giovedì 24 settembre 2009
Diciamo la verità, se non ci fosse Mr. Murdock, la tv ormai potremmo anche tenerla spenta.
L'oasi di Raitre è infatti in trepida attesa dell'Ennesima Grande Epurazione, in nome della libertà di stampa tanto sbandierata dai prezzolati dell'erotomane capo, e il resto del palinsesto via etere è - come dice il cugino Franz - merda pura.
Della quale la Marcuzzi, quella poveretta, che succhia i wurstel in prima serata su Italia Uno è certo uno dei punti piu' bassi mai raggiunti. L'unica soddisfazione è che da lì si può solo risalire.
Solo sul satellite, pur anch'esso dominato in gran parte da robaccia, è ancora possibile trovare qualcosa di buono.
L'altra notte, su Cult, mi sono imbattuto - per esempio - in uno strepitoso (e pluri-premiato) docu-film su uno scriteriato e folle equilibrista, tal Philippe Petit, francese, che nel 1974 camminò o meglio danzò, sospeso in aria, su una corda appositamente tesa tra le due torri gemelle.
Il video - intitolato "Man On The Wire", è del 2008 - mostra immagini bellissime di altre sue imprese storiche, tra cui la passeggiata di Notre Dame a Parigi e quella sul porto di Sidney, con la grandiosa Opera House di Utzon sullo sfondo.
Accompagnato, su Cult, da un'intervista a Paul Auster, visibilmente emozionato.
Imperdibili anche le dichiarazioni di Nixon in un vecchio schermo in bianco e nero, patetico nel suo dire: "Io non sono un imbroglione", di lì a qualche giorno fu costretto a dimettersi.
Cercate il Dvd, è imperdibile.
venerdì 12 settembre 2008
domenica 1 giugno 2008
NY, 18 - LE ANITRE DI CENTRAL PARK

Il taxi che presi era un vecchio scassone e aveva un odore come se qualcuno ci avesse appena fatto i gattini. Se vado in qualche posto la sera tardi, mi capitano sempre taxi schifi come quello. A peggiorare le cose, fuori era così tranquillo e deserto, con tutto che era sabato sera. Non vidi quasi nessuno, per la strada. Di tanto in tanto vedevate un uomo e una ragazza che attraversavano tenendosi abbracciati per la vita eccetera eccetera, o un gruppetto di giovinastri con le loro ragazze, che ridevano tutti sgangheratamente di qulache cosa che non era affatto comica, potete giurarci. New York è terribile quando qualcuno ride per la strada la sera tardi. Lo senti a chilometri di distanza. Ti fa sentire solo e abbacchiato. Non riuscivo a togliermi di dosso la voglia di andare a casa a far quattro chiacchiere con la vecchia Phoebe. Ma alla fine, dopo un pò che marciavamo, io e l'autista attaccammo una specie di conversazione. Si chiamava Horowitz. Era molto meglio dell'altro autista che mi era capitato prima. Ad ogni modo, pensai che forse lui sapeva qualcosa delle anitre.
- Ehi Horowitz, - dissi. - Ci passa mai vicino allo stagno di Central Park? Giù vicino a South Central Park?
- Al cosa?
- Allo stagno. Quel laghetto, cos'è, che c'è laggiù. Dove ci sono le anitre, sa?
- Sì, e allora?
- Be', sa le anitre che ci nuotano dentro? In primavera eccetera eccetera. Che per caso sa dove vanno d'inverno?
- Dove vanno chi?
- Le anitre. Lei lo sa, per caso? Voglio dire, vanno a prenderle con un camion o vattelapesca e le portano via, oppure volano via da sole, verso sud o vattelapesca?
Il vecchio Horowitz si girò tutto di un pezzo sul sedile e mi guardò. Aveva l'aria di essere un tipo nervosetto. Non era affato malvagio, però. - E come diavolo faccio a sapere una stupidaggine così?
- Be', non si arrabbi per questo, - dissi. Era arrabbiato o che so io.
- E chi si arrabbia. Nessuno si arrabbia.
Io smisi subito di chiacchierare con lui, se doveva essere così maledettamente suscettibile. Ma fu lui stesso a riattaccare. Si girò tutto un'altra volta e disse: - I pesci non vanno in nessun luogo. Restano dove sono, i pesci. Proprio in quel dannato lago.
- Ma i pesci... è un'altra cosa. I pesci sono un'altra cosa. Io sto parlando delle anitre, - dissi.
- Perchè è un'altra cosa? E' proprio tale e quale, - disse Horowitz. Qualunque cosa dicesse, aveva l'aria di essere arrabbiato. - Per i pesci è molto peggio che per le anitre, Cristo, l'inverno e tutto quanto. Faccia funzionare il cervello, Cristo!
Io non dissi niente per un minuto almeno. Poi dissi: - Va bene. E cosa fanno, i pesci e compagnia bella, quando tutto il lago diventa un solo blocco di ghiaccio, con la gente che ci pattina sopra e via discorrendo?
Il vecchio Horowitz si girò un'altra volta. - Che diavolo vuol dire, cosa fanno? - mi urlò in faccia. - Restano là dove sono, Cristo.
- Ma non possono non accorgersi del ghiaccio. Non possono non accorgersene.
- E chi è che non se ne accorge? Nessuno può non accorgesene! - disse Horowitz. Era così maledettamente infuriato e tutto quanto che avevo paura che mandasse a sbattere il taxi contro un lampione o che so io. - Vivono dentro quel maledetto ghiaccio, vivono. E' la loro natura, Cristo. Si congelano e stanno in quella posizione per tutto l'inverno.
- Ah sì? E che cosa mangiano, allora? Voglio dire, se sono proprio congelati non possono nuotare per cercarsi da mangiare eccetera eccetera.
- I loro corpi, Cristo; ma che ti piglia? Sono i loro corpi che prendono il nutrimento eccetera eccetera da quelle maledette alghe e porcherie che ci sono nel ghiaccio. Stanno là coi pori sempre aperti. E'la loro natura, Cristo. Capisci cosa voglio dire? - E si voltò un'altra volta tutto d'un pezzo sul sedile per guardarmi.
- Oh, - dissi io. Lasciai perdere. Avevo paura che fracassasse quel maledetto taxi o non so cosa. D'altronde era un tipo talmente suscettibile che non c'era nessun gusto a discutere con lui.
(...)
ovviamente da J.D.Salinger, Il giovane Holden, 1951
immagine: Davide Corona, Il giovane Holden, 2007, olio su tela, 100*100 cm
sabato 31 maggio 2008
NY, 17 - MANHATTAN

I newyorchesi li riconosci subito: sono quelli che camminano con passo veloce, in modo rettilineo, e con lo sguardo dritto davanti a loro.
Tutti gli altri, invece, si spostano con movimento ondivago, quasi barcollando, e guardano quasi sempre all'insù, alla ricerca del maggior numero possibile di dettagli di quei colossi in ferro e vetro che sfilano sopra il loro naso.
E questo è assai pericoloso.
Non tanto per il rischio di calpestare qualche escremento di cane - come forse tutte le grandi metropoli, New York ha da tempo espulso qualsiasi tipo di animale: sarà un effetto collaterale della "Tolleranza Zero"? - ma al contrario per il fatto che ogni circa cento-centocinquanta metri c'è un semaforo, e ci vuole davvero molta attenzione, e concentrazione, per fermarsi in tempo a ogni segnale rosso.
La città è stata infatti costruita su una fittissima griglia ortogonale, assolutamente perfetta, che se da un alto facilita l'orientamento - dopo la quinta avenue puoi star sicuro che c'è la sesta avenue, e dopo la sesta c'è la settima, e dopo la settima c'è l'ottava, e così via - dall'altro diventa la causa di una lunga successione di barriere consecutive. Un'interminabile corsa a ostacoli.
Malgrado sulle strade viaggino solo un immenso fiume di taxi gialli, oltre a qualche bus turistico e alle limousine di qualche autorità o dei padroni di Wall Street (i newyorchesi, normalmente, non posseggono un'auto, e non si stenta a comprenderne il motivo), il traffico è alquanto caotico.
Proprio a fianco di ogni semaforo, campeggia immancabile un baracchino di wurstel - gestito normalmente da un greco o da un turco - o di pane di tipo pretzel (un ciambellone rigonfio di mollica e ricoperto da semi di sesamo) - gestito, per esempio, da un ispanico - o di frutta esotica: mango, papaya, avocado - gestito da un cinese. Ogni etnia gestisce il racket di un ramo preciso, ci spiegano. Verso mezzogiorno, un esercito di colletti bianchi erutta dai colossali termitai di uffici, quasi li vomitasse, e si dirige all'assalto di queste bancarelle improvvisate. Uno spettacolo per antropologi, Manhattan in pausa pranzo, popolata da queste moltitudini di impiegati e funzionari che abusano - rigorosamente in piedi - di hot dog, donuts e hamburger.
La selva di grattacieli si infittisce mano a mano che Cj procede verso sud.
A lui incute un certo timore.
Le strade sono tutte una uguale all'altra.
C'è una luce rarefatta, innaturale.
Lì giù, infatti, si resta quasi sempre all'ombra. Difficile infatti che fin lì possa arrivare un raggio di sole, forse solo a ferragosto, a mezzogiorno in punto, quando l'asse del sole è perfettamente verticale. L'unico modo per vederne la luce, e respirarla a pieni polmoni, è dirigersi verso il Central Park, il grande parco realizzato alla fine del secolo scorso proprio al centro di Manhattan. Vederlo adesso, sembra persino un errore di costruzione, una pecca, oppure un'enorme voragine scavata - da chissà quale evento distruttivo - nel mezzo della assurda giungla degli skyscrapers che ha aggredito senza soluzione di continuità il resto dell'isola. La passeggiata intorno al grande lago centrale rappresenta un vero e proprio deja-vu cinematografico: aspetti solo di incrociare Dustin Hoffmann nella sua tuta da maratoneta anni '70.
Per avere una (meravigliosa) visione d'insieme dello skyline metropolitano, è necessario salire in cima all'Empire State Building. Ed è ciò che facciamo, non prima di avere fatto incetta - Steve su tutti, ovviamente - di inutili gadget dei Jets e degli Yankees in uno dei tantissimi negozi di souvenir di tema sportivo.
Per Wikipedia, esso è probabilmente il più famoso grattacielo della città di New York e forse del mondo. Con i suoi 381 metri di altezza (443,2 m se si considera anche l'antenna televisiva sulla sua cima), esso è stato il grattacielo più alto del mondo fra la sua costruzione (1931) ed il 1973, quando furono inaugurate le Torri Gemelle del World Trade Center.
È stato proposto come una delle Sette meraviglie del mondo moderno.
Dopo una lunga coda per l'accesso all'ascensore, veniamo perquisiti con rigore all'ennesimo posto di blocco.
Qui a New York la paura la respiri in ogni angolo.
Il viaggio nel ventre molle del mostro dura solamente lo spazio di un istante, ed eccoci sulla vetta del mondo.
(Sarebbe stato bello avere una foto ricordo di gruppo, ma Cj, in preda a un raptus, sceglie di fare la foto abbracciato a un incredulo estraneo...)
Immagine: www.popitlikeitsart.co.uk/.../new%20york.JPG
sabato 5 aprile 2008
NY 16, (QUASI) BRONX

E subito dopo eccomi su un treno IRT diretto a East Tremont Avenue, nel Bronx.
Sui treni in direzione dei distretti esterni di New York le dimensioni dei passeggeri superano di gran lunga quelle della popolazione bianca che gironzola per Downtown. I miei compagni obesi erano stoici, multiculturali, vestiti con piumini gonfi in grado di salvare un astronauta dall'asfissia spaziale. Appoggiati alle porte per mantenere l'equilibrio, addentavano ali di pollo e code di bue fritte, sputando ossa e cartilagine nei sacchetti di plastica. Chi erano questi Atlanti di Amsterdam Avenue? Questi Caligola di Cypress Hill? Se non fossi stato così schizzinoso da non volermi ungere le mani, mi sarei unito a loro per consumare al bagliore deossigenato del treno numero cinque un piccolo mammifero avvolto nella pellicola trasparente."
Gary Shteyngart, "Absurdistan", 2006 (Ed. italiana da Guanda, 2007)
venerdì 21 marzo 2008
NY 15, GRANT HOTEL
lunedì 4 febbraio 2008
venerdì 1 febbraio 2008
NY 13, TIMES SQUARE
martedì 22 gennaio 2008
NY 12, CHELSEA HOTEL NO. 2
Ah but you got away, didn't you babe, you just turned your back on the crowd, you got away, I never once heard you say, I need you, I don't need you, I need you, I don't need you and all of that jiving around.
I remember you well in the Chelsea Hotel you were famous, your heart was a legend. You told me again you preferred handsome men but for me you would make an exception. And clenching your fist for the ones like us who are oppressed by the figures of beauty, you fixed yourself, you said, "Well never mind, we are ugly but we have the music."
Ah but you got away, didn't you babe, you just turned your back on the crowd, you got away, I never once heard you say, I need you, I don't need you, I need you, I don't need you and all of that jiving around.
I don't mean to suggest that I loved you the best, I can't keep track of each fallen robin. I remember you well in the Chelsea Hotel, that's all, I don't even think of you that often.
© by Leonard Cohen.
lunedì 21 gennaio 2008
NY 11, CHELSEA HOTEL

E quindi il Chelsea Hotel, ovvero una delle cose che a New York non siamo riusciti a vedere.
Se i muri del Chelsea Hotel potessero parlare, racconterebbero di vite bohémiennes, pagine letterarie imbrattate di whiskey, angeli della controcultura, demoni del rock.
La letteratura, qui, ha messo radici soprattutto negli Anni ’50 esibendo i suoi belli e dannati: William Burroughs, impegnato a scrivere The Naked Lunch; gli altri beatniks Gregory Corso e Lawrence Ferlinghetti; Nelson Algren e la sua streetwise novel A Walk On The Wild Side; Arthur Clarke che solo qui riusciva a concentrarsi sulla sceneggiatura del film 2001: A Space Odyssey; Arthur Miller, che al Chelsea trovò il domicilio ideale per il semplice motivo che non doveva indossare lo smoking per ritirare la posta alla reception, come succedeva nel più “fashionable” Plaza Hotel.
E ancora: Brendan Behan, Edgar Lee Masters, Thomas Wolfe, Vladimir Nabokov, Eughenij Evtucenko…
I dipinti esposti sulle scale, lungo i corridoi e nella reception, si portano appesi i ricordi di artisti che barattarono una tela per una notte da non trascorrere sotto i ponti. Tra gli altri, gli action painters Jackson Pollock e Willem de Kooning, il grande pop Jasper Johns hanno soggiornato qui. E sempre qui, negli Anni ’60, zoomando da una camera all’altra, Andy Warhol e i dropouts della Factory hanno girato The Chelsea Girls.
Con l’avvento dei favolosi sixties, direbbe Gianni Minà, diventò poi un incredibile crocevia di rockstar.
Qui dimorò per molti anni Bob Dylan, il vate del Greenwich Village, nel 1966, in compagnia della prima moglie Sara: in una camera al terzo piano (suite 2011) compose la splendida ballata Sad–Eyed Lady Of The Lowlands.
E ci sono passati Jimi Hendrix, Joni Mitchell (che scrisse Chelsea Morning), i Grateful Dead del vecchio zio Jerry (saluta lo zio, Big!), i Jefferson Airplane, Patti Smith e Janis Joplin che a questo proposito proclamò: “Mi piace il Chelsea. Ci abitano parecchi miei amici e succede sempre qualcosa di divertente. Somiglia a una comune californiana. Solo che costa un po' di più."
In tempi più recenti, Jon Bon Jovi ha composto Midnight at Chelsea nella suite numero 515.
Il Chelsea Hotel fu purtroppo anche teatro di celebri tragedie: nel bagno della camera numero 100 - che adesso non esiste più – fu trovata assassinata il 11 ottobre 1978 Nancy Spungen, la ragazza di Sid Vicious, bassista dei Sex Pistols.
Molti anni prima (1953), Dylan Thomas, il poeta gallese che ispirerà a Robert Zimmerman la scelta del suo nome d’arte, fu trovato in coma nella stanza n. 205 dopo essersi scolato 18 whiskhy in una sola notte.
venerdì 18 gennaio 2008
NY 10, IL CLAMOROSO SCOOP DI C.J.
Con i compagni niuiorchesi si era pensato di prepararsi all'evento con una cena al Roadhouse a base di steaks, nachos e chips.
Segue trasferimento alla multisala, altro "nonluogo" interessante, il tutto in omaggio alla filosofia omologante e spersonalizzante made in stelle e strisce.
Chi volesse aderire...
Come succosa anteprima, c.j. posta questo scatto colto di sfuggita sulla Fifth Avenue nel novembre 2006: è l'auto di The Legend!
venerdì 28 dicembre 2007
mercoledì 26 dicembre 2007
NY 08, FILIPPIDE O FIDIPPIDE
Fidippide (o Filippide) morto nel 490 a.C. è stato un leggendario corridore greco.
La leggenda narra che Milziade, a capo degli eserciti di Atene, dopo la vittoria sui persiani nella battaglia di Maratona (490 a.C.), incaricò Fidippide di recare la buona notizia ad Atene; la distanza tra le città di Maratona ed Atene è di circa 40 km e Fidippide percorse l'intero tragitto di corsa senza mai fermarsi; dopo aver gridato l'annuncio della vittoria di Atene sui Persiani, l'araldo crollò al suolo morto, stremato dallo sforzo.
A chiosa di tale precisazione, Steve commenta : "che Big mi baci il culo..."
Una disputa tra due accademici di quel Dio.
sabato 22 dicembre 2007
NY 06 - STEVE, AGAIN (GIORNO 1)

Il tour è una mezza vaccata, anche se ci da comunque una visione d’insieme della città. Al Financial District scendiamo e andiamo a vedere il vuoto lasciato dalle Torri. Sinceramente non è molto emozionante, in fondo oggi è solo un cantiere. C’è tanta gente. Lungo il perimetro le foto della tragedia e testimonianze varie ti riportano emotivamente all’11-9, ma non se nel frattempo ti chiama tua mamma per dirti che Libertà ha pubblicato le tue dichiarazioni pre-maratona, con tanto di cognome nel titolo. Scoppio in una risata. Mi guardo attorno, vedo le facce degli altri.
Eccolo, Johnny! Bella lì! Passavi di qua?
L’Hard Rock, dove la sera prima Vinnie ha sfoggiato il suo inglese con un “rare” graffiante, ci sembra il posto ideale per una cenetta a base di carne e cakes XXL.
giovedì 20 dicembre 2007
NY 05, LA VERSIONE DI STEVE (GIORNO 0)

Era passato un anno esatto ed eravamo lì, io, Paulette e l’immancabile Vinnie, atterrati a Newark, pronti per “l’Impresa”, stavolta con la "i" maiuscola.
Mi ricordo l’impatto con gli Stati Uniti, si apre la porta scorrevole e mi affaccio sul marciapiede dell’aereoporto.
Saliamo su un autobus che ci porterà alla Gran Central Station e mi incollo al finestrino. Sicuramente un po’ ci si autosuggestiona, perché in fondo quello che si vede arrivando in un aeroporto di una metropoli, sono delle gran tangenziali e dei tristi quartieri periferici. Ma per chi come me è cresciuto inondato da film e telefilm americani, è tutto uno spettacolo.
Ci assopiamo un po’ e ci lasciamo trasportare verso Manhattan, fino a quando, prima del sottopasso dell’Hudson ci appare a sinistra lui.. lo skyline della Grande Mela! Ti toglie il fiato!
Ecco, uno si prepara per un anno e poi la maratona passa subito in secondo piano.
- Prima di cena non facciamo volare la carta?”
domenica 2 dicembre 2007
NY 04, LA CITTA' DEGLI ANGELI
Bonnie era una donna smilza e arcigna, con due trecce da ragazzina che ricadevano come guinzagli sugli innocenti cagnolini disegnati sulla sua maglietta. Aveva uno spiccato accento di Greensboro ed era atterrata al Kennedy convinta che i neewyorkesi, se solo lei gliene avesse dato una mezza possibilità, le avrebbero rubato anche le otturazioni che si ritrovava in bocca.
"Il tassista ci fa: Dall'accento si direbbe che venite da fuori", e io ho capito all'istante che pensava di fregarci. (...) Io l'ho capito subito cosa aveva in mente. So come gira il mondo, non sono mica stupida. E così mi sono segnata il nome e il numero della licenza e gli ho detto che se solo provava a fare qualche scherzetto lo denunciavo alla polizia. Non son mica venuta fin qui per farmi spennare..."
Mi mostrò la ricevuta del taxi, e io la rassicurai: il prezzo era giusto. I soliti trenta dollari di una corsa dall'aeroporto Kennedy a un qualsiasi punto di Manhattan.
Bonnie ripose la ricevuta nel portafoglio. "Be', spero prorpio che quello non si aspettasse una mancia, perchè da me non ha visto un centesimo."
"Non gli hai dato la mancia?"
"Ma figurati!" esclamò Bonnie. "Non so tu, ma io i miei soldi me li sudo. Sono i miei e di mance non ne do, a meno che il servizio non sia come dico io."
"D'accordo" dissi, "ma che tipo di servizio ti aspettavi esattamente, se prima d'ora non avevi mai preso un taxi?"
"Io mi aspetto di essere trattata come chiunque altro, ecco come. Di essere trattata da cittadina americana."
Con quella frase aveva centrato il problema. I turisti americani sono destinati a essere accolti meglio a Teheran che non a New York, una città fondata sul principio del "Noi vs. Loro". Come me, la maggior parte delle persone che conoscevo si era trasferita a New York proprio per sfuggire agli americani tipo Bonnie. E la loro paura aveva sempre giocato a nostro favore, almeno finchè un nuovo sindaco non si era messo a promuovere la città come un parco giochi per famiglie. La sua campagna era stata un successo, e le Bonnie avevano cominciato ad affluire in città a frotte...
da DAVID SEDARIS, Me parlare bello un giorno, Mondadori, 2004 (Me Talk Pretty One Day, 2000)
giovedì 29 novembre 2007
NY 03, NEWARK
Messo piede a terra, C.J. scrutava all'orizzonte lo skyline di Manhattan che si intravvedeva appena sotto l'ala sinistra dell'aereo.
Sbrigò rapidamente tutte le formalità dello sbarco, compreso l'ormai classico questionario - di inarrivabile comicità - a cura del Dipartimento U.S.A. per l'immigrazione:"Lei è un terrorista?""Lei fa parte di organizzazioni sovversive di matrice marxista?""Lei fa uso abituale di sostanze stupefacenti? E' alcolizzato?""Lei ha mai ucciso un uomo?""Lei ha mai stuprato un bambino", e via dicendo.
Mentre il cab attraversava le lande desolate attorno a Hoboken (Do you remember Night falls on Hoboken?), C.J. si limitava a osservare in lontananza, con gli occhi increduli e curiosi di un bambino, la metropoli - assurda e straordinaria - che letteralmente gli si spalancava davanti. Percorsero per lo più strade a percorrenza veloce, a tre o quattro corsie, con auto che sfrecciavano a destra e sinistra ad un ritmo frenetico. Ogni tanto, il taxi svoltava su uno svincolo sopraelevato, per poi infilarsi sotto i piloni in cemento armato delle freeways, tra roulottes e distributori di carburante. Ai bordi della strada, oltre il guard-rail arrugginito e contorto, solo sterpaglie e alberi spogli.
Attraversarono poi i sobborghi di New Yersey City. Le luci al neon dei negozi e dei Mc Donald's punteggiavano un agglomerato caotico di vecchie case in stile vittoriano ed enormi caseggiati in mattoni brunastri. Sulla vetrina di una lavanderia a gettone campeggiava la scritta: "Al lunedi', martedi' e mercoledi' il sapone è gratis."
Quando giunsero infine all'Holland Tunnel, uno dei passaggi sotterranei che attraversano l'Hudson River, trovarono una coda terrificante per il pagamento del pedaggio. Il tassista si destreggiò tra le varie corsie sino ad infilarsi a tutta velocità in una corsia riservata.
I grattacieli di Tribeca incombevano ormai sulla Baia, suscitando timore e rispetto.
Tra pochi minuti C.J. sarebbe arrivato a destinazione.
domenica 18 novembre 2007
NY, 02 - THE TERMINAL
giovedì 8 novembre 2007
NY, 01 - LASCIARE NEW YORK NON E' MAI FACILE
- Siamo ad Harlem?, chiese C.J. provando a rompere il ghiaccio.
- Non ancora, fece lui, - ci saremo tra tre o quattro isolati.
- Mi piacerebbe vedere Harlem.
- Very famous, aggiunse.
- Dove?
- Dall’altra parte della strada.
C.J. domandò da dove veniva. Veniva da un piccolo paese di montagna, nel Peloponneso. Una montagna arida e assolata, dove non cresceva nemmeno la vite. C'erano solo fichi d'India. Suo padre era un pastore, ed anche suo nonno lo era stato. Lui, quando aveva raggiunto la maggiore età, era scappato in America. Non aveva nessuna intenzione di passare la sua vita a correre dietro a delle pecore.
- A New York stai bene?, fece a un certo punto il nostro.
- Yeaaaahhh.
- Il tuo lavoro ti piace?
- E’ stressante. Sto su questa macchina da lunedì al sabato, dalle 7.00 della mattina alle 9.00 della sera… sempre incolonnato… ma non mi lamento. Nella vita ho fatto anche di peggio.
- E la domenica?
- La domenica? La domenica dormo.
- Vivi solo?
- Sì, naturalmente.
- Cazzo, pensò C.J., costui passa la vita sul suo sedile immerso nel traffico di New York. Roba da farsi prendere la nostalgia delle pecore…
- Quand’è l’ultima volta che sei stato in Grecia?
- Saranno ormai quindici anni. Fu per il funerale di mia madre, povera donna. Dio la benedica. In ogni caso, rimasi solo poche ore.
Passarono a fianco dello stadio per il baseball, nella zona di Staten Island. Il greco lo indicò a C.J. con un certo stupore, come se fosse stata la prima volta che lo vedeva.
- Vai mai a vedere gli Yankees?, domandò C.J.
- No, io sono per i Mets. Una volta andai a vederli, poco tempo dopo essere arrivato qui. Adesso li vedo in tv, quando capita. Il biglietto costa troppo.
- Davvero non te lo puoi permettere?
- Qui la vita non è facile. E’ vero, ci sono opportunità di lavoro per tutti, ma con che salari? Mi ammazzo di lavoro sei giorni la settimana per riuscire a pagare l’affitto di un misero bilocale a Brooklyn. Se alla fine del mese avanza qualcosa, e non sono rimasto con il frigorifero vuoto, mi prendo una scatola di sigari cubani.
- Così questa è la vita, a New York.
- Sì, anche. Ti dico una cosa: stringo i denti ancora cinque-sei anni e poi vado in pensione, e allora mando a fare in culo tutti questi figli di puttana, disse, indicando una ad una le auto che ci affiancavano a più riprese, secondo un ritmo costante, come fossero legate alla loro da un enorme elastico invisibile.
- E poi cosa farai?
- Ancora non lo so.
- Tornerai al tuo paese?
- Non ci ho ancora pensato. Ma oramai là non ho più nessuno, i miei parenti sono morti tutti. E’ rimasto solo qualche cugino di secondo grado.
- Mi dispiace, disse C.J., ricordandosi di non avere in precedenza nemmeno commentato del funerale della madre (come se fosse del tutto naturale fare le condoglianze ad uno sconosciuto quindici anni dopo la morte di sua madre.)
- Non che qui abbia poi così tanti amici. Due o tre colleghi con i quali ogni tanto si beve una birra al pub la sera, dopo aver smontato dal lavoro. Il fatto è che io sono un newyorkese, adesso.
L’auto sbucò da un lungo tunnel male illuminato, e, improvvisamente, apparve alla loro destra lo skyline di Manhattan al tramonto.
- La vedi là, Manhattan?, fece lui.
- Cristo, certo che la vedo.
- Capisci, adesso, quello che sto cercando di dirti?