I RIPESCAGGI DI DICEMBRE (MUM, THESE NEW PURITANS, MASSIMO VOLUME)

Dicembre, è tempo di ripescaggi.
In prima fila segnaliamo la sesta fatica dei Mum, dall’Islanda, noti per la bizzarria degli arrangiamenti, un mix ben amalgamato tra tecnologia digitale e strumenti tradizionali, alcuni recuperati alle fiere locali del vintage.
La loro è una musica eterea e fiabesca, quasi in sospensione, una psichedelia caleidoscopica ma misurata come solo dei gentili ragazzi del Nord Europa possono immaginare. Il singolo “Tootwheels”, che apre l’album, non può mancare nelle compilation di fine anno, ma tutta la raccolta è di alto livello: fanno meglio anche dei conterranei Sigur Ros, che con “Kveivur” confermano i segnali di stanchezza degli ultimi tempi.
Altra band sperimentale e assai interessante, i These New Puritans arrivano da Southend-on-Sea, Inghilterra, e sono costituiti dai gemelli Barnett e da Thomas Hein (Sophie Sleigh-Johnson ha recentemente abbandonato il gruppo). Il loro terzo album è lontanissimo dalla nu-wave degli esordi: il loro è un meraviglioso post-rock espressionista e quasi dark, vicino alle atmosfere della prima 4AD, con orchestrazioni raffinate e minimali. “Fragment Two” e “V (Island Song)” le gemme assolute dell’album.
Ultima segnalazione del 2013, prima del consueto pagellone di fine anno (prossimamente su questi schermi), è per i bolognesi Massimo Volume, che a distanza di ormai vent’anni dalle prime folgoranti poesie in musica riescono ancora a stupire e a emozionare con “Aspettando i barbari”. 
Le liriche di Clementi sono di alto livello – “Ora che la sera/Accorcia le ombre/Noi ci ritiriamo/E di fronte allo specchio/Come spose/Ci acconciamo/In onore dei barbari” – manifesto doloroso e impietoso di un tempo inquieto come il nostro.

giovedì 5 dicembre 2013

DEVENDRA BANHART, "Mala" (2013) - KURT VILE, "Wakin’ on a pretty daze" (2013) - IRON & WINE, "Ghost on ghost" (2013)

La geografia USA è immensa, e spostandoci da una costa all’altra andiamo a scovare alcuni tra i migliori cantautori di questo inizio millennio. 
Banhart ormai non è più un novellino. Questo strambo hippie fuori tempo, cresciuto in Venezuela e poi trasferitosi in California (prima a Frisco e poi a Los Angeles), è giunto all’ottavo disco. “Mala” - dal serbo, lingua della sua compagna, la fotografa Ana Kras - non è uno dei suoi migliori, leggero e a tratti sfocato, ma non tradirà le attese dei fan più duri, con la consueta miscela di indie-folk fricchettone e ritmi caraibici e sudamericani. 
Vile, da Philadelphia, è invece assurto da meno tempo alle cronache, anche se ha all’attivo ormai cinque album. In questo “Wakin’ on a pretty daze” si fanno notare l’incedere indolente e sbilenco alla Lou Reed - ci sono almeno tre o quattro pezzi che assomigliano a “Sweet Jane”, in questo disco, anche se la critica preferisce i paragoni con Neil Young - e il gusto per la ripetizione all’infinito di un riff o di un giro di basso – prendete la conclusiva “Goldtone”, lunga quasi dieci minuti e tra le migliori insieme a “Pure pain” e “Shame chamber” (quest’ultima con uno strillo rubato all’hombre lobo degli Eels).
Un doppio album per quasi settanta minuti di musica, forse troppi.
Iron&Wine, al secolo Sam Bean, aveva abbandonato il folk da strada degli esordi per le orchestrazioni raffinate e a più strati di “Kiss each other clean” (2011), che a noi era tanto piaciuto, e per questo era stato accusato di tradimento come un novello Bob Dylan. Prosegue ora il nuovo percorso con un album ricco ed elegante, jazzato, con riferimenti come Donald Fagen e Paul Weller, Calexico e Paul Simon. Tra i pezzi più riusciti “Caught in the briars”, “Low light buddy of mine” e i gioielli acustici “Joy” e “Sundown (Back in the briars)”.
Notevole.

JAMES BLAKE, "Overgrown" (2013)

Con colpevole ritardo vi parliamo del secondo album di James Blake, enfant prodige della scena dubstep londinese, acclamatissimo dalla critica britannica - e non solo - per il suo debutto eponimo del 2011.
“Overgrown”, questo il significativo titolo del nuovo lavoro (ovvero: cresciuto troppo, o troppo alla svelta – Blake è del 1988), si apre con il brano omonimo che denuncia le sue difficoltà e le sue angosce derivate da un improvviso successo, che tutto travolge (“I don’t wanna be a star/But a stone on the shore/Long door, frame the wall/When everything’s overgrown”). Brano delicato e suggestivo, tra Antony e Bon Iver, la Bjork più sperimentale e il grande Tim Buckley. Una voce emozionante, struggente, matura e personale; quasi nera. Imparentata, oltre che con Antony, con il soul contemporaneo di Drake.
In successione, arrivano le altrettanto ottime e introspettive “I am sold”, che risente dell’influenza del miglior Moby,  e “Life rounds here”, con un groove futurista. Potrebbe affiorare la stanchezza, ed ecco che Blake spiazza tutti con “Take a fall from me”, ove lascia spazio all’hip hop sommesso di RZA. La strepitosa ed epica “Retrograde”, nuovo singolo, chiude nel migliore dei modi l’ipotetica side A (“I’ll wait, so show me why you’re strong/Ignore everybody else/We’re alone now/Suddenly I’m hit/Is this darkness of the dawn/And your friends are gone/When you friends won’t come/So show me where you fit/So show me where you fit...”).
La seconda parte inevitabilmente cala di tensione, e tuttavia “Digital lion” – che vanta la produzione di un mago dell’elettronica come Brian Eno – e “Voyeur” aprono nuovi orizzonti con l’apertura a ritmi più sincopati e a un’elettronica house. In chiusura, due brani minimali e struggenti come “To the last” – con una notevole coda melodica, quasi Bristol sound - e “Our loves come back”.
Un nuovo grandissimo cantautore. Un esploratore delle più intime emozioni, con squarci di luce pura. Quasi sacra. 
Un disco praticamente perfetto.

domenica 24 novembre 2013

ROCK’n’GOAL: CALCIO E MUSICA. PASSIONI POP, di Antonio Bacciocchi e Alberto Galletti

Sottovalutato anche qui da noi, forse a causa di quella timidezza, di quel garbo e di quella pacatezza che lo contraddistinguono, Antonio “Tony Face” Bacciocchi - coinventore di “Tendenze” e membro storico dei Not Moving - è stato ed è tutt’ora un grande agitatore culturale. Cultura da intendersi nel senso popolare del termine. A differenza di altri intellettuali più snob, Tony non ha mai nascosto le sue simpatie verso passioni pop come la musica e il calcio, oltre che per la politica e i temi sociali. Chi legge il suo blog (http://tonyface.blogspot.it) lo sa bene.
“Entrambi i fenomeni, calcio e rock, sono identitari” - racconta Bacciocchi in una recente intervista a Rolling Stone – “hanno un immaginario simile: come in un concerto la rockstar si esibisce davanti a un pubblico numeroso che lo incita e lo appoggia, lo stesso fa il calciatore…”. Per chiarire meglio il concetto, cita John Peel, storico DJ della BBC: “Sebbene entrambi siano condotti da gente volgare e rozza che non ha cuore altro che il cliente che paga, il prodotto in sé in entrambi i casi mantiene una capacità di partecipazione emotiva che va oltre la comprensione dei suddetti rozzi e volgari”.
Il tema del rapporto tra calcio e musica viene approfondito davvero con dovizia di particolari in “ROCK’n’GOAL. CALCIO E MUSICA. PASSIONI POP”, scritto a due mani con Alberto Galletti ed edito da Vololibero, con prefazione di Jacopo Casoni e postfazione di Claudio Agostoni.
Un libro che parla di calcio e di pop-rock. Ovvero, il sogno di Nick Hornby. Il sogno di molti di noi. "Rock’n’goal" ne analizza tutte le possibili, anche quelle più improbabili e insospettabili, connessioni. Calciatori cantanti, canzoni dedicate al calcio, tifosi eccellenti, il rock e le sottoculture nelle curve. Con stralci di interviste sulle passioni calcistiche di Mick Jagger, Paul McCartney, Roger Daltrey, Clash e decine di musicisti e cantautori italiani.
Il volume ha avuto una vasta eco sui media nazionali: ne hanno parlato i maggiori quotidiani,  il sito del Corriere gli ha dedicato persino una bella galleria fotografica, e Tony è stato ospite di Sky e a Quelli che il calcio.
Gli aneddoti e gli episodi da riportare sarebbero tantissimi, basti citare di un Julio Iglesias portiere della squadra giovanile del Real Madrid, di un piccolo David Bowie ottima ala sinistra, di un Badly Drawn Boy che a diciotto anni fece un provino per il Manchester United. O anche dei 45 giri incisi da Paul Gaiscogne, Kevin Keegan e Giorgio Chinaglia. Delle esibizioni pedatorie di Rod Stewart ed Elton John. Della fede dei fratelli Gallagher per il City, o di quella nerazzurra di Luciano Ligabue, che ha omaggiato Oriali nel brano “Una vita da mediano”. Di “Santa Maradona”, grande successo dei Manonegra. Di Jagger sul palco a Torino, l’11 luglio del 1982, con la maglia azzurra di Paolo Rossi. E del finale di “Fearless” dei Pink Floyd, con il coro della Kop, la curva del Liverpool, che intona “You’ll never walk alone”.
Tra le storie meno conosciute, c’è quella di Billy Bragg: durante un suo viaggio in Bolivia per realizzare un documentario per la BBC, a 4000 metri di quota davanti a un panorama mozzafiato, riuscì a captare una trasmissione inglese in cui si annunciava che il suo West Ham aveva perso 6-0 contro l’Oldham. Commentò: ‘Sentii il mondo crollarmi addosso”. Oppure c’è quella di “Munich Air Disaster 1958”, una bellissima canzone di Morrissey, da ragazzo assiduo frequentatore delle gradinate dell’Old Trafford, omaggio ai calcatori del Manchester United scomparsi in una tragedia aerea: “Li abbiamo amati, li piangiamo, sfortunati ragazzi in rosso”. Tornando in Italia, bella la testimonianza di oSKAr (Oscar Giammarinaro), leader della storica band Statuto, ultrà granata, in cui racconta il suo incontro con l’allora capitano del Torino Giorgio Ferrini: enorme, forte e fiero, (…) sempre pronto a difendere tutti i suoi compagni. “Quando diventai capitano dei pulcini dissi al mio allenatore: ma io dovrei fare come Ferrini? Come Ferrini non c’è nessuno, mi rispose con un’aria lui quasi sconsolata”.
Queste e altre chicche ci racconteranno Tony Face e Alberto Galletti in persona, mercoledì 27 novembre (ore 21), ospiti del Caffè letterario Melville di San Nicolò. 




mercoledì 6 novembre 2013

STEREO BLUES VOL. I: PUNK COLLECTION

L’EP “Stereo Blues Vol. 1: Punk collection” è il primo episodio di quattro omaggi che Lilith e i suoi Sinnersaints vogliono tributare alle radici del proprio sound, un viaggio trasversale e obliquo attraverso la musica rock e non solo; quattro omaggi che verranno successivamente raccolti in un imperdibile metalbox a tiratura limitata.
I brani selezionati per questo Volume One sono tutti datati alla fine dei Settanta. Un periodo fecondo e irripetibile, quando il punk – sporco, nichilista, trasgressivo – fece irruzione in un contesto caratterizzato da una forte crisi economica e dal riflusso di quella rivoluzione dei Sixties, ormai morta e sepolta. Gli anni in cui Lilith (al secolo: Rita Oberti), a soli quindici anni, contribuì a creare la leggenda dei Not Moving.
Un percorso personale, prima di tutto: ma anche un tributo a una generazione.
“Sailin’ On” è un classico dei Bad Brains, gruppo di Washington tra i pionieri dell’hardcore: la versione di Lilith è assai più lenta, un notevole blues indolente a là Nick Cave. 
“i’m stranded” è il singolo di debutto degli australiani Saints, che nel ’76 anticiparono un po’ tutti, persino i Sex Pistols. Qui sembra suonata dagli Husker Du o dai R.E.M. di “Murmur”.
“See no evil” è la prima traccia da “Marquee Moon”, disco d’esordio dei Television di Tom Verlaine e pietra miliare del rock. E’ la più fedele all’originale. Poco male, in questo lotto è la nostra preferita.
Infine, non potevano mancare i Clash. La scelta a prima vista parrebbe inusuale, ma il brano “The sound of sinners” (dall’album triplo “Sandinista”, 1980) è – oltre che una satira irriverente sulla religione cattolica – anche, probabilmente, l’origine del nome dei “santi peccatori”. Cover di grande classe, tra il rockabilly e il vecchio west, impreziosita dai cori gospel di Carla Gatti, Beppe Cassi e Lorenzo “Puccio” De Benedetti. In coda, un omaggio alla blank generation.
L’interpretazione di Rita è impeccabile. La sua voce dura e allo stesso tempo suadente è accompagnata da un’ormai affiatata band composta da Tony Face Bacciocchi alla batteria e Massimo Vercesi alla chitarra; attualmente il gruppo è completato da Christian Josè Cobos (Cj HellectricBass) al basso.
Curiosissimi di ascoltare il seguito.

lunedì 4 novembre 2013

ARCADE FIRE, "Reflektor" (2013)

"Reflektor” non e' il disco dance degli Arcade Fire.
E’ vero, c'e molta elettronica, ci sono le basi, ma anche molto di più. Assurdo paragonare la band di Montreal ai Daft Punk, come hanno fatto alcuni. Più interessanti i parallelismi con album come “Station to station” (un Bowie all’apice del successo sterzò verso una dance wave spiazzando tutti) e “Achtung Baby” (la svolta berlinese degli U2 all’apice del successo).
Anche in “Reflektor”, quarto e doppio album della band più amata del circuito alternativo, c'e voglia di cambiare. C’è più ritmo, e c’è un’atmosfera più serena e rilassata rispetto agli esordi (ricordate “The Funeral”?), forse per merito del clima caraibico della Giamaica, dove il disco è stato registrato, e di Haiti, paese di provenienza di Régine Chassagne. Loro stessi ammettono: “Ci piace ballare, ma la musica dance è così stupida”. C’è più glam, e lo stesso Win Butler appare sempre più consapevole del suo ruolo di star internazionale. Ci sono infine i rimandi letterari – il mito di Orfeo, Camus – e alla scultura di Rodin.
C’è, soprattutto, l’ambizione di voler dimostrare a tutti la propria forza.

Apre il Disco 1 il singolo omonimo, con il quale la band indica la nuova strada che già “The suburbs”, tre anni fa, aveva anticipato con brani da revival anni ’80 come “Empty room” e “Sprawl II” e i barocchismi di “Rococo”. La co-produzione di Murphy degli LCD Soundsystem ha fatto il resto.
La seconda traccia, “We exist”, pulsa su uno spettacolare groove. “Normal person” è un blues-rock di classe, mentre “Here comes the nighttime” è un quasi-reggae davvero irresistibile (e questa volta sì, il paragone regge: questo pezzo potrebbe togliere a “Get Lucky” il titolo di tormentone dell'anno) nei suoi continui cambi di ritmo. Questi tre brani rappresentano la soundtrack di un divertente video – autore: Roman Coppola – girato in un anonimo locale della provincia canadese (il Salsatheque) gestito da ispanici che adorano i Mumford & Sons e vorrebbero Bublè: con un cameo di Bono e di Ben Stiller. Come a dire, pronti a entrare nell'olimpo dei grandi. 
Oltre a questi, c’è il punk di “Joan of Arc” con un un gran giro di basso - il basso e' spesso in primo piano, in tutto l'album. “The bassline on Joan of Arc is fucking epic”, commentano gli stessi Arcade Fire - e il pop raffinato
Il Disco 2 è forse leggermente inferiore. Qui in primo piano ci sono le ballate elettroniche “Porno” e “Awful sound” (“I know you can see / Things that we can’t see / But when I say I love you / Your silence covers me / Oh, Eurydice, It’s an awful sound, e subito dopo When you fly away / Will you hit the ground? / It’s an awful sound”), l’electro-funk di “It’s never over” e la classica “Afterlife” (insieme a “You already know” il brano che segna la maggior continuità col passato). Chiude una psichedelica “Supercymmetry”, oltre undici minuti di suoni e riverberi.
Il disco dell’anno?

lunedì 28 ottobre 2013

QUANDO LOU REED SUONO' A PIACENZA (SEMBRA INCREDIBILE, MA E' VERO)

E’ un peccato doverlo dire adesso che Lou Reed ci ha purtroppo lasciati, ma la sua storica esibizione piacentina – avvenuta il 28 febbraio 2006 al Palabanca, davanti a quasi duemila persone - non era stata, per usare un eufemismo, una delle sue migliori performance. Il sessantaquattrenne artista newyorkese si era presentato con il consueto total black: giacca di pelle nera, tshirt nera, pantaloni di pelle, nera, anfibi, occhiali, neri. Era da subito parso in precarie condizioni psicofisiche, al solito taciturno, direi anche piuttosto scazzato: insomma non ne aveva molta voglia. Durante gli assoli di chitarra – lunghi, troppo lunghi, sembrava Neil Young in acido, anche se su quel terreno il canadese è imbattibile – a volte barcollava, gli capitava di inciampare nei cavi. Fissava il vuoto.
L’attesa al Palabanca era di quelle uniche e irripetibili.
Intanto: Lou Reed a Piacenza. Dici poco. Per una volta non ti sembrava di essere alla periferia dell’impero, ai margini di tutto quello che conta.
La setlist aveva - come sempre accede in queste occasioni - suscitato perplessità e delusioni, composta com’era da pezzi recenti, tratti da “Animal Serenade” (2004), “The Raven” (2003) ed “Ecstasy” (2000), oltre che da pezzi minori riarrangiati in versione noise, e da almeno due pezzi inediti. Era ovvio che non ci si poteva aspettare ne’ un greatist hits ne’ tantomeno un amarcord dei Velvet Underground, però le concessioni alla nostalgia furono davvero poche, pochissime: tra esse il bis con “Sweet Jane”, in piedi davanti al palco senza transenna, un grande classico che l’eroe maledetto del rock (oggi tutti i media titolano così…) probabilmente eseguiva solamente per riappropriarsene, dopo lo scippo (splendido) dei Cowboys Junkies. Quindi: niente “Transformer”, niente “Berlin”. Ma nemmeno nessun brano da grandi dischi come “Magic and loss” e “New York”. Altrettanto ovviamente, i fan duri e puri sui forum si fecero beffa di quei poveretti che si aspettavano “Perfect Day” o “Walk on the wild side”…
Ma l’atmosfera era stata comunque vibrante, la platea da subito si era svuotata (in teoria posti a sedere numerati) per andarsi a sedere per terra sotto il palco (e intanto quelli della tribuna erano scesi in platea). C'era stata anche la surreale entrata di un maestro di Tai Chi, il cui kata era stato accompagnato dalla musica.
E tornando a casa, avvolti nella nebbia che trasudava da una distesa di magazzini per la logistica e di piazzali di asfalto per le manovre degli articolati, tra trattorie a menu fisso e prostitute coi collant e la mini, ci era sembrato di aver vissuto - in ogni caso - una indimenticabile serata di rock’n roll.

mercoledì 23 ottobre 2013

PEARL JAM, "Lightning bolt" (2013)

Sembra ieri, che abbiamo iniziato, e invece questo “Lightning Bolt” è il terzo album dei Pearl Jam – su dieci in totale, in studio – che recensiamo in questa rubrica su PiacenzaSera. Avevamo cominciato un po’ in sordina, tanto per fare, e poi invece ci si divertiva ed eccoci qua.

E già due anni fa, parlando del live, avevamo commentato che non capivamo quelli che ogni volta storcevano il naso. Scrivevamo, davvero non li capiamo, quelli: i Pearl Jam sanno fare bene i Pearl Jam, cos’altro dovrebbero fare?
E anche questa volta fanno i Pearl Jam.
Ci sono i consueti pezzacci adrenalinici ed elementari, con in testa “Getaway”/“Mind your manners”, il primo singolo, che tuttavia non scaldano come un tempo, nel mezzo le ballate elettriche “Sirens” (scelta come secondo singolo) e “Shallowed whole”, buone per i live ma forse troppo telefonate, tipo Foo Fighters, oppure il blues rock vecchio stile di “Let the records play” e , in coda, l’acustica intimista di “Yellow moon” e “Future days”, un po’ ruffiane.
Tutto come da copione, a parte una copertina orrenda.
O forse no.
I brani più interessanti a un ascolto prolungato sono quelli più atipici: l’elettrica “My father’s son”, per via di quel ritornello in sospensione, una “Sleeping by myself” che - già parte delle “Ukulele songs”, qui riarrangiata in maniera impeccabile - sembra fare il verso a Weller e una “Pendulum” che viaggia in territori quasi lisergici, scritta a sei mani da Vedder, Jeff Ament e Stone Gossard.
Il solito disco onesto dei Pearl Jam.

domenica 13 ottobre 2013

SAMUELE BERSANI, "Nuvola numero nove"

E’ uno dei più bravi – il più bravo? - cantautori italiani, oggi, e questo lo abbiamo già detto.
Anche il pubblico sembra averlo capito: il suo “Nuvola numero nove” - dall’inglese “Cloud 9”, ovvero “Settimo Cielo” come il titolo di uno dei dieci pezzi - è stato per alcuni giorni al primo posto nella classifica dei download su iTunes.
Ciò nonostante, è comunque difficile, dopo più di venti anni di carriera (l’esordio, “C’hanno preso tutto”, è del 1992) e otto lp, riuscire a non deludere le aspettative.
Bersani ci riesce, e lo fa con un disco bello e leggero, dall’aria quasi scanzonata, anche ispirato alle dinamiche della sua sfera privata, ma non privo della solita lucida e spietata satira sul nostro paese, “stivale ridotto a pantofola”. Come in “DAMS”, dove ironizza sulla ribellione forzata di uno studente, oppure in “Chiamami Napoleone”, dove l’impietoso confronto tra l’attualità scontata e banale e il glorioso pasaato della cultura italiana (e non) ha come vittima i Modà: “Non c’è più niente qui da musicare, a parte un disco dei Modà”.
L’album è stato registrato nello studio utilizzato anche da Lucio Dalla, suo antico mentore a cui è stato dedicato. Rispetto al passato anche recente, i testi – sempre di alto, altissimo livello:  – appaiono meno complessi e cervellotici, più diretti, e il consueto uso/abuso delle metafore è più  limitato.
Interessanti gli arrangiamenti, più stratificati e meno pop, grazie anche ad alcune collaborazioni con artisti e band emergenti.
Tra i brani migliori, il singolo “En e Xanax”, ballata forse autobiografica sull’incontro con una ragazza anch’essa succube degli ansiolitici (“In due si può lottare come dei giganti contro ogni dolore/e su di me puoi contare per una rivoluzione”), la raffinata “Ultima chance” e le notevoli “Desiree” (“Desirée torna in sé dopo un sogno/svegliandosi tra gli scoiattoli di una città/su una panchina aspetta l’autobus /e si strofina le mani dal freddo che fa/è una mattina in cui le nuvole battono i taxi in velocità/e le altalene si credono libere di dondolare per propria volontà”) e “Il re muore” (“Rimango a farmi tenerezza/perché è cambiato il giorno/ma non tutto l’odio che vedo qui intorno/Ma quale ironia, servono soldi/muscoli e strada da fare per dimenticare”).

lunedì 23 settembre 2013

ARCTIC MONKEYS, "AM" - FRANZ FERDINAND, "Right thoughts right words right action" - EDITORS, "The weight of your love" (2013)

Il tempo è un bastardo. (cit.)*
Scorre per tutti, inesorabilmente. Ma non per tutti alla stessa velocità. Il mio cane, ad esempio. Zoppo e spelacchiato, abbaia rauco che sembra più una foca, che un cane. Per lui il tempo scorre più rapidamente. Lo stesso accade per le bands. 
Tra quelle emerse a inizio millennio in Gran Bretagna, ecco di nuovo in pista i Franz Ferdinand.
Artefici di un art-rock molto influenzato dal funky e dai Talking Heads, gli scozzesi tornano con un album dalla consueta grafica costruttivista e zeppo di brani ballabili, ridondanti, purtroppo schiavi di una formula ormai scontata e che invece tendono a ripetere all’infinito. Senza sussulti.
Discorso diverso per gli Editors.
Il gruppo di Birmingham si smarca dall’accusa di essere un clone dei Joy Division e vira, dopo la sfortunata parentesi elettronica del penultimo e assai deludente “In this light and on this evening”, verso un sound AOR e verso un’epica da stadio. La critica, spietata, cita U2, Muse e Coldplay. 
Peccato, perché le bonus track acustiche, “Hyena” e “Nothing”, lasciano intravvedere nuovi percorsi, se decidessero di abbandonare enfasi e magniloquenza.
Se la cavano egregiamente, invece, gli Arctic Monkeys, anche loro come gli Editors al quinto disco (i FF al quarto).
La band di Sheffield abbandona l’indie degli esordi ed emigra in America. Il suono ora è più maturo, scarno ed essenziale, la scrittura è più complessa, i temi più profondi.
L'album - semplicemente intitolato AM - si apre con una spettacolare doppietta, “Do I wanna Know?” (atipico primo singolo) e “R U Mine?”: due domande, come a dire, risposte non ne abbiamo.
“One for the road” è fiacca, ma non c'è tempo per recriminare. “Arabella” e la lennoniana “No. 1 party anthem” sono tra i pezzi più convincenti, e tra loro “I want it all” scorre tutto sommato innocua.
La seconda metà soffre il rischio della ripetizione e appare nel suo complesso meno urgente, anche se un cenno lo meritano “Fireside” e l’altro singolo “Why’d you only call me when you’re high”, mentre “Knee socks” sembra rubare l'intro a “Miss you” degli Stones e la mielosa “Mad sounds” termina - tra organi sixties e una chitarra dolcemente ripegata su sè stessa - in un Ullallà-ù di cui le scimmie artiche sembrano non avere vergogna, ed è una dimostrazione di maturità raggiunta (chissà cosa ne penseranno i fan della prima ora, quelli del clubbing più duro).
* Jennifer Egan

domenica 27 maggio 2012

DECEMBERISTS, "We all raise our voices to the air" (2012)

Il lettore più attento potrà lamentarsi: ancora i Decemberists. Vero, seguiamo con attenzione le mosse della band di Portland, e l’ennesima occasione per parlare di loro è l’uscita del loro primo live, un cd doppio – addirittura triplo nell’edizione in vinile. La recente riscoperta della tradizione e delle radici folk si riflette in questa torrenziale (126 minuti!) raccolta di brani incisi in ben 12 diverse performance tenute da Colin Meloy e soci dal mese di aprile ad agosto del 2011, durante il Popes of Pendarvia World Tour, comprese le ultime due date nella loro città natale (alcuni episodi si avvalgono di una sezione fiati aggiuntiva). Tale generosità permette loro di farsi perdonare qualche piccola sbavatura. La raccolta si caratterizza per una sapiente alternanza tra struggenti e languide ballate e pezzi più ritmati e festaioli, con grande profusione di mandolini, fise e armoniche a bocca, e si distingue per la sua immediatezza e il suo potente impatto emotivo. La track-list ripercorre una breve ma intensa carriera, se album e una mancita di EP (32 solo nel corso del 2011): da Oceanside (dall’EP di debutto, Five Songs, 2001) alle storie epiche di soldati e marinai tratte dal celebrato Picaresque (2005: The Infanta, The Bagman’s Gambit, We Both Go Down Together, The Mariner's Revenge Song, per lungo tempo l’epilogo consueto dei loro concerti, questa volta egregiamente sostituita dalla più datata I Was Meant For The Stage), dalla suite The Crane Wife alle recenti Rise To Me, All Arise, June Hymn, This Is Why We Fight, Down By The Water, Rox In The Box, che ripropone nel mezzo un’aria in stile Irish Heartbeat, e Calamity Song, ispirata a una novella di David Foster Wallace. Bravi a saper coniugare la scuola del folk elettrico britannico di fine ’60 (Fairport Convention, Pentangle) e degli anni ’80 (Pogues, Waterboys) con il roots americano, la lezione dei R.E.M. e dei grandi maestri (The Band, Byrds, Grateful Dead).

giovedì 17 maggio 2012

PERFUME GENIUS, SHINS, MOSS

La rubrica delle segnalazioni musicali di PiacenzaSera riparte dopo un breve periodo di silenzio dovuto, niente scuse, alla pigrizia proverbiale del recensore. E, per farsi perdonare, lo fa proponendovi addirittura tre nuove uscite. Perfume Genius è lo pseudonimo di Mike Hadreas, da Seattle. Cantautore dalla vena intimista e tormentata, in questa sua seconda opera mostra segni di maggiore maturità rispetto all’esordio, tra Antony e Wainwright. Si è parlato di lui a causa del video di “Hood”, nel quale ha recitato un noto attore gay porno, ma merita maggiore considerazione per la sua musica e le sue canzoni, tra le qualki “Normal Song” e “Dark Pants”, che narra delle violenze subite dalla nonna a opera di suo marito (“I will take the dark parts of your heart into my heart”). Certamente più accessibili e scanzonati gli Shins, band di Albuquerque (New Mexico, resa celebre da Neil Young) ma di stanza a Portland, Oregon, una delle nuove mecche della geografia rock USA, e capitanata da un nerd incallito come James Mercer (amante di Weezer e Big Star). Il loro terzo album contiene la solita serie di pezzi lounge-pop dalla sonorità sixties, ma alla fine l’ascolto lascia poche tracce. Citazione d’obbligo per la superba, e mielosa, “It’s Only Life”. Per ultimi gli olandesi Moss, da Amsterdam (quanta buona musica dall’Olanda…), giunti anch’essi al terzo album e autori di un pop-rock sofisticato, assai gradevole e senza sbavature. Poco più di quaranta minuti per undici brani scritti bene, davvero bene, tra i quali spiccano l’opener “I’m Human”, eterea e sfuggente, la notevole “Tiny Love”, che è stata accostata ai Beach House e ai Fleet Foxes, poi “The Hunter”, tra i primi Placebo e il krautrock anni ‘70, e infine “Almost a Year” e “What You Want”, che sfodera un riff di chitarra semplice e tuttavia irresistibile, un singolo che potrebbe anche sfondare.

domenica 18 marzo 2012

The revolution will bw not televised


Appuntamento di grande interesse, quello svoltasi lo scorso mercoledì al Caffè Letterario Baciccia. Nel corso della serata – che ha visto la speciale partecipazione di Luca Frazzi, redattore del mensile musicale “Rumore” e di Alioscia, vocalist storico dei Casino Royale - sono stati infatti presentati i due volumi “ORIGINAL RUDE BOY, DALLA GIAMAICA AGLI SPECIALS”, sottotitolo: l'autobiografia dello Ska Inglese, e “GIL SCOTT-HERON, The Bluesologist”, Storia e discografia del padre del Rap.
Il primo testo è l’autobiografia di Neville Staple – scritta in collaborazione con il giornalista inglese Tony McMahon e tradotta in italiano da Antonio "TONY FACE" Bacciocchi, con la prefazione di Alioscia - ovvero il frontman di colore della band di culto degli Specials - leader incontrastati dello ska inglese e tra gli animatori dell’opposizione al governo Thatcher - , poi del trio pop Fun Boy Three e adesso del gruppo ska The Neville Staple Band.
Il secondo invece è opera dello stesso Bacciocchi, ed è un intenso ritratto della figura di Gil Scott-Heron, poeta, musicista, cantante, autore, scrittore, cantore dell'America del Vietnam e dell’emancipazione del popolo nero (fu ribattezzato dalla critica statunitense “il Bob Dylan nero”).
Nella prefazione al testo, Tony Face elenca i motivi per cui ha iniziato ad amare questo grande artista: “Qualcuno ha scritto che le sue canzoni sono piene di rabbia triste. Gil sa essere Malcolm X e James Brown, Curtis Mayfiled e Walt Withman, tragico e ironico, divertente e implacabile. Sa accostare stupende ballate a pungenti e devastanti inni politici.”
Il libro ripercorre la travagliata vita dell’artista nero, segnata da abusi di ogni tipo: dall’infanzia vissuta in casa della nonna paterna nel Tennessee, che gli garantì una solida educazione e studi prestigiosi, alle prime prese di coscienza a livello politico e sociale, che coincisero con le morti di Kennedy, di Malcolm X e soprattutto di Martin Luther King (un periodo che lui ribattezzò “Winter in America”, che è anche il titolo del suo terzo album di studio del 1973); dal debutto come romanziere (“The Vulture”, 1970 e “The Nigger’s Factory”, 1971) ai primi esperimenti musicali con un album di spoken words, in cui legge le sue poesie sull’orgoglio Blackness e che contiene una primissima versione dell’immortale “The Revolution Will Be Not Televised”, certamente il suo brano più noto ma anche controverso (lui stesso rinnegherà alcune interpretazioni troppo politicizzate del brano, come quella del Wu Tang Clan); dalla collaborazione con Brian Jackson e con la Midnight Band alla partecipazione al concerto “No Nukes” contro il nucleare (1979), e ai tour di Stevie Wonder; dai problemi con la droga al recente, grandissimo ritorno dopo un lungo periodo buio con l’eccellente “I’m New Here”, sino alla sua improvvisa scomparsa avvenuta lo scorso 27 maggio al St.Luke Hospital di New York, reduce da un lungo tour europeo.
Ironico e aggressivo, brutale e diretto, Gil voleva “gettare qualche informazione in faccia alla gente che altrimenti non avrebbe mai potuto avere”.
Considerato da molti artisti rap e hip-hop alla stregua di un padre spirituale (lui stesso apprezzava artisti come Common, Mos Def e Kanye West, anche se i suoi preferiti rimasero i grandi classici della musica afroamericana: Miles Davis, Nina Simone, John Coltrane, Billie Holiday), non ebbe forse il successo che avrebbe meritato. Colpa, anche, di un carattere non facile: “Se non fossi stato l’eccentrico, l’odioso, l’arrogante, l’aggressivo, l’introspettivo, l’egoista quale sono stato, non sarei stato io. Non mi pento di aver fatto quello che ho fatto o del modo in cui l’ho fatto. So che se fossi stato zitto su un paio di cose probabilmente avrei fatto un po’ di soldi, ma non avrebbe dato più senso a quello che ho fatto. E non sarei stato capace di dire ai miei figli: ho alzato la testa per questo”.
La sua vita, suggerisce Bacciocchi nell’epilogo del breve saggio introduttivo sulla sua parabola umana ed artistica, può essere suggellata dal fatto che “Io credo nelle mie convinzioni, sono stato condannato per ciò in cui credo”.
Un febbraio fertile: ecco il grande ritorno dei Lambchop (“Mr. M”), sul quale forse torneremo più tardi, poi il pop sofisticato delle svedesi First And Kit e il prog dei Field Music, il nuovo EP della potessa dark austriaca Soap&Skin (“Narrow” - il brano “Wonder”, davvero meraviglioso – nome omen) e il torrenziale doppio album dei Crippled Black Phoenix, “(Mankind) The Crafty Ape”, le cui cavalcate acide ambiscono al titolo di “Dark Star” del nuovo millennio (siamo certi che piacerebbero anche al vecchio Zio Jerry).

Ma due uscite in particolare fanno discutere la stampa specializzata.

I giovanissimi Maccabees sono dei predestinati Dopo un paio di lavori caratterizzati da un pop fresco e di facile presa, la band di Brighton prova il salto di qualità con questo “Given To The World”, acclamatissimo in patria.
Gli arrangiamenti orchestrali e il massiccio utilizzo di organo e pianoforte ricordano gli Arcade Fire, ma qui la pietra di paragone è l’art-rock di Wild Beasts, Foals ed Elbow. Ma anche, andando in dietro: XTC, Echo & The Bunnymen.
Per dirla con le parole di Storiadellamusica.it, “abbiamo di fronte un'imponente prova di metabolizzazione degli ultimi dieci-venti anni di pop music inglese. Il risultato è quasi perfetto e si spinge oltre alla raccolta enciclopedica, facendo fluire forme e stili in un'ibridazione personale e spesso straniante”.
Il primo ascolto ci ha lasciati perplessi, forse a causa degli arrangiamenti troppo puliti.
Ci torneremo.

La band di Dylan Baldi arriva invece dell’America più profonda: Ohio.
Se i Maccabees hanno metabolizzato il pop made in GB, i Cloud Nothings è capace di sintetizzare – nessuno inventa più nulla - quanto di più buono prodotto recentemente oltreoceano.
Prodotti dal celebre Steve Albini (Rapeman, Big Black, Shellac), propongono in avvio con l’inquietante nichilismo di “No Future No Past” un revival della stagione del post-rock americano (Slint, Codeine) e con lo strumentale “Wasted Day” dell’epopea dell’etichetta Dischord di Chicago (Fugazi), per poi orientarsi verso un power-pop raffinato debitore, in particolare con tre-quattro pezzi molto belli, tra i primi Foo Fighters e l’hardcore Usa anni ’80-‘90 (Replacements e Husker Du): “Our Plans”, “Fall In” e “Cut You”.
Una delle sorprese più piacevoli dell’anno.

domenica 19 febbraio 2012

Il pagellone di Sanremo, 2012


ARISA – La notte
La sorpresa.
Il suo duetto con Mauro Ermanno Giovanardi (La Crus) è una delle poche cose da ricordare di questo festival, e in più c’è il violino commovente di Mauro Pagani.
La canzone, dolce e intimista, è forse la più bella.
E in mezzo a tatuaggi inguinali e mutande nascoste, la sua sobrietà un po’ trista ci sta pure simpatica.
In finale abbiamo tifato per lei, inutilmente: troppo forte lo strapotere del televoto in favore dei prodotti del marketing targato Mediaset.
VOTO: 7,5

CHIARA CIVELLO – Al posto del mondo
Ci dicono che è famosa in tutto il mondo come cantante jazz: lo ripetono più volte nella speranza che noi ci crediamo davvero.
By the way, il colpo alla Gualazzi quest’anno non riesce, perché Chiara è sembrata - a pubblico e critica – poco più di una schiappa.
Ovvio, sul voto influisce anche il duetto non indimenticabile con la Michielin, fresca vincitrice di XFactor 5.
VOTO: 5

DOLCENERA – Ci vediamo a casa
Grintosa con vestitino nero, borchie, spilloni e schiena scoperta: peccato per quei booties che le regalano un bell'effetto cotechino.
L’arrangiamento del pezzo è troppo radiofonico, quasi dance, e i continui riferimenti a De Andrè c’azzeccano poco.
Con Gazzè il pezzo ne guadagna.
VOTO: 5

EUGENIO FINARDI – E tu lo chiami Dio
Il vecchio cantautore milanese, look total black, codino e un’aura da spiritualità zen, sfodera sorrisi immotivati e – ormai raggiunta la pace interiore - se ne fotte di tutto il caos che gli sta intorno.
L’interpretazione è di classe, così come il duetto con un'elegante Noa.
Il testo non è tra i suoi più ispirati, ma pare Proust al confronto con l’avvincente dibattito tra Pupo, Celentano e Morandi sulla sinistra e sulla vita di Gesù.
VOTO: 6,5

EMMA – Non è l’inferno
Non sarà l’inferno, ma ci assomiglia.
Emma canta in modo sguaiato ed eccessivo un pezzo straordinariamente brutto anche per la media non eccezionale di Kekko dei Modà (ma non poteva saltare un giro, quest’anno?). Il testo, poi, è talmente paraculo che si sarebbe vergognato persino Povia.
L’accoppiata salentina con la Amoroso – su Twitter qualcuno le ha definite “due rane” – rappresenta l’apoteosi del DeFilippi-pensiero.
Vince a mani basse: è lo specchio dell’inesorabile declino del paese.
VOTO: 4

FRANCESO RENGA – La tua bellezza
Mah.
L’ex-ledaer dei Timoria ci sembra decisamente involuto, ed è fastidioso questo suo eccesso di autostima. Alla fine fa parlare di sé solo per le polemica (sacrosanta) sul troppo spazio concesso a quello sciroccato del molleggiato: facciamo solo da contorno, si è lamentato. Come dargli torto?
L’accompagnamento del coro di Scala & Kolacny Brothers una pessima idea.
VOTO: 5,5

IRENE FORNACIARI – Il grande mistero
Il grande mistero è lei.
Tra le più assidue frequentatrici del festival, ancora una volta si rivela una meteora: inconsistente e impalpabile, non lascia traccia di sè.
Si presenta vestita come il tubo di una stufa in un sapiente nero che "sfila", e nemmeno al secondo cambio acquista dignità di donna, resta stufa.
Alla lunga stufa anche noi.
VOTO: 4,5

LOREDANA BERTE’ e GIGI D’ALESSIO
Lei esibisce evidenti segni di errori chirurgici sul viso, corredati dalle immancabili labbra a canotto. Non contenta, indossa un vestito che svela ciò che dovrebbe nascondere.
Lui ha l’aria del pappone, con un giubbino da motociclista e un sorriso assai sforzato.
Accanto a loro la povera Macy Gray – in pailettes e paltò – non si regge in piedi: probabilmente si è ubriacata di brutto quando ha saputo che doveva duettare con D'Alessio (pare che abbia provato la strada del certificato medico, senza esito).
Imbarazzanti.
VOTO: 3

MARLENE KUNTZ – Canzone per un figlio
Sul web impazzano le accuse di tradimento da parte dei fan della prima ora. Inevitabili, per loro questo palco è la morte della musica.
Godano – così conciato è il sosia di Mirko Vucinic, con tristi multistrati e improbabili multi grigi - parte troppo piano, bisbigliando frasi apparentemente sconnesse (noi abbiamo capito solo: “attonita”). Il ritornello invece è soffocato dall’enfasi ingiustificata della sezione archi e, insomma, il pezzo ne esce piuttosto male.
Tuttavia, il duetto con l’icona Patti Smith – “Impressioni di settembre” della P.F.M. e poi la celebre “Because the night” – è uno dei pochi momenti emozionanti di uno dei festival più brutti degli ultimi anni.
Lei, poi, sembra una prof di italiano vicina alla pensione: lezione di stile a Dalla e alla Bertè.
VOTO: 6,5

MATIA BAZAR – Sei Tu
Che tenerezza, sembrano dei Muppets, dei vecchi zii dalla faccia di gomma che accompagnano la vocalist vestita come Biancaneve.
Il pezzo, no, non l’abbiamo ascoltato: abbiamo abbassato l’audio.
Non potete chiedere troppo.
VOTO: 4 (sulla fiducia)

NINA ZILLI – Per sempre
La nostra punta di diamante puntava allo scudetto, ma si deve accontentare della Coppa Uefa.
La mandano a rappresentare l’Italia all’Eurofestival a Baku, Azerbaijan.
Povera.
Seppur annoiata dai paragoni con Mina e con Winehouse, Nina si diverte con Giuliano Palma e con Skye dei Morcheeba, bellissima tutta in bianco.
Ha classe e talento, forse il pezzo non era all’altezza.
VOTO: 6

NOEMI – Sono solo parole
Nonostante l’evidente pasticcio cromatico - capelli rosso fuoco, giacca verde cangiante e trucco bianco pallido – Noemi sfodera grinta e una bella voce, e nel complesso non fa una bruttissima figura (anche se, cazzarola, presentarla con “You Really Got Me” dei Kinks è davvero troppo).
Il pezzo è di Fabrizio Moro: scontato ma efficace.
Brava con Sarah Jane Morris, in versione Fiona di Shrek, nella cover da Tracy Chapaman.
VOTO: 5,5

PIERDAVIDE CARONE - Nani
Ha la gravissima colpa di aver scritto “Per tutte le volte che”, brano trash con cui Valerio Scanu ha vinto tempo fa la sezione giovani. Per questo motivo in un paese normale sconterebbe una pena tra i dieci e i dodici anni, mentre lui è a piede libero.
A poco servono l’accompagnamento di un Dalla in versione Biscardi e il duetto di un Grignani sopra le righe.
La sensazione è che l’amico Pierangelo Carbone – un passato illustre negli Hurlo – non lo avrebbe fatto rimpiangere.
VOTO: 4,5

SAMUELE BERSANI – Un pallone
A noi lui piace parecchio, anche se questo pezzo non è tra i suoi migliori.
Il duetto con Paolo Rossi, paragonato sul web al fratello brutto e senzatetto del Pinguino di Batman, non è memorabile; più divertente quello con Bregovic – presentato da Morandi come Goran Zuzminac (!, chi minchia se lo ricordava!), uno dei passaggi migliori del festival insieme all’inutile Ivanka che cita Ennio “Morriccione”.
Scontato il premio della critica (tra i giovani andato alla Erica Mou, non male infatti).
VOTO: 7

(grazie a Nilla, Walter, Ivan e Michele)