Visualizzazione post con etichetta new york stories. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta new york stories. Mostra tutti i post

giovedì 24 settembre 2009



Diciamo la verità, se non ci fosse Mr. Murdock, la tv ormai potremmo anche tenerla spenta.
L'oasi di Raitre è infatti in trepida attesa dell'Ennesima Grande Epurazione, in nome della libertà di stampa tanto sbandierata dai prezzolati dell'erotomane capo, e il resto del palinsesto via etere è - come dice il cugino Franz - merda pura.
Della quale la Marcuzzi, quella poveretta, che succhia i wurstel in prima serata su Italia Uno è certo uno dei punti piu' bassi mai raggiunti. L'unica soddisfazione è che da lì si può solo risalire.
Solo sul satellite, pur anch'esso dominato in gran parte da robaccia, è ancora possibile trovare qualcosa di buono.
L'altra notte, su Cult, mi sono imbattuto - per esempio - in uno strepitoso (e pluri-premiato) docu-film su uno scriteriato e folle equilibrista, tal Philippe Petit, francese, che nel 1974 camminò o meglio danzò, sospeso in aria, su una corda appositamente tesa tra le due torri gemelle.
Il video - intitolato "Man On The Wire", è del 2008 - mostra immagini bellissime di altre sue imprese storiche, tra cui la passeggiata di Notre Dame a Parigi e quella sul porto di Sidney, con la grandiosa Opera House di Utzon sullo sfondo.
Accompagnato, su Cult, da un'intervista a Paul Auster, visibilmente emozionato.
Imperdibili anche le dichiarazioni di Nixon in un vecchio schermo in bianco e nero, patetico nel suo dire: "Io non sono un imbroglione", di lì a qualche giorno fu costretto a dimettersi.
Cercate il Dvd, è imperdibile.

venerdì 12 settembre 2008

domenica 1 giugno 2008

NY, 18 - LE ANITRE DI CENTRAL PARK


Il taxi che presi era un vecchio scassone e aveva un odore come se qualcuno ci avesse appena fatto i gattini. Se vado in qualche posto la sera tardi, mi capitano sempre taxi schifi come quello. A peggiorare le cose, fuori era così tranquillo e deserto, con tutto che era sabato sera. Non vidi quasi nessuno, per la strada. Di tanto in tanto vedevate un uomo e una ragazza che attraversavano tenendosi abbracciati per la vita eccetera eccetera, o un gruppetto di giovinastri con le loro ragazze, che ridevano tutti sgangheratamente di qulache cosa che non era affatto comica, potete giurarci. New York è terribile quando qualcuno ride per la strada la sera tardi. Lo senti a chilometri di distanza. Ti fa sentire solo e abbacchiato. Non riuscivo a togliermi di dosso la voglia di andare a casa a far quattro chiacchiere con la vecchia Phoebe. Ma alla fine, dopo un pò che marciavamo, io e l'autista attaccammo una specie di conversazione. Si chiamava Horowitz. Era molto meglio dell'altro autista che mi era capitato prima. Ad ogni modo, pensai che forse lui sapeva qualcosa delle anitre.
- Ehi Horowitz, - dissi. - Ci passa mai vicino allo stagno di Central Park? Giù vicino a South Central Park?
- Al cosa?
- Allo stagno. Quel laghetto, cos'è, che c'è laggiù. Dove ci sono le anitre, sa?
- Sì, e allora?
- Be', sa le anitre che ci nuotano dentro? In primavera eccetera eccetera. Che per caso sa dove vanno d'inverno?
- Dove vanno chi?
- Le anitre. Lei lo sa, per caso? Voglio dire, vanno a prenderle con un camion o vattelapesca e le portano via, oppure volano via da sole, verso sud o vattelapesca?
Il vecchio Horowitz si girò tutto di un pezzo sul sedile e mi guardò. Aveva l'aria di essere un tipo nervosetto. Non era affato malvagio, però. - E come diavolo faccio a sapere una stupidaggine così?
- Be', non si arrabbi per questo, - dissi. Era arrabbiato o che so io.
- E chi si arrabbia. Nessuno si arrabbia.
Io smisi subito di chiacchierare con lui, se doveva essere così maledettamente suscettibile. Ma fu lui stesso a riattaccare. Si girò tutto un'altra volta e disse: - I pesci non vanno in nessun luogo. Restano dove sono, i pesci. Proprio in quel dannato lago.
- Ma i pesci... è un'altra cosa. I pesci sono un'altra cosa. Io sto parlando delle anitre, - dissi.
- Perchè è un'altra cosa? E' proprio tale e quale, - disse Horowitz. Qualunque cosa dicesse, aveva l'aria di essere arrabbiato. - Per i pesci è molto peggio che per le anitre, Cristo, l'inverno e tutto quanto. Faccia funzionare il cervello, Cristo!
Io non dissi niente per un minuto almeno. Poi dissi: - Va bene. E cosa fanno, i pesci e compagnia bella, quando tutto il lago diventa un solo blocco di ghiaccio, con la gente che ci pattina sopra e via discorrendo?
Il vecchio Horowitz si girò un'altra volta. - Che diavolo vuol dire, cosa fanno? - mi urlò in faccia. - Restano là dove sono, Cristo.
- Ma non possono non accorgersi del ghiaccio. Non possono non accorgersene.
- E chi è che non se ne accorge? Nessuno può non accorgesene! - disse Horowitz. Era così maledettamente infuriato e tutto quanto che avevo paura che mandasse a sbattere il taxi contro un lampione o che so io. - Vivono dentro quel maledetto ghiaccio, vivono. E' la loro natura, Cristo. Si congelano e stanno in quella posizione per tutto l'inverno.
- Ah sì? E che cosa mangiano, allora? Voglio dire, se sono proprio congelati non possono nuotare per cercarsi da mangiare eccetera eccetera.
- I loro corpi, Cristo; ma che ti piglia? Sono i loro corpi che prendono il nutrimento eccetera eccetera da quelle maledette alghe e porcherie che ci sono nel ghiaccio. Stanno là coi pori sempre aperti. E'la loro natura, Cristo. Capisci cosa voglio dire? - E si voltò un'altra volta tutto d'un pezzo sul sedile per guardarmi.
- Oh, - dissi io. Lasciai perdere. Avevo paura che fracassasse quel maledetto taxi o non so cosa. D'altronde era un tipo talmente suscettibile che non c'era nessun gusto a discutere con lui.
(...)

ovviamente da J.D.Salinger, Il giovane Holden, 1951

immagine: Davide Corona, Il giovane Holden, 2007, olio su tela, 100*100 cm

sabato 31 maggio 2008

NY, 17 - MANHATTAN


I newyorchesi li riconosci subito: sono quelli che camminano con passo veloce, in modo rettilineo, e con lo sguardo dritto davanti a loro.
Tutti gli altri, invece, si spostano con movimento ondivago, quasi barcollando, e guardano quasi sempre all'insù, alla ricerca del maggior numero possibile di dettagli di quei colossi in ferro e vetro che sfilano sopra il loro naso.
E questo è assai pericoloso.
Non tanto per il rischio di calpestare qualche escremento di cane - come forse tutte le grandi metropoli, New York ha da tempo espulso qualsiasi tipo di animale: sarà un effetto collaterale della "Tolleranza Zero"? - ma al contrario per il fatto che ogni circa cento-centocinquanta metri c'è un semaforo, e ci vuole davvero molta attenzione, e concentrazione, per fermarsi in tempo a ogni segnale rosso.
La città è stata infatti costruita su una fittissima griglia ortogonale, assolutamente perfetta, che se da un alto facilita l'orientamento - dopo la quinta avenue puoi star sicuro che c'è la sesta avenue, e dopo la sesta c'è la settima, e dopo la settima c'è l'ottava, e così via - dall'altro diventa la causa di una lunga successione di barriere consecutive. Un'interminabile corsa a ostacoli.
Malgrado sulle strade viaggino solo un immenso fiume di taxi gialli, oltre a qualche bus turistico e alle limousine di qualche autorità o dei padroni di Wall Street (i newyorchesi, normalmente, non posseggono un'auto, e non si stenta a comprenderne il motivo), il traffico è alquanto caotico.
Proprio a fianco di ogni semaforo, campeggia immancabile un baracchino di wurstel - gestito normalmente da un greco o da un turco - o di pane di tipo pretzel (un ciambellone rigonfio di mollica e ricoperto da semi di sesamo) - gestito, per esempio, da un ispanico - o di frutta esotica: mango, papaya, avocado - gestito da un cinese. Ogni etnia gestisce il racket di un ramo preciso, ci spiegano. Verso mezzogiorno, un esercito di colletti bianchi erutta dai colossali termitai di uffici, quasi li vomitasse, e si dirige all'assalto di queste bancarelle improvvisate. Uno spettacolo per antropologi, Manhattan in pausa pranzo, popolata da queste moltitudini di impiegati e funzionari che abusano - rigorosamente in piedi - di hot dog, donuts e hamburger.

La selva di grattacieli si infittisce mano a mano che Cj procede verso sud.
A lui incute un certo timore.
Le strade sono tutte una uguale all'altra.
C'è una luce rarefatta, innaturale.
Lì giù, infatti, si resta quasi sempre all'ombra. Difficile infatti che fin lì possa arrivare un raggio di sole, forse solo a ferragosto, a mezzogiorno in punto, quando l'asse del sole è perfettamente verticale. L'unico modo per vederne la luce, e respirarla a pieni polmoni, è dirigersi verso il Central Park, il grande parco realizzato alla fine del secolo scorso proprio al centro di Manhattan. Vederlo adesso, sembra persino un errore di costruzione, una pecca, oppure un'enorme voragine scavata - da chissà quale evento distruttivo - nel mezzo della assurda giungla degli skyscrapers che ha aggredito senza soluzione di continuità il resto dell'isola. La passeggiata intorno al grande lago centrale rappresenta un vero e proprio deja-vu cinematografico: aspetti solo di incrociare Dustin Hoffmann nella sua tuta da maratoneta anni '70.

Per avere una (meravigliosa) visione d'insieme dello skyline metropolitano, è necessario salire in cima all'Empire State Building. Ed è ciò che facciamo, non prima di avere fatto incetta - Steve su tutti, ovviamente - di inutili gadget dei Jets e degli Yankees in uno dei tantissimi negozi di souvenir di tema sportivo.
Per Wikipedia, esso è probabilmente il più famoso grattacielo della città di New York e forse del mondo. Con i suoi 381 metri di altezza (443,2 m se si considera anche l'antenna televisiva sulla sua cima), esso è stato il grattacielo più alto del mondo fra la sua costruzione (1931) ed il 1973, quando furono inaugurate le Torri Gemelle del World Trade Center.
È stato proposto come una delle Sette meraviglie del mondo moderno.
Dopo una lunga coda per l'accesso all'ascensore, veniamo perquisiti con rigore all'ennesimo posto di blocco.
Qui a New York la paura la respiri in ogni angolo.
Il viaggio nel ventre molle del mostro dura solamente lo spazio di un istante, ed eccoci sulla vetta del mondo.

(Sarebbe stato bello avere una foto ricordo di gruppo, ma Cj, in preda a un raptus, sceglie di fare la foto abbracciato a un incredulo estraneo...)

Immagine: www.popitlikeitsart.co.uk/.../new%20york.JPG

sabato 5 aprile 2008

NY 16, (QUASI) BRONX


"Immaginai di volare con l'elicottero sopra la città, imparando a conoscere gli abbellimenti architettonici e le bellezze naturali di grande impatto, ma l'elicottero continuava a volare in direzione nordovest fino a quando raggiungeva la punta meridionale dell'isola di Manhattan, diffondeva la sua ombra sopra il conglomerato di asfalto di Downtown e di Midtown e superava velocemente i frontoni e le finestre degli abbaini del Dakota Building a Central Park, dove un tempo il signor Lennon visse e morì.
E subito dopo eccomi su un treno IRT diretto a East Tremont Avenue, nel Bronx.
Era inverno, il riscaldamento era al massimo e nel mio cappotto foderato di lapin sentivo il sudore raccogliersi tra la seconda e la terza piega del collo, che, prese insieme, formavano un setaccio carnoso. Sentivo l'acqua fresca sgocciolare lungo la clavicola, irrigare i peli ricciuti dell'inguine. Avevo caldo e freddo, ero ansioso e innamorato.
Sui treni in direzione dei distretti esterni di New York le dimensioni dei passeggeri superano di gran lunga quelle della popolazione bianca che gironzola per Downtown. I miei compagni obesi erano stoici, multiculturali, vestiti con piumini gonfi in grado di salvare un astronauta dall'asfissia spaziale. Appoggiati alle porte per mantenere l'equilibrio, addentavano ali di pollo e code di bue fritte, sputando ossa e cartilagine nei sacchetti di plastica. Chi erano questi Atlanti di Amsterdam Avenue? Questi Caligola di Cypress Hill? Se non fossi stato così schizzinoso da non volermi ungere le mani, mi sarei unito a loro per consumare al bagliore deossigenato del treno numero cinque un piccolo mammifero avvolto nella pellicola trasparente."

Gary Shteyngart, "Absurdistan", 2006 (Ed. italiana da Guanda, 2007)

venerdì 21 marzo 2008

NY 15, GRANT HOTEL


Il Grant Hotel è nel buco del culo di Nuova York.

L'ha scelto DJ Paulette su Expedia.it, ma CJ lo biasima: aveva a disposizione un budget alquanto limitato. E poi il nome, quell'ammiccare al Grand Hotel, meritava di essere in qualche modo premiato. Se provate infatti a digitare "Grant Hotel" su Google.it, verrà fuori: "Forse cercavi: Grand hotel". Forse un bel paio di maroni, cercavo proprio il Grant Hotel...
Un capolavoro del marketing, a CJ vengono in mente le borse dell'Addas che sua madre comprava sul mercato, con quattro strisce anzichè le consuete tre.

E così si ritrova in una misera pensione a 1 stella e mezzo nella Upper West Side, sulla W94 Street, a circa quattro isolati da Central Park, a pochi dal Bronx e a qualche centinaio di metri dalla Baia di Hudson - in verità resa inaccessibile da un groviglio di strade sopraelevate e di piloni in calcestruzzo - mentre i tre grandi atleti riposano al centesimo piano del loro albergo di lusso nella zona centrale del Chrysler Building.

Ma va più che bene.
E' abbastanza pulito e molto economico, e non lontano si trovano la fermata della Subway e uno Starbucks per la colazione: al Grant Hotel, infatti, non gli daranno nemmeno un caffè o un muffin mezzo ammuffito, di quelli da distributore automatico di merendine.
L'unico problema si manifesterà al momento della partenza, quando sparirà la valigietta di CJ dalla stanza dei bagagli, ritrovata improvvisamente solo dopo reiterate proteste e dopo una velata minaccia del tipo "I call the police".

La stanza di CJ è situata proprio alla fine di un corridoio stretto e angusto, dal controsoffitto troppo basso e le pareti color nocciola.
E' la solita stanza da motel, con una moquette color marrone scuro alta un paio di centimetri e un paio di piccole stampe a motivi floreali appese alle pareti spoglie. Senonchè, dopo una breve ricognizione visiva, nota un'assenza: manca la finestra! In compenso, a fianco del letto, c'è una porta dal rivestimento in formica finto legno. CJ la apre e si ritrova in un ripostiglio, dotato di una minuscola feritoia verticale con un vetro smerigliato, con apertura a ghigliottina. Lo solleva e prova a incastrare la testa per guardare fuori. Dopo numerosi tentativi riesce a far uscire mezza testa, il tempo necessario per ammirare un panorama costituito da stretti cavedi, incombenti muri in mattoni brunastri e intrecci vari di scale antiincendio in ferro. Spike Lee apprezzerebbe, e anche a CJ non dispiace ma il fatto è che ha paura di rimanere decapitato, per cui si ritrae dopo un istante, per poi buttarsi sul letto, senza nemmeno disfarlo, e addormentarsi.

La mattina seguente, dopo una notte di sonno pesante, si appresta a una bella doccia, calda e rinvigorente.
La stanza, ovviamente, non dispone di servizi, che si trovano nel corridoio comune.
Sono solo le sette e mezzo, e c'è già una fila terrificante.
CJ si siede sulla moquette polverosa e, pazientemente, aspetta il suo turno.

Brutta storia, la coda per il cesso: CJ è internazionalmente noto per la sua cistite acuta, e dunque non poter disporre liberamente di un water potrebbe rivelarsi un problema da non sottovalutare.
Ci ragiona un attimo e trova la soluzione. Dopo essersi lavato in una vasca dalle pareti giallognole e dal tendaggio in pvc a bolle, scende alla reception e chiede un paio di bicchieri di plastica, di quelli da birra media. Rientrato nella sua stanza, li dispone sul comodino. In caso di emergenza, gli serviranno come vasino da notte: una volta pieni, li nasconderà nel ripostiglio, e chi si è visto si è visto.

Più facile a dirsi, perchè gli improvvisati pitali non si riveleranno poi così capienti. Dopo una cena a un ristorante pakistano del Greenwich Village, cena innaffiata da una quantità non modesta di cabernet-sauvignon californiano, CJ si ritroverà a riempire in un attimo il primo bicchiere per poi, dopo una delicatissima fase in sospensione, passare a svuotare il resto della vescica nel secondo.
Faticosissimo, credetegli.

lunedì 4 febbraio 2008

venerdì 1 febbraio 2008

NY 13, TIMES SQUARE

Times Square è esattamente come uno se l'aspetta, un'immensa fiumana di uomini e donne che come robot procedono incolonnati nelle due direzioni di marcia.
Cj è spaesato.
Si muove lentamente sul marciapiede, nella vana speranza di trovare un angolo nel quale è possibile fermarsi un istante, senza rischiare di essere risucchiati dalla corrente.
La folla che scivola tutto intorno è uno spaccato rivelatore della varietà umana.
Fa freddo, ed è calato il buio.
L'appuntamento con Paulette, Steve e Winnie è stato fissato per le 21. Si va a mangiare qualcosa insieme all'Hard Rock Cafe'.

Nell'attesa, Cj osserva ammutolito lo spettacolo abbacinante delle insegne al neon sui grattacieli di fronte a lui, un caleidoscopio di luci e di colori che variano di continuo.
Sulla Settima Avenue, in particolare, incombe un'installazione del Nasdaq, ovvero una bandiera a stelle e strisce di dimensioni colossali che domina il paesaggio.
"Fuck", pensa Cj, "i soliti nazionalisti."
Al suo fianco, un enorme monitor a cristalli liquidi proietta le principali notizie economiche e persino le quotazioni della borsa.
"Perfetto per la Giulia!", dice tra sè.
Sulla 42esima, il traffico non conosce sosta. Una fila interminabile di taxi e di bus procede a passo costante. Attraversare la strada potrebbe essere davvero un'impresa.
Il flusso sensuale di dati al neon scorre ininterrotto, ovunque Cj volga lo sguardo. Un'anarchia selvaggia di segni e di simboli: LG, Toys, Philips, Swatch, Doc News, JVC, Reuter, Panasonic...

martedì 22 gennaio 2008

NY 12, CHELSEA HOTEL NO. 2

I remember you well in the Chelsea Hotel, you were talking so brave and so sweet, giving me head on the unmade bed, while the limousines wait in the street.Those were the reasons and that was New York, we were running for the money and the flesh. And that was called love for the workers in song probably still is for those of them left.
Ah but you got away, didn't you babe, you just turned your back on the crowd, you got away, I never once heard you say, I need you, I don't need you, I need you, I don't need you and all of that jiving around.
I remember you well in the Chelsea Hotel you were famous, your heart was a legend. You told me again you preferred handsome men but for me you would make an exception. And clenching your fist for the ones like us who are oppressed by the figures of beauty, you fixed yourself, you said, "Well never mind, we are ugly but we have the music."
Ah but you got away, didn't you babe, you just turned your back on the crowd, you got away, I never once heard you say, I need you, I don't need you, I need you, I don't need you and all of that jiving around.
I don't mean to suggest that I loved you the best, I can't keep track of each fallen robin. I remember you well in the Chelsea Hotel, that's all, I don't even think of you that often.
© by Leonard Cohen.

lunedì 21 gennaio 2008

NY 11, CHELSEA HOTEL

Leonard Cohen, ovvero uno dei grandi. (Grazie, Bedd.)
E quindi il Chelsea Hotel, ovvero una delle cose che a New York non siamo riusciti a vedere.

Chelsea Hotel, 222 West 23rd Street, New York - tel. 001-212-2433700

Un motivo in più per tornare, prima o poi (magari con Sandy, se si decide a prendere l’apparecchio… dai, bella, solo solo nove ore di volo o poco più...)

Beh, forse non ci fermeremo a dormire qui... sarà pur vero, come recita il sito web ufficiale (http://www.hotelchelsea.com/), che quando osservi New York dalla finestra, sembra che la città non possa rinunciare al Chelsea, e viceversa, ma queste sono le tariffe: da $ 195 per la camera singola a $ 485 per la suite; mini appartamenti con uso cucina da $ 275.

Costruito nel 1884 come uno dei primi esempi di appartamenti in cooperativa, il Chelsea è da sempre l’albergo degli intellettuali, degli artisti e dei radical chic.
Se i muri del Chelsea Hotel potessero parlare, racconterebbero di vite bohémiennes, pagine letterarie imbrattate di whiskey, angeli della controcultura, demoni del rock.

Accanto alla porta d’ingresso dell’edificio, alcune targhe celebrano i Chelsea residents a breve e a lungo termine.
La letteratura, qui, ha messo radici soprattutto negli Anni ’50 esibendo i suoi belli e dannati: William Burroughs, impegnato a scrivere The Naked Lunch; gli altri beatniks Gregory Corso e Lawrence Ferlinghetti; Nelson Algren e la sua streetwise novel A Walk On The Wild Side; Arthur Clarke che solo qui riusciva a concentrarsi sulla sceneggiatura del film 2001: A Space Odyssey; Arthur Miller, che al Chelsea trovò il domicilio ideale per il semplice motivo che non doveva indossare lo smoking per ritirare la posta alla reception, come succedeva nel più “fashionable” Plaza Hotel.
E ancora: Brendan Behan, Edgar Lee Masters, Thomas Wolfe, Vladimir Nabokov, Eughenij Evtucenko…

I dipinti esposti sulle scale, lungo i corridoi e nella reception, si portano appesi i ricordi di artisti che barattarono una tela per una notte da non trascorrere sotto i ponti. Tra gli altri, gli action painters Jackson Pollock e Willem de Kooning, il grande pop Jasper Johns hanno soggiornato qui. E sempre qui, negli Anni ’60, zoomando da una camera all’altra, Andy Warhol e i dropouts della Factory hanno girato The Chelsea Girls.

Con l’avvento dei favolosi sixties, direbbe Gianni Minà, diventò poi un incredibile crocevia di rockstar.
Qui dimorò per molti anni Bob Dylan, il vate del Greenwich Village, nel 1966, in compagnia della prima moglie Sara: in una camera al terzo piano (suite 2011) compose la splendida ballata Sad–Eyed Lady Of The Lowlands.
E ci sono passati Jimi Hendrix, Joni Mitchell (che scrisse Chelsea Morning), i Grateful Dead del vecchio zio Jerry (saluta lo zio, Big!), i Jefferson Airplane, Patti Smith e Janis Joplin che a questo proposito proclamò: “Mi piace il Chelsea. Ci abitano parecchi miei amici e succede sempre qualcosa di divertente. Somiglia a una comune californiana. Solo che costa un po' di più."
In tempi più recenti, Jon Bon Jovi ha composto Midnight at Chelsea nella suite numero 515.

Il Chelsea Hotel fu purtroppo anche teatro di celebri tragedie: nel bagno della camera numero 100 - che adesso non esiste più – fu trovata assassinata il 11 ottobre 1978 Nancy Spungen, la ragazza di Sid Vicious, bassista dei Sex Pistols.
Molti anni prima (1953), Dylan Thomas, il poeta gallese che ispirerà a Robert Zimmerman la scelta del suo nome d’arte, fu trovato in coma nella stanza n. 205 dopo essersi scolato 18 whiskhy in una sola notte.

Ma fu anche la cornice dell’incontro tra due grandi, Janis Joplin (suite 411) e Leonard Cohen (suite 424), che quest’ultimo immortalò nella fantastica Chelsea Hotel #2, inserita nell’album New Skin For The Old Ceremony del 1974 ma eseguita per la prima volta dal vivo il 23 marzo 1972 durante il suo terzo show londinese alla Royal Albert Hall.

venerdì 18 gennaio 2008

NY 10, IL CLAMOROSO SCOOP DI C.J.

Oggi dovrebbe essere il giorno della proiezione collettiva dell'Uomo Leggenda.
Con i compagni niuiorchesi si era pensato di prepararsi all'evento con una cena al Roadhouse a base di steaks, nachos e chips.
Segue trasferimento alla multisala, altro "nonluogo" interessante, il tutto in omaggio alla filosofia omologante e spersonalizzante made in stelle e strisce.
Chi volesse aderire...
Come succosa anteprima, c.j. posta questo scatto colto di sfuggita sulla Fifth Avenue nel novembre 2006: è l'auto di The Legend!

mercoledì 26 dicembre 2007

NY 08, FILIPPIDE O FIDIPPIDE

A molti di noi non ne potrebbe calare di meno, ma in risposta al commento di Big al suo ultimo post (commento nel quale il nostro - dall'altro della sua inconfutabile cultura classica - correggeva "Filippide" in "Fidippide"), l'altrettanto dotto Steve ritiene di precisare che:

Fidippide (o Filippide) morto nel 490 a.C. è stato un leggendario corridore greco.
La leggenda narra che Milziade, a capo degli eserciti di Atene, dopo la vittoria sui persiani nella battaglia di Maratona (490 a.C.), incaricò Fidippide di recare la buona notizia ad Atene; la distanza tra le città di Maratona ed Atene è di circa 40 km e Fidippide percorse l'intero tragitto di corsa senza mai fermarsi; dopo aver gridato l'annuncio della vittoria di Atene sui Persiani, l'araldo crollò al suolo morto, stremato dallo sforzo.

A chiosa di tale precisazione, Steve commenta : "che Big mi baci il culo..."

Una disputa tra due accademici di quel Dio.

NY 07, XMAS

sabato 22 dicembre 2007

NY 06 - STEVE, AGAIN (GIORNO 1)


Dalla finestra della nostra stanza si vedono il Chrysler Building e l’East River , siamo sulla 42^, un fiume di taxi gialli scorre sotto di noi.
Manhattan è già sveglia e ci aspetta.
Stasera arriverà CJ e allora saremo al completo, ma intanto abbiamo una giornata davanti e non bisogna perdere tempo.
Abbiamo prenotato un tour in pullman, ma prima facciamo colazione da Starbucks. Vinnie prova un succo di frutta viola, gli piace, lo riprenderà per tutta la vacanza. Ci avviamo. Paul e io camminiamo guardando all’in su, respirando la meraviglia dei grattacieli, Vinnie ci segue, come se nulla lo sfiorasse, ha già visto tutto lui, a NY c’è già stato.
La scorsa volta trovò coda alle Twin Towers, “ci tornerò”, disse.
Il tour è una mezza vaccata, anche se ci da comunque una visione d’insieme della città. Al Financial District scendiamo e andiamo a vedere il vuoto lasciato dalle Torri. Sinceramente non è molto emozionante, in fondo oggi è solo un cantiere. C’è tanta gente. Lungo il perimetro le foto della tragedia e testimonianze varie ti riportano emotivamente all’11-9, ma non se nel frattempo ti chiama tua mamma per dirti che Libertà ha pubblicato le tue dichiarazioni pre-maratona, con tanto di cognome nel titolo. Scoppio in una risata. Mi guardo attorno, vedo le facce degli altri.

Andiamo?

E’ proprio una bella giornata, Battery Park è incantevole e noi camminiamo senza sosta. Ci immergiamo tra i grattacieli fotografando tutto e decidiamo che non possiamo mancare una delle bancarelle che vendono cibo take-away. Forse becchiamo la peggiore. Ad oggi nessuno ci potrebbe convincere che quello nel piatto non fosse un cane, ma va bene così.

Riprendiamo verso nord, il porto, un cantante che gira un video e poi lui, il Brooklyn Bridge, vecchio e solido, che aggancia Manhattan al suo passato di mattoni e immigrati. Lo percorriamo tutto, ci fermiamo ogni due passi a fare foto, siamo quasi al tramonto e c’è una luce bellissima.
Sono a New York e penso che ci devo tornare.
Strano no?
Hai come un senso di accoglienza e di familiarità. Come se fosse la tua seconda città, nonostante sia così diversa dal tuo mondo quotidiano.
Ci tornerò, la prossima volta con Federica. Glielo devo.

Ci arrendiamo alle distanze e prendiamo un taxi, CJ sta per arrivare e dobbiamo incontrarlo a Times Square, come se fosse la cosa più normale del mondo. “Ci si be a NY!”…
Eccolo, Johnny! Bella lì! Passavi di qua?
L’Hard Rock, dove la sera prima Vinnie ha sfoggiato il suo inglese con un “rare” graffiante, ci sembra il posto ideale per una cenetta a base di carne e cakes XXL.
Ah… dolci cameriere yankees, siete proprio cotte di noi Italians… no, non insistete, pazze!, siamo atleti…

STEVE

giovedì 20 dicembre 2007

NY 05, LA VERSIONE DI STEVE (GIORNO 0)


Facciamo un passo indietro.
Quando C.J. atterra a New York, infatti, tre maratoneti sono già lì ad aspettarlo.
E non sono maratoneti normali...

Eccovi il racconto di Steve:

"Era passato un anno esatto da quando, con la lucidità di un folle, guardando negli occhi un Paulette distrutto dalla fatica, gli dissi:
- il prossimo anno facciamo la maratona di New York!
Eravamo ad Atene, nello stadio delle Olimpiadi del 1896, alla fine di quella che per noi allora era ancora “l’impresa”: 10 km di corsa con un numero e la scritta “Italia” sul petto, tra centinaia di persone, che come noi avevano corso ai piedi del Partenone, spinte dal mito di Filippide e dalla voglia di rappresentare se stessi e il proprio paese.
Era passato un anno esatto ed eravamo lì, io, Paulette e l’immancabile Vinnie, atterrati a Newark, pronti per “l’Impresa”, stavolta con la "i" maiuscola.

Mi ricordo l’impatto con gli Stati Uniti, si apre la porta scorrevole e mi affaccio sul marciapiede dell’aereoporto.
Potrà sembrare infantile, ma, cazzo!, quanto sono grandi le macchine!
Figa raga, siamo negli States!
Subito mi accendo una Camel e penso.
Penso a Springsteen e al suo Asbury Park.
Penso che è così che si deve vivere, girare il mondo, esaudire i propri sogni.
E penso, guardando quei due cazzoni che sono lì con me, che senza questi amici sarei davvero più piccolo.

Saliamo su un autobus che ci porterà alla Gran Central Station e mi incollo al finestrino. Sicuramente un po’ ci si autosuggestiona, perché in fondo quello che si vede arrivando in un aeroporto di una metropoli, sono delle gran tangenziali e dei tristi quartieri periferici. Ma per chi come me è cresciuto inondato da film e telefilm americani, è tutto uno spettacolo.
Come per Marcovaldo, che immagina di essere al cinema guardando dal finestrino posteriore dell’autobus.
Ci assopiamo un po’ e ci lasciamo trasportare verso Manhattan, fino a quando, prima del sottopasso dell’Hudson ci appare a sinistra lui.. lo skyline della Grande Mela! Ti toglie il fiato!
I giardini Margherita e il grattacielo dei Mille sono lontani…

Corro per un anno intero, corro d’inverno sulla ciclabile della Besurica col gelo che mi taglia la faccia, corro d’estate sulle colline di Borgonovo alle otto di mattina e ogni volta che corro penso a New York, a “facciamo finta che” mi mancano 5 km e sto per entrare in Central Park.
Ecco, uno si prepara per un anno e poi la maratona passa subito in secondo piano.
Si, ok, la faremo, ma non perdiamo un solo attimo, New York non torna tanto facilmente.

Lasciamo i bagagli all’Helmsley e ci tuffiamo in strada, il passo è veloce, quasi impaziente.
Non abbiamo una meta definita, ma alla fine arriviamo a Times Square e veniamo avvolti da luci al neon, video pubblicitari e da tanta, tanta gente.
- Prima di cena non facciamo volare la carta?”
Bubba Gump è lì apposta, “Run Forrest run”, la maglietta che mi stava aspettando, fatta per me…
Scatta la mano sul portafoglio, la estraggo, swish… bip… andata!
Funziona anche oltreoceano, fida compagna di viaggio…"
STEVE

domenica 2 dicembre 2007

NY 04, LA CITTA' DEGLI ANGELI

Le due donne arrivarono a New York un venerdi' pomeriggio, e accogliendole notai sul volto di Alisha un'espressione per lei insolita. L'espressione di chi si è reso conto troppo tardi o di aver dato fuoco a casa sua o di essersi imbarcato in un viaggio con la persona sbagliata. "Salvati, scappa", mi sussurrò.

Bonnie era una donna smilza e arcigna, con due trecce da ragazzina che ricadevano come guinzagli sugli innocenti cagnolini disegnati sulla sua maglietta. Aveva uno spiccato accento di Greensboro ed era atterrata al Kennedy convinta che i neewyorkesi, se solo lei gliene avesse dato una mezza possibilità, le avrebbero rubato anche le otturazioni che si ritrovava in bocca.

"Il tassista ci fa: Dall'accento si direbbe che venite da fuori", e io ho capito all'istante che pensava di fregarci. (...) Io l'ho capito subito cosa aveva in mente. So come gira il mondo, non sono mica stupida. E così mi sono segnata il nome e il numero della licenza e gli ho detto che se solo provava a fare qualche scherzetto lo denunciavo alla polizia. Non son mica venuta fin qui per farmi spennare..."

Mi mostrò la ricevuta del taxi, e io la rassicurai: il prezzo era giusto. I soliti trenta dollari di una corsa dall'aeroporto Kennedy a un qualsiasi punto di Manhattan.
Bonnie ripose la ricevuta nel portafoglio. "Be', spero prorpio che quello non si aspettasse una mancia, perchè da me non ha visto un centesimo."
"Non gli hai dato la mancia?"
"Ma figurati!" esclamò Bonnie. "Non so tu, ma io i miei soldi me li sudo. Sono i miei e di mance non ne do, a meno che il servizio non sia come dico io."
"D'accordo" dissi, "ma che tipo di servizio ti aspettavi esattamente, se prima d'ora non avevi mai preso un taxi?"
"Io mi aspetto di essere trattata come chiunque altro, ecco come. Di essere trattata da cittadina americana."

Con quella frase aveva centrato il problema. I turisti americani sono destinati a essere accolti meglio a Teheran che non a New York, una città fondata sul principio del "Noi vs. Loro". Come me, la maggior parte delle persone che conoscevo si era trasferita a New York proprio per sfuggire agli americani tipo Bonnie. E la loro paura aveva sempre giocato a nostro favore, almeno finchè un nuovo sindaco non si era messo a promuovere la città come un parco giochi per famiglie. La sua campagna era stata un successo, e le Bonnie avevano cominciato ad affluire in città a frotte...

da DAVID SEDARIS, Me parlare bello un giorno, Mondadori, 2004 (Me Talk Pretty One Day, 2000)

giovedì 29 novembre 2007

NY 03, NEWARK

Quando C.J. atterrò al Newark International Airport, a nord di Staten Island, il sole stava già tramontando.
Il viaggio era filato via liscio come l'olio. Le sue paure si erano dimostrate infondate: C.J. era riuscito ad ammazzare il tempo alternando con sapienza l'iPod ai racconti splatter di Landsdale; purtroppo però, essendo il suo sedile collocato appena sotto ad un monitor, era stato costretto a sorbirsi una sbrodolata come "Io, te e Dupree" in lingua originale...

Messo piede a terra, C.J. scrutava all'orizzonte lo skyline di Manhattan che si intravvedeva appena sotto l'ala sinistra dell'aereo.
Sbrigò rapidamente tutte le formalità dello sbarco, compreso l'ormai classico questionario - di inarrivabile comicità - a cura del Dipartimento U.S.A. per l'immigrazione:"Lei è un terrorista?""Lei fa parte di organizzazioni sovversive di matrice marxista?""Lei fa uso abituale di sostanze stupefacenti? E' alcolizzato?""Lei ha mai ucciso un uomo?""Lei ha mai stuprato un bambino", e via dicendo.

All'uscita dell'aeroporto, un vento gelido e pungente lo accolse sulla banchina dei taxi.
Prese il primo che gli capitò a tiro.
L'autista era un nero sui sessanta, scorbutico da far paura.
Non gli rivolse la parola per tutto il viaggio, ma stavolta a C.J. la cosa non dispiacque affatto, stanco com'era per il volo transoceanico e per lo stress accumulato durante la lunga attesa per l'imbarco: in fin dei conti era in piedi da una ventina di ore o poco più.

Mentre il cab attraversava le lande desolate attorno a Hoboken (Do you remember Night falls on Hoboken?), C.J. si limitava a osservare in lontananza, con gli occhi increduli e curiosi di un bambino, la metropoli - assurda e straordinaria - che letteralmente gli si spalancava davanti. Percorsero per lo più strade a percorrenza veloce, a tre o quattro corsie, con auto che sfrecciavano a destra e sinistra ad un ritmo frenetico. Ogni tanto, il taxi svoltava su uno svincolo sopraelevato, per poi infilarsi sotto i piloni in cemento armato delle freeways, tra roulottes e distributori di carburante. Ai bordi della strada, oltre il guard-rail arrugginito e contorto, solo sterpaglie e alberi spogli.

Attraversarono poi i sobborghi di New Yersey City. Le luci al neon dei negozi e dei Mc Donald's punteggiavano un agglomerato caotico di vecchie case in stile vittoriano ed enormi caseggiati in mattoni brunastri. Sulla vetrina di una lavanderia a gettone campeggiava la scritta: "Al lunedi', martedi' e mercoledi' il sapone è gratis."

Quando giunsero infine all'Holland Tunnel, uno dei passaggi sotterranei che attraversano l'Hudson River, trovarono una coda terrificante per il pagamento del pedaggio. Il tassista si destreggiò tra le varie corsie sino ad infilarsi a tutta velocità in una corsia riservata.

I grattacieli di Tribeca incombevano ormai sulla Baia, suscitando timore e rispetto.

Tra pochi minuti C.J. sarebbe arrivato a destinazione.

domenica 18 novembre 2007

NY, 02 - THE TERMINAL


L'inizio, si sa, è sempre difficile.
Come fanno i romanzieri in crisi di ispirazione, C.J. ha cominciato dalla fine, ovvero con il taxi che lo portava all'aeroporto John Fitzgerald Kennedy.

Ma la partenza era stata tutt'altro che agevole.
C.J. era partito poco dopo le mezzanotte dalla sua country house sui colli piacentini e si era cosi' presentato alla Malpensa verso le due di notte, con un anticipo imbarazzante. Era sempre cosi', quando prendeva un aereo da solo. Arrivava tre o quattro ore prima dell'orario di imbarco, mai dopo. Forse lo faceva per non rischiare di restare a casa per un intoppo qualsiasi. Forse per sdrammatizzare un pò la tensione (C.J., è risaputo, ha una fottuta paura di prendere l'"apparecchio", come dicono i vecchi delle sue parti), e comunque la notte prima della partenza non riusciva a prendere sonno. O forse perchè, alla fine, non gli dispiaceva immergersi in quel luogo non luogo anonimo e spersonalizzante che è l'aeroporto, dove poteva vagare ovunque, come fosse fuori dalla dimenzione del tempo e dello spazio.

Al suo arrivo alla Malpensa, C.J. aveva commesso il primo errore tattico. Aveva deposto l'auto in un parking collegato al Terminal 2, sottovalutando la necessità di appuntarsi il numero del suo posteggio o, almeno, il livello sotto terra. Al ritorno, C.J. e i suoi compagni di viaggio setaccieranno per una buona mezz'ora le rampe e i corridoi labirintici del parcheggio, nella speranza di ritrovarla, per poi gettare la spugna e chiamare l'assistenza. Dopo di che, i tre malcapitati (Paul, Steve e Winnie) assisteranno alla scena altamente comica di C.J. che, a bordo dell'auto dell'assistente, parte alla ricerca della sua auto perduta nei meandri del sotterraneo.
(Se fosse finita qui, va là. Non contento, C.J. successivamente non troverà neppure il biglietto del parking e per uscire da quella che ormai era una vera e propria prigione sarà costretto a pagare una sanzione. Il biglietto, va detto a costo di peggiorare - e di molto - la sua situazione, era riposto nell'apposita tasca sull'aletta parasole del guidatore, il suo posto di più ovvio, e dove peraltro da subito Steve gli aveva detto di controllare...)

Tornando al nostro, l'avevamo lasciato là che si aggirava in quelle enormi sale dai pavimenti lucidi di graniglia e le fredde luci al neon, facendosi spazio tra visi stanchi e hostess che si truccavano davanti a minuscoli specchi.
Dopo il consueto tour tra profumi costosi, oggetti inutili e cataste di riviste in lingue sconosciute, si era fermato un momento nell'unico bar che aveva davvero l'aria di un bar, per prendere un caffè e un croissant, ovviamente riscaldato nel forno microonde. Si era poi trasferito in una sala d'aspetto, per immergersi nella lettura del suo libro delle vacanze (dovevano essere i racconti di Lansdale, "In un tempo freddo e oscuro", Einaudi Stile Libero).
Inutile cercare di prendere sonno.
Dopo qualche tempo, con gli arti inferiori anchilosati a cuasa delle strane posizioni assunte sulla poltrona in plastica rigida durante la faticosa lettura - mezzo seduto mezzo sdraiato, leggermente inclinato verso l'esterno, con la testa appoggiata ad una spalla - era stato costretto a rimettersi in moto, senza alcuna meta.

Quando arrivò il momento dell'imbarco, C.J. era ormai sopraffatto da una stanchezza indicibile. Aveva le mani sudate e le gambe gli dolevano.
Trascinatosi sino al gate della Lufthansa, fu per lui davvero una pessima sorpresa sapere che il volo per Francoforte - doveva fare scalo in quella città - era stato annullato per un problema tecnico.
Problema tecnico? Che problema tecnico?
L'hostess della compagnia tedesca fronteggiava l'ira dei passeggeri con distacco glaciale, persino con noia: "Non funzionano le luci di sicurezza sull'ala sinistra dell'aereo".
E chi se ne incula?, venne da pensare a C.J., piuttosto innervosito: aveva solo tre giorni e mezzo per visitare una metropoli immensa, grande come l'intera provincia di Piacenza, e adesso doveva buttare nel cesso mezza giornata per via di una lampadina bruciata...
La pressione verso la porta dell'imbarco stava salendo, finchè venne fuori il comandante che, dopo essersi scusato a nome della compagnia Lufthansa per l'inconveniente, ribadì che il guasto non era riparabile in tempi brevi e invitò i gentili passeggeri a tornare al check-in per sapere su quale volo sarebbero stati reindirizzati.

Il nuovo volo di C.J., per la cronaca, venne fissato per mezzogiorno meno dieci.
Doveva passare altre cinque ore in aeroporto.
Dove avrebbe sbattuto la testa?
Avrebbe fatto la fine di Tom Hanks?


giovedì 8 novembre 2007

NY, 01 - LASCIARE NEW YORK NON E' MAI FACILE


Michael Stipe ha ragione.

C.J. stava lasciando la città sul solito taxi sgangherato, con la carrozzeria ammaccata e le portiere cigolanti. Era già buio, per cui non sa dirvi se aveva ancora i copricerchioni. Ne dubita, comunque.
Esausto, restava sprofondato nel sedile in velluto a coste larghe, con l'imbottitura sfondata a tal punto che sembrava di essere seduti direttamente sull'asfalto.
Il tassista, un greco corpulento con due avambracci muscolosi e mani come badili, si spostava nervosamente da una corsia all'altra, nella ricerca vana di uno spiraglio nel muro di ferraglia che correva verso nord.
Gesticolava in modo vistoso, sacramentando contro chi (a suo dire) gli tagliava la strada.
Sembrava avere una fretta tremenda.
Non che fosse preoccupato che C.J. arrivasse in tempo all'aeroporto. C.J., d'altro canto, non gli aveva fatto cenno riguardo l'orario d'imbarco. Si era limitato a pronunciare, nel suo inglese timido, le semplici lettere: "J.F.K.".
Il problema è che il greco lavorava a cottimo. Più corse faceva, più guadagnava.
Ed erano di nuovo fermi.
Il tassista scrollava la testa, come in trance agonistica, irritato per l’ennesima coda che non si muoveva di un millimetro.
Il traffico a New York doveva essere sempre così, ma lui non sembrava essersi rassegnato.
A lungo, nel taxi regnò il silenzio.
- Siamo ad Harlem?, chiese C.J. provando a rompere il ghiaccio.
- Non ancora, fece lui, - ci saremo tra tre o quattro isolati.
- Mi piacerebbe vedere Harlem.
Il greco annuì. Si stava rivelando una guida turistica alquanto stitica. Si limitò a indicare a C.J. l’Apollo Theatre.
- Very famous, aggiunse.
- Dove?
- Dall’altra parte della strada.
C.J. domandò da dove veniva. Veniva da un piccolo paese di montagna, nel Peloponneso. Una montagna arida e assolata, dove non cresceva nemmeno la vite. C'erano solo fichi d'India. Suo padre era un pastore, ed anche suo nonno lo era stato. Lui, quando aveva raggiunto la maggiore età, era scappato in America. Non aveva nessuna intenzione di passare la sua vita a correre dietro a delle pecore.
- A New York stai bene?, fece a un certo punto il nostro.
- Yeaaaahhh.
Era un grugnito incomprensibile. C.J. non capì, sulle prime, che stava a significare un sì.
- Il tuo lavoro ti piace?
- E’ stressante. Sto su questa macchina da lunedì al sabato, dalle 7.00 della mattina alle 9.00 della sera… sempre incolonnato… ma non mi lamento. Nella vita ho fatto anche di peggio.
- E la domenica?
- La domenica? La domenica dormo.
- Vivi solo?
- Sì, naturalmente.
- Cazzo, pensò C.J., costui passa la vita sul suo sedile immerso nel traffico di New York. Roba da farsi prendere la nostalgia delle pecore…
- Quand’è l’ultima volta che sei stato in Grecia?
- Saranno ormai quindici anni. Fu per il funerale di mia madre, povera donna. Dio la benedica. In ogni caso, rimasi solo poche ore.
Passarono a fianco dello stadio per il baseball, nella zona di Staten Island. Il greco lo indicò a C.J. con un certo stupore, come se fosse stata la prima volta che lo vedeva.
- Vai mai a vedere gli Yankees?, domandò C.J.
- No, io sono per i Mets. Una volta andai a vederli, poco tempo dopo essere arrivato qui. Adesso li vedo in tv, quando capita. Il biglietto costa troppo.
- Davvero non te lo puoi permettere?
- Qui la vita non è facile. E’ vero, ci sono opportunità di lavoro per tutti, ma con che salari? Mi ammazzo di lavoro sei giorni la settimana per riuscire a pagare l’affitto di un misero bilocale a Brooklyn. Se alla fine del mese avanza qualcosa, e non sono rimasto con il frigorifero vuoto, mi prendo una scatola di sigari cubani.
- Così questa è la vita, a New York.
(C.J. adesso pensava ad alta voce.)
- Sì, anche. Ti dico una cosa: stringo i denti ancora cinque-sei anni e poi vado in pensione, e allora mando a fare in culo tutti questi figli di puttana, disse, indicando una ad una le auto che ci affiancavano a più riprese, secondo un ritmo costante, come fossero legate alla loro da un enorme elastico invisibile.
- E poi cosa farai?
- Ancora non lo so.
- Tornerai al tuo paese?
- Non ci ho ancora pensato. Ma oramai là non ho più nessuno, i miei parenti sono morti tutti. E’ rimasto solo qualche cugino di secondo grado.
- Mi dispiace, disse C.J., ricordandosi di non avere in precedenza nemmeno commentato del funerale della madre (come se fosse del tutto naturale fare le condoglianze ad uno sconosciuto quindici anni dopo la morte di sua madre.)
- Non che qui abbia poi così tanti amici. Due o tre colleghi con i quali ogni tanto si beve una birra al pub la sera, dopo aver smontato dal lavoro. Il fatto è che io sono un newyorkese, adesso.
L’auto sbucò da un lungo tunnel male illuminato, e, improvvisamente, apparve alla loro destra lo skyline di Manhattan al tramonto.
Uno spettacolo impressionante.
C.J. restò, quasi instupidito, a fissare a lungo quella teoria infinita di luci che si accendevano e si spegnevano ad intermittenza.
- La vedi là, Manhattan?, fece lui.
- Cristo, certo che la vedo.
- Capisci, adesso, quello che sto cercando di dirti?