sabato 29 marzo 2014

IL SOLE UCCIDE LA LUNA (PART. VI)

Tocca ripeterci. Che fuoriclasse, Mark Kozelek.
Solamente l’anno in corso è uscito addirittura con due album, entrambi notevolissimi. “Peril from the sea” è stato inciso con Jimmy la Valle, ovvero Album Leaf, polistrumentista da San Diego, e l’incontro ha avuto esiti bellissimi: malinconia sottile e cangiante, sound etereo e slowcore. Eccezionale anche la con i Desertshore del suo ex compagno di viaggio Phil Carrey. Qui l’atmosfera è meno rilassata e più elettrica, il tono meno monocorde, c’è spazio per cambi di ritmo e arrangiamenti pop.

Non siamo nemmeno a marzo che a sorpresa ecco il nuovo, sesto, Sun Kil Moon. La cover è un paesaggio anonimo, un anonimo scatto da un finestrino. L’album si apre con tre brani dalla struttura classica, ballate malinconiche dall’incerto incedere tipiche della produzione delle origini (Red House Painters). Ma il rischio della ripetitività è scongiurato con il crescendo dell’ottima “Dogs” e dal cantato accelerato di “Pray for Newton”.
“Jim Wise” è una filastrocca da carillon, mentre “I love my Dad” è un blues sudista (Mark non ha vergogna a omaggiare i suoi genitori, vedi anche “I can’t live without my mother’s love”, uno dei pezzi del primo lotto. Indice di maturità artistica e di raggiunta pace interiore, si dice in giro. Il suo disco più cupo, dicono altri.).
“I watched the film The songs remains the same”, lunga e ipnotica, con arpeggio a là Cohen, è un ricordo dell’infanzia oltre che un omaggio questa volta ai Led Zeppelin: l’album è ricco di citazioni di altri musicisti – prevalentemente britannici - come Doors, Stevie Nicks, David Bowie, Elvis Presley.
Sul finire i capolavori. “Richard Ramirez died today of natural causes” – storia di un serial killer californiano: “His last murder was south of San Francisco/A guy named Peter Pan from the town of San Mateo/A little girl in the Tenderloin was his first/In the laundry room took a dollar from her fist”- mette in mostra uno straordinario accavallarsi e rincorrersi di parti vocali e una coda strumentale sontuosa, “Micheline” è un indimenticabile e commovente ritratto di una ragazzina con problemi di apprendimento. Il tutto si chiude con la leggerezza jazzy (Steely Dan) di “Ben’s my friend”, dedicata al leader dei Death Cub For Cutie, con archi sullo sfondo.
Un grande disco americano, fatto di polvere, blues, camionisti (lo zio “Truck driver”, morto in un incendio il giorno del suo compleanno), alcool e delitti: “Jim Wise killed his wife out of love for her at her bedside/And then he put the gun to his head but he failed at suicide”.
Un disco di rara e intensa bellezza.
La versione deluxe ci regala ben cinque brani in versione live. A questo proposito, il nostro eroe sarà in Italia presto, prestissimo: il 4 aprile al Circolo degli Artisti (Roma), il 5 al Bronson (Ravenna), il 6 al Biko (Milano) e il 7 al Circolo Mame (Padova).

sabato 8 marzo 2014

ODIO I COMPLEANNI. UNA MIA INTERVISTA A CARTA RESISTENTE

Odio i compleanni.
Se penso a quando ero bambino: tutti gli anni la stessa storia.
Mio padre che rincasa a tarda sera, saluta con un cenno della mano, appoggia l’impermeabile sulla poltrona e siede al tavolo, aspetta in silenzio la zuppa riscaldata con i crostini abbrustoliti in padella, un bicchiere di vino rosso, freddo di frigo, e una ciotola di insalata ancora da condire. Mia madre che gli si fa accanto con sguardo severo. Ti sei dimenticato anche questa volta che è il compleanno del piccolo, sussurra, evidentemente per non farsi sentire da me, dal momento che in casa non c’è nessun altro, da me che sono sul divano del tinello a guardare i cartoni animati, con il volume al minimo, perché a papà viene il mal di testa.
Lui che mi si avvicina e dice: campione, adesso il papà torna in ufficio a prendere il tuo regalo. Sai, sono stato fuori città con un cliente. Non ne posso più di questa vita. Ma tu non ti preoccupare, campione. Rimedio in un battibaleno.
E poi via, una corsa disperata verso l’ultimo negozio aperto, mentre fuori è sera inoltrata, corsa che immancabilmente termina in autogrill, dove non gli resta che racimolare pupazzi di fabbricazione cinese.
Avevo un’intera collezione di quelli che suonavano le canzoni natalizie. E pensare che compio gli anni in aprile.


Giovanni Battista Menzani, L’odore della plastica bruciata (LiberAria)


I paesaggi e le situazioni che racconti sono “nostre”, ma nella tua scrittura, soprattutto in alcuni racconti, io sento le atmosfere di Ballard. Può essere? E quali sono gli scrittori stranieri che apprezzi?Ho scoperto Ballard al primo anno di università, un periodo, per me, di grandi mutamenti e di scoperte rivoluzionarie: ricordo la sensazione di libertà, la voglia di conoscere, la consapevolezza delle possibilità e delle opportunità. Lessi “Il condominio”, consigliatomi da una docente curiosa e aperta al dialogo. Mi piacque la sua tesi di fondo, ovvero la violenza latente che prima o poi sarebbe dovuta esplodere in una situazione apparentemente perfetta, in un mondo ideale; come successivamente in “Supercannes”. Poi lessi “Crash”, “L’isola di cemento” e soprattutto “La mostra delle atrocità”, che mi ha ricordato Burroughs.
Sicuramente Ballard mi ha influenzato: ha descritto come pochi altri i nuovi scenari della postmodernità.
Per rispondere alla seconda parte della domanda, prediligo gli americani contemporanei: Pynchon, Vonnegut, De Lillo, McCarthy, Carver, Foster Wallace.


I tuoi racconti sono definiti “surreali e grotteschi”, ma la realtà non è poi così lontana…Io penso che possano essere suddivisi in due filoni. Ci sono i racconti dalla vena più intimista e minimale, che derivano in buona parte da esperienze autobiografiche. Ci sono poi i racconti più surreali, situazioni dell’assurdo in cui alcuni aspetti della nostra società vengono enfatizzati e per così dire portati all’eccesso.
E tuttavia, questa realtà deformata ci suona tremendamente familiare.


Come mai hai scelto il racconto “L’odore della plastica bruciata” per dare il titolo al libro? E c’è un motivo sul fatto che è posto al termine della raccolta?In realtà la raccolta terminava con il racconto intitolato “Il vitello grasso”, cronaca di un ritorno a casa, una delle invarianti classiche della letteratura. È stata un’idea di Alessandra Minervini, il mio bravo e attento editor, quella di chiudere il volume con la title-track, per usare un termine discografico, ovvero con la storia più cruda e drammatica. Ha avuto ragione. E’ un finale apocalittico, con i due bambini che vengono sgridati dal padre perché disturbano il pubblico, impassibile, che assiste alle esecuzioni capitali. E poi da il titolo alla raccolta. Un titolo che rende un’idea di desolazione, di macerie. Di day-after.


Ogni tanto affiora anche il tuo mestiere, la tua formazione, che se non sbaglio è quello di architetto.È esatto. Devo spiegarti la genesi del libro.
Prima dell’esplosione dei social tenevo un blog sul quale appuntavo episodi di vita quotidiana, per lo più presi dalla mia attività di architetto. Rileggendoli, mi accorsi che mi piacevano. Così ritornai sui miei passi, lavorai sulla riscrittura e sullo stile, li smontai e rimontai. Infine inviai la raccolta a Giulio Mozzi di Einaudi, che mi incoraggiò, pubblicando sulla rivista Vibrisse un racconto intitolato “Real Estate”. Successivamente, grazie all’aiuto di Gabriele Dadati, proposi “L’odore della plastica bruciata” a LiberAria, editore indipendente e attento, che accettò con entusiasmo la pubblicazione.
La mia deformazione professionale mi ha forse portato, inoltre, a descrizioni particolareggiate degli ambienti interni e della città postmoderna, fatta di case diroccate e outlet di cartapesta, villaggi di baracche e quartieri residenziali suburbani, superstrade e autolavaggi: un’immensa periferia anonima e stereotipata.


Sei stato coinvolto sulla realizzazione della bella copertina illustrata da Vincenza Peschechera?No, però l’ho approvata senza esitazioni. Mi pareva bellissima. C’è la finzione, con quell’idea geniale della casa che diventa solo un’etichetta, un adesivo. Insomma, una cosa posticcia, falsa.


So che sei un appassionato di musica, cosa stai ascoltando negli ultimi mesi?Bon Iver, Wilco, James Blake, Arcade Fire. Ho recuperate vecchi amori come Weller e gli Smiths.
In questi giorni ho scaricato il nuovo di Beck. Ti saprò dire.


http://cartaresistente.wordpress.com/2014/03/07/lodore-della-plastica-bruciata-con-intervista-allautore/


Grazie a Fernando

#LaGrandeBellezza

Gente che scopre solo stamattina che il nostro è il paese dell'arte e della bellezza.

LA PRECARIETA', L'UNICA CONQUISTA DELLA SOCIETA' POSTMODERNA. UNA MIA INTERVISTA CON GLI AMANTI DEI LIBRI

La precarietà, l’unica conquista della società post-moderna”. 
Ho riassunto così L’odore della plastica bruciata, opera di Giovanni Battista Menzani, recensita qualche settimana fa da Gli amanti dei libri. Una raccolta di racconti che fotografa con ironia la nostra quotidianità e che merita un approfondimento. La parola, quindi, all’autore.

Presentati ai nostri lettori.
Ho quarantacinque anni e vivo sulle colline della val Trebbia con la mia famiglia, un cane e un gatto. Di mestiere faccio l’architetto e ho da sempre una grande passione per i libri e la musica rock. Quando incontrai per la prima volta il mio editore, mi fu chiesto chi erano gli autori che più mi avevano influenzato. Risposi Bob Dylan. Più seriamente, la letteratura contemporanea americana: Salinger, Carver, McCarthy, De Lillo, Pynchon, Foster Wallace, Eggers, Saunders, Palahniuk.

Come è nato “L’odore della plastica bruciata”?
Prima dell’esplosione dei social, che hanno travolto (quasi) tutto, tenevo un blog sul quale appuntavo episodi di vita quotidiana. Rileggendoli, mi accorsi che mi piacevano. Così ritornai sui miei passi, lavorai sulla riscrittura e sullo stile, li smontai e rimontai. Infine inviai la raccolta a Giulio Mozzi, scrittore ed editor di Einaudi, che mi incoraggiò pubblicando sulla rivista Vibrisse un racconto intitolato “Real Estate”. Successivamente, grazie all’aiuto di Gabriele Dadati, proposi L’odore della plastica bruciata a LiberAria, editore indipendente e attento che accettò con entusiasmo la pubblicazione.

Quale “filosofia” ti ha spinto a scrivere un libro così carico di sentimenti contrastanti?
“Se son d’umore nero allora scrivo/frugando dentro le nostre miserie”, cantava il poeta nostro. E’ probabile che sia così anche per me. Le storie che racconto sono tristi, è innegabile, e gli scenari spaventosi ed inquietanti. Tuttavia, in una società dove consumismo e avidità, cinismo e ipocrisia regolano tutti i rapporti, ho cercato anche di sottolineare l’umanità di alcuni personaggi, utilizzando l’arma dello humour e del paradosso. Ovvero ho creato delle situazioni grottesche e surreali che però risultano credibili: un mondo inventato e portato all’eccesso, che tuttavia è già il nostro mondo. Ho cercato, soprattutto, di creare empatia con i protagonisti delle mie storie: lo stesso spero si possa dire per i miei lettori.
Disagio, precarietà e ironia: questi gli elementi portanti della tua raccolta. Ma è davvero questa la società moderna?
Non esiste solo questo, ovviamente. Ma una società basata unicamente sul profitto porta con sé, inevitabilmente, delle storture, e io quelle vorrei raccontare. Vorrei dare una voce a chi solitamente non ne ha, cercando di evitare il pietismo e gli stereotipi. Mi è stato detto che i protagonisti delle mie storie sono dei losersalla deriva, dei perdenti che si rassegnano, non riescono a imporsi, non si ribellano a situazioni estreme che anzi subiscono quasi senza batter ciglio. Ma non sempre è vero. E comunque, può essere che siano degli “antieroi”, ma se mi guardo intorno di eroi ne vedo pochi.

Oltre ad essere l’ambientazione della maggior parte dei tuoi racconti, cos’è per te la periferia?
Nella città postmoderna tutto è periferia, è quasi impossibile operare ancora distinzioni con il centro. Negli ultimi tempi abbiamo assistito infatti al proliferare, secondo il modello imperante e omologante importato dagli USA, di centri commerciali, outlet e office-parks, multisale, alberghi e poli logistici, tristi monoblocchi rigorosamente isolati dal contesto mediante ampie distese di parcheggi e collocati in prossimità degli svincoli di tangenziali e strade ad alto scorrimento, in modo tale da essere facilmente accessibili dalle automobili. L’enorme libertà di movimento del mezzo di trasporto privato porta con sé elementi di degrado come l’isolamento dei soggetti più deboli, la scomparsa dello spazio pubblico, un paesaggio anonimo e desolante, fatto anche di baraccopoli posticce e infinite distese di villette tutte uguali, tutte con lo stesso indirizzo.

Oltre a L’odore della plastica bruciata, per me metafora di un mondo finto in decomposizione, cosa rimane dell’esperienza post-moderna?
Le macerie, ha scritto qualcuno.

Progetti per il futuro?
Sono un amante delle short stories. In questi giorni sto cercando faticosamente di completare la prima stesura di una nuova raccolta di racconti. Rispetto all’esordio, l’atmosfera è meno cupa, almeno così a me sembra. C’è spazio anche per l’amore e l’amicizia.

Un saluto ai nostri lettori.
Seguirò con affetto e attenzione il vostro lavoro, che è fondamentale per l’affermazione della cultura del leggere nel nostro paese.

http://www.gliamantideilibri.it/archives/37300
Grazie a Martino Ciano