sabato 18 gennaio 2014

UN LIBRO DENSO E DOLOROSO.

L'odore della plastica bruciata è una raccolta di racconti che lascia senza fiato. Per l'angoscia.
Un mondo nel quale sembra che non ci siano riferimenti reali e che invece racconta con freddezza tutti gli stereotipi, le crudeltà, le indifferenze del nostro paese.
Abbiamo a che fare con lavori sottopagati e degradanti in centri commerciali affollati e disumani, con insegnanti precari, con badanti che, oltre a pulire il culo dei nostri vecchi, conquistano anche un pezzo del loro cuore e poi vengono sistematicamente ignorate dagli eredi, con aspiranti 'vip' in preda alla massacrante routine dei reality, con istituzioni pignole, corrotte, indifferenti, con ex mariti rovinati, padri assassini, vendette, povertà e morte.
Non c'è speranza in questi racconti. I buoni sentimenti emergono ogni tanto, per venire subito spazzati via dalla straniante sensazione che niente stia andando come dovrebbe. Dal terribile sospetto che sia tutto vero quello che scrive Giovanni Battista Menzani.
A dispetto della brevità dei singoli racconti, non si tratta di un libro facile. Bisogna respirare tra un racconto e l'altro e rileggerne alcuni. È un libro denso, doloroso, che resta impresso e ha la capacità di andare a fondo nelle nostre paure e convinzioni.
Menzani, poi, scrive benissimo: freddo, va dritto al punto e non sbaglia mai. Ci accompagna in questo mondo alienato ma non troppo, in cui a volte sembra che manchi anche la luce, con uno stile semplice e un lessico perfetto.
Quello che mi ha colpita di più è però la rassegnazione dei personaggi, l'incapacità di ribellarsi a una via che sembra già segnata. Sì è parlato, a proposito di altri romanzi, di realismo e di fiumane che travolgono tutto. Qui, in questo libro, sembrano tutti già affogati. Da un pezzo.
Leggere L'odore della plastica bruciata serve, in ogni caso, per vedere che cosa stiamo diventando (perché sono ottimista e non voglio credere che siamo 'già' così) e per cercare di tornare indietro. E perché raramente si legge oggi una scrittura così diretta e semplice, ma al tempo stesso colta e carica di significato e di emozioni. Non si legge a cuor leggero, non lo si divora tutto d'un fiato. Si beve a piccoli sorsi, coraggiosamente.
(Recensione di Angela Del Prete, su www.i-libri.com)
Grazie

sabato 11 gennaio 2014

ALTRA RECENSIONE, SU LANKELOT.IT

L'odore della plastica bruciata è la prima raccolta di racconti di Giovanni Battista Menzani, dopo due saggi di architettura e la cura della Guida ai luoghi fantastici di Piacenza (per ed. Piacenzasera, o per Officine Gutenberg, si trovano notizie diverse) e il Dizionario Biografico Fantastico dei Piacentini Illustri (edito da Codex10) entrambe in coppia con Gabriele Dadati. Si può dire che questo libro segni il suo esordio narrativo in solitaria, credo, e un esordio coraggioso, come tutti quelli che si affidano alla forma del racconto, un po' perché nel panorama editoriale italiano le raccolte non antologiche mi sembrano abbastanza rare, e soprattutto per il fatto che scrivere racconti, scrivere buoni racconti, è estremamente difficile. Una raccolta, inoltre, lo è ancora di più, perché non basta essere capaci di dare vita ad un singolo buon racconto, cosa che può accadere a chiunque provi a scrivere, prima o poi, ma presuppone un'omogeneità eterogenea in cui ogni racconto, per quanto possa essere più o meno “diverso” da quello che lo precede e dal suo seguente, acquista forza e senso dal suo essere parte di un insieme, come atomi in una molecola. Tornando al libro in questione, nell'aletta di copertina si legge una frase che conferma il titolo (almeno per me, che lego quell'odore a cantieri e periferie notturne) “Un'immensa periferia globale e stereotipata fatta di svincoli autostradali, capannoni prefabbricati, outlet di cartapesta e cartelloni pubblicitari...”.
Si comincia: Con passo sicuro e costante andatura narra in prima persona le difficoltà di un commesso porta-pacchi in un grande centro commerciale, un commesso che si trasforma in mulo grazie ad una pesante tuta semimeccanica e il cui compito è quello di farsi caricare dai clienti gli acquisti sulla groppa e trasportarli dall'uscita del grande edificio fino alla loro macchina parcheggiata. Digressione: mi ricorda un romanzo, Nessuna esperienza richiesta, di G. Comuniello, edito da Intermezzi, in cui il protagonista dopo varie disavventure lavorative finisce con il “lavorare” come animale domestico. Nel secondo, A stomaco vuoto, è protagonista un'insegnante...a tempo precario indeterminato. In Kerosene ecco una badante dell'Est Europa che si vede trattare con poco rispetto dai parenti dell'uomo che ha assistito per anni. Si continua con frammenti di vite: dalla comparsa televisiva che vive in una sorta di “riserva” per comparse all'architetto che va a fare misurazioni di case su un terreno che, cambiato di proprietà, verrà destinato a nuove abitazioni con conseguente sfratto degli attuali abitanti, dagli ispettori delle Squadre Speciali per il Rilevamento dei Consumi, addetti a controllare che i cittadini spendano almeno la loro quota minima di denaro mensile per mandare avanti l'economia, al figliol prodigo che tornando a casa viene scambiato dal padre esteticamente modificato per un ladro, al mago per compleanni vittima dei genitori del festeggiato, ed altri ancora fino ad arrivare al racconto che dà il titolo a tutto quanto: siamo in un mondo in cui il passaggio all'età adulta viene segnato dalla visione di uno spettacolo.
L'autore gioca in economia, con gli ambienti, i personaggi, e non sbaglia, facendo de L'odore della plastica bruciata una buona raccolta, con una scrittura piana tesa a calare chi legge in ogni situazione descritta, a fargliela sentire reale anche là dove la realtà viene forzata e i racconti sembrano narrare una distopia, un futuro molto vicino, un presente parallelo. A seconda della distanza dal “reale” si possono così distinguere vari livelli, ma nella lettura si confondono, si sovrappongono, e quando si arriva alla fine possiamo quasi dire: è già così. Sappiamo che non è vero, reale, come sappiamo che potrebbe esserlo: vero, reale.
Eppure voltata l'ultima pagina mi sono accorto che mi era rimasta addosso una sensazione di note stonate. Dopo un ripasso veloce ho pensato a come mi ero sentito appena terminata la prima storia: ero molto curioso. Dopo la seconda, invece, la curiosità era diminuita. Come mai? Non una questione di qualità singola, ma di posizione reciproca. Quei due racconti, in quell'ordine, mi erano sembrati distanti, tanto distanti da recarmi una sorta di delusione. Se prendo il libro come molecola e i racconti come atomi, quei due accanto, secondo me, in quell'ordine, non legano. È qualcosa che ho sentito, ma in tono minore, anche in altre parti della raccolta, e mi fa pensare che forse la disposizione generale poteva essere diversa, tenendo come punto fermo il racconto finale. Anche solo lo spostamento del primo, forse, nella parte centrale, o nella seconda metà, sarebbe stato sufficiente, perché si avverte come un salto all'indietro iniziale, mentre dopo c'è una progressione più o meno costante. Impressioni, sensazioni. L'odore della plastica bruciata è una buona raccolta di racconti cui è mancato poco, per me, per essere qualcosa di più.
Termino con un'altra digressione: quando ho letto Con passo sicuro e costante andatura, mi è sembrata un'espressione già sentita o letta, così ho chiesto al motore di ricerca una mano, e sono finito su una pagina del sito agraria.org dedicata al mulo, che avevo già visitato tempo fa, e tra le altre cose dice “Se il mulo è proverbiale per la caparbietà e spesso per la cattiveria, in compenso compie il lavoro con grande energia e molta resistenza, anche sulle strade montane più impervie, con passo sicuro e costante andatura”. Un po' come chi scrive, più o meno.
(recensione di Andrea Brancolini).
Grazie

TREDICI COLTELLATE FEROCI

Nella raccolta di racconti L’odore della plastica bruciata di Giovanni Battista Menzani ogni parola è un pugno, ogni descrizione la desolazione, ogni periferia più grigia.
Grotteschi personaggi eseguono azioni e ragionano su pensieri al limite dell’accettabile, in una solitudine che fa paura ogni pagina di più. Ultimi che vivono la loro vita ai margini della normalità gestendo il vuoto delle loro esistenze riempiendolo di umanità e di commozione. L'uomo cavallo di peluche al centro commerciale che cade durante le ore di lavoro e a cui nessuno dà una mano, la badante abbandonata dai figli dell'anziano deceduto che hanno modificato il testamento per non lasciarle nulla neppure il gas e la luce nell'ultima settimana di permanenza nella casa in cui lei da sola si è presa cura dell'anziano, la precaria con i capelli opachi il cui amore è così stanco, come lei, da non poter essere provato. Storie senza passi avanti, storie che non cambiano la vita degli individui descritti ma che tagliano l'anima di chi legge in tanti pezzi. Non c'è speranza nell'Italia di Menzani, ognuno fa il meno possibile per essere felice. Si sopravvive, a stento, in una vita che non dà ragioni per essere soddisfatti ma, soprattutto, per essere vivi.
Menzani scrive con essenzialità, senza fronzoli. Non cerca di essere umano, così come i suoi personaggi non hanno risvolti di ottimismo o di speranza. Sono quadri vuoti su una parete bianca, la cui muffa è già entrata nei polmoni dei lettori dalla prima pagina. Una drammatica Spoon River che scorre nascosta dai capannoni che infestano ogni chilometro della via Emilia, in decadenti caseggiati soffocati dal cemento e dagli svincoli autostradali.
Un mondo che è il nostro e allo stesso tempo è altro. Un mondo all’eccesso, in cui cose che conosciamo crescono enormemente e giganteggiano, accettate dai personaggi come normali, senza ribellioni o fughe. Perché il loro è un mondo gigante, invisibile, che sta dentro il nostro.
Menzani, architetto al suo esordio letterario, gioca con le forme e le costruzioni di vite precarie in bilico su precari rapporti: con il denaro e con le persone che creano le reti delle nostre esistenze. Puzzle che si combinano tra di loro, emozioni che si assomigliano nella devianza che si accompagna a una opaca serenità, solitudini di linee arrugginite dal tempo, dalla mancanza di affetto, dalla perdita di certezza.
Un esordio affilato, senza scampo.
(recensione di Antonella Gigantino, su Scenecontemporanee.it).
Grazie.

RADIO TENEBRA

Le trasmissioni di Radio Tenebra sono udibili in tutta la provincia, esclusivamente durante le ore notturne. Nessuno conosce l’identità di Dj Nutria, la voce calda che accompagna da circa venticinque anni le notti dei piacentini attraverso una lunga diretta che va in onda, senza interruzioni, dal 1990. Inframmezzati da musica alternativa dei generi più disparati - su Radio Tenebra si può ascoltare dark, industrial, noise, death e black metal, e tale particolarità la si può considerare un caso più unico che raro per quanto riguarda la nostra provincia - i deliri del Dj corrono liberi senza sosta alcuna. 
Durante i suoi monologhi, Dj Nutria non risparmia nessuno, polemizzando su tutto ciò che riguarda la 
politica locale, la Chiesa e le abitudini dei piacentini. 
Una delle sue crociate più celebri riguardò l’accusa rivolta ai cittadini che non fanno nulla per vivacizzare le serate e le notti della città e della provincia. Lo slogan più famoso del Dj rimane infatti “una radio fantasma per una città morta”. La cosa curiosa è il fatto, consapevole o meno, di essere lui stesso una delle cause principali per la tipica inattività delle serate piacentine; sono tanti i giovani che non eescono di casa proprio per seguire la trasmissione. E non solo per quanto riguarda la musica e le parole del Dj, ma anche per il momento più seguito della diretta, che può variare fra l’una e le due e trenta: ma non passa notte in cui la calda voce di Dj Nutria non annunci ciò che tutti attendono. 
Il nome. 
Per ragioni che rimangono inspiegabili, ogni notte viene nominato un piacentino che, senza margine di errore o imprecisione, il giorno seguente troverà la morte. Che si tratti di un anziano ormai giunto alla fine del suo percorso o di un giovane che verrà coinvolto in un incidente, il nome viene sempre fatto. Tutti lo sanno e a tutti sta bene così, ansiosi di avere un’anticipazione dai connotati tanto macabri; d’altronde non è un mistero che i piacentini vivano uno strano rapporto con la morte, quasi confidenziale, che trova nella trasmissione di Radio Tenebra o nelle pagine dei necrologi di Libertà il suo apice.
La sede della radio è in realtà un semplice appartamento al piano rialzato di una palazzina di tre piani, con il rivestimento in piastrelle di klinker marrone.
Più volte le forze dell’ordine - o anche semplici fan - hanno tentato di visitare la stazione radiofonica 
durante la diretta, ma tutto ciò che hanno trovato al loro arrivo è un piccolo studio casalingo, ben attrezzato, ma la cui consolle è sempre, immancabilmente deserta.
I carabinieri sospettano che Dj Nutria usufruisca di un passaggio segreto per nascondersi, e di una serie 
di informatori che lo tengono aggiornato sui provvedimenti che lo riguardano. 
I vecchi di Carpaneto raccontano che in quell’edificio, alla fine degli anni Sessanta, è avvenuto un fatto bizzarro, ovvero un esorcismo, ma al riguardo la Chiesa non si è mai espressa. Raccontano di un ragazzino - che abitava proprio al piano rialzato, in quell’alloggio - che aveva cominciato a parlare in lingue strane e a manifestare comportamenti insoliti, come mettersi a urlare nel cuore della notte o picchiare contro le pareti. C’è chi ancora oggi è pronto a giurare che il bambino nei suoi deliri gridasse dei nomi; e le donne dicevano di farsi il segno della croce, perché se venivi nominato, significava che dovevi morire.
 
Note: 
Come ogni anno, anche l’ultimo Halloween ha visto la pubblicazione della consueta compilation di Radio Tenebra, assemblata da DJ Nutria; “Dead of Night - Volume XXIV” è disponibile presso i negozi di dischi della città e della provincia e attraverso la mail radiotenebra@yahoo.it. Anche in questa edizione nuove tendenze musicali si alternano a vecchi classici, per esempio il tenebroso rock dei Ghost o gli intramontabili Mercyful Fate, gli Excoriate o i Bauhaus. Presente un raro inedito degli ormai disciolti Reverend Bizarre. Come al solito la tiratura è limitata a 666 copie numerate a mano con inchiostro (?) rosso sangue.
 
Pietro Gandolfi è nato e vive a Piacenza; a Pietro piacciono la letteratura horror, i fumetti, l’Heavy Metal e i film pieni di sangue. Pietro ha una band in cui canta, i Bringer of War, e ha pubblicato due libri, “Dead of Night” e “La ragazza di Greenville”. Pietro adora la birra e la pizza e se potesse uscirebbe di casa solo per andare al cinema e ai concerti. Pietro ama gli animali, in particolare i conigli (e la cosa compromette seriamente la sua fama di “autore nero”); Pietro si considera “analogico” e utilizza il computer in una maniera imbarazzante, ma alla fine va bene così. Pietro ama la sua città, perché se osserva bene è capace di trovare un lato oscuro anche fra le vie del centro o in qualche paesino sperduto sulle colline piacentine.

BUONI PROPOSITI PER IL NUOVO ANNO, da MINIMA&MORALIA lo straordinario discorso di George Saunders agli studenti

Nel corso degli anni si è andata affermando una tradizione per questo tipo di discorsi, che potremmo sintetizzare come segue: un vecchio noioso e antiquato, con i migliori anni ormai alle spalle, che nel corso della sua vita ha commesso una serie di errori madornali (che sarei io), dà consigli dal profondo del cuore a un gruppo di giovani brillanti e pieni di energie che hanno davanti a sé i loro anni migliori (che sareste voi). E io intendo rispettare questa tradizione.
Ebbene, una delle cose più utili che si può fare con una persona anziana – oltre a prendere soldi in prestito o chiederle di eseguire uno dei “balli” dei suoi tempi, così da poterla osservare facendosi due risate – è chiederle: “Ripensando al passato, di che cosa ti rammarichi?”. E lei te lo dice. In qualche caso, come ben sapete, te lo dice anche se non glielo chiedi. In qualche altro caso ancora te lo dice perfino quando hai specificatamente chiesto che non te lo dica.
Bene: di che cosa mi rammarico? Di essere stato povero, di quando in quando? Non proprio. Di aver fatto mestieri tremendi, come “estrarre le articolazioni” in un mattatoio? (Che non vi venga assolutamente in mente di chiedermi che cosa ciò comporta.) No. Non mi rammarico di ciò. Di essermi tuffato senza nulla addosso in un fiume di Sumatra, un po’ alticcio, e di aver guardato in alto, e di aver visto qualcosa come trecento scimmie sedute su una tubatura intente a cagare di sotto, nel fiume, proprio quello nel quale stavo nuotando io, con la bocca spalancata e tutto nudo? E di essermi ammalato in seguito a ciò, e di essere stato male per i sette mesi successivi? Non proprio. Mi rammarico forse di aver fatto qualche sporadica figuraccia? Come quella volta che giocando a hockey di fronte a una gran folla – in mezzo alla quale c’era una ragazza che mi piaceva davvero tanto – caddi a terra emettendo un bizzarro suono stridulo, e non so come riuscii a segnare nella porta della mia squadra e al tempo stesso a scaraventare il bastone in mezzo alla folla e a colpire proprio quella ragazza? No. Non mi rammarico neppure di questo.
In verità mi rammarico di un’altra cosa: in seconda media nella nostra classe arrivò una ragazzina nuova. Nel rispetto della privacy, diciamo che il nome col quale ci fu presentata fu “Ellen”. Ellen era piccola, timida. Indossava occhiali blu dalla montatura a occhi di gatto, del tipo che all’epoca portavano soltanto le signore anziane. Quando era nervosa, in pratica quasi sempre, aveva l’abitudine di mettersi una ciocca di capelli in bocca e di masticarla.
Insomma, arrivò nella nostra scuola e nel nostro quartiere, e per lo più fu del tutto ignorata, in qualche caso presa in giro (“Sono saporiti i tuoi capelli?” e altre battute del genere). Mi rendevo conto che questo la feriva. Ricordo ancora come appariva dopo una villania di questo tipo: teneva gli occhi bassi, se ne stava un po’ ripiegata, come se avesse ricevuto un calcio nello stomaco, come se essendole appena stato ricordato il posto che occupava cercasse, per quanto possibile, di scomparire. Dopo un po’ scivolava via, con la ciocca di capelli ancora in bocca. A casa, dopo la scuola, immaginavo che sua mamma le chiedesse cose del tipo: “Come è andata oggi, tesoro?”. E lei rispondesse: “Oh, bene”. E sua madre forse le chiedeva anche: “Hai stretto amicizie?”, e lei rispondesse: “Sicuro, molte”.
Talvolta la vedevo bighellonare tutta sola nel giardino anteriore di casa sua, come se fosse timorosa di uscirne. E poi… Poi traslocarono. Ecco tutto. Nessuna tragedia. Nessuna grande presa in giro finale. Un giorno era lì, il giorno dopo era sparita. Fine della storia.
Ebbene, perché mai mi rammarico di ciò? Perché a distanza di quarant’anni ripenso ancora a quell’episodio? Rispetto alla maggior parte degli altri ragazzini, in realtà, io mi ero comportato abbastanza gentilmente con lei. Non le ho mai detto niente di sgradevole. Anzi, in qualche caso l’ho addirittura difesa (un po’). Eppure… Mi dispiace.
Ecco, questa è una cosa vera che adesso so di sicuro, anche se si tratta di qualcosa di un po’ trito e non so con esattezza che farne: ciò che rimpiango di più nella mia vita è aver mancato di essere gentile. Mi riferisco a quei momenti in cui davanti a me c’era un altro essere umano, addolorato, e io ho reagito… assennatamente. In modo riservato. Bonario.
Oppure, se vogliamo vedere le cose dall’altra parte, potremmo chiederci: chi ricordi con maggior affetto nel corso della tua vita? Con la più innegabile sensazione di cordialità? Quelli che sono stati maggiormente gentili nei tuoi confronti, scommetto.
Sarà forse un po’ semplicistico, e sicuramente difficile da mettere in pratica, ma direi che come obiettivo nella vostra vita fareste bene a “cercare di essere più gentili”.
Ed eccoci alla domanda da un milione di dollari: qual è il nostro problema? Perché non siamo più gentili? Questo è quanto penso io in proposito:
Ciascuno di noi viene al mondo con una serie di malintesi innati che quasi certamente hanno un’origine darwiniana. Mi riferisco a: 1) noi siamo il centro dell’universo (in altri termini, la nostra storia personale è la storia più importante e interessante al mondo. Anzi, in realtà è l’unica storia che conti); 2) noi siamo qualcosa di diverso e distinto dall’universo (sì, certo ci siamo noi e poi, laggiù, c’è tutto il resto, cani e altalene e lo Stato del Nebraska e le nuvole basse e, sì, è vero, anche tanta altra gente); e 3) noi siamo eterni (la morte esiste, sì, certo, ma riguarda te, non me).
Ebbene, noi non crediamo veramente a queste cose – a livello intellettuale non siamo certo così ingenui – ma ci crediamo a livello viscerale, e viviamo in modo conforme a ciò che crediamo, al punto che queste cose fanno sì che noi riteniamo prioritarie le nostre esigenze rispetto a quelle altrui, anche se ciò che vogliamo davvero, nel profondo dei nostri cuori, è essere meno egoisti, più consapevoli di quello che sta accadendo nel momento presente, più aperti, più amorevoli.
Ed eccoci alla seconda domanda da un milione di dollari: come possiamo riuscire a fare una cosa del genere? Come possiamo diventare più premurosi, più aperti, meno egoisti, più presenti, meno deludenti e così via?
Già, bella domanda…
Purtroppo, mi restano soltanto tre minuti ancora…
Lasciate dunque che vi dica questo: il modo c’è. Voi già lo sapete, del resto, poiché nella vostra vita avete conosciuto periodi di Grande Gentilezza e periodi di Poca Gentilezza, e già sapete che cosa vi ha spinti verso i primi e lontano dai secondi. Una buona istruzione serve. Immergersi in un’opera d’arte serve. Pregare serve. Meditare serve. Una chiacchierata schietta con un caro amico serve. Sentirsi parte di una tradizione spirituale serve. Riconoscere che ci sono state innumerevoli persone davvero intelligenti prima di noi che si sono poste queste stesse domande e ci hanno lasciato le loro risposte serve.
Il fatto è che si finisce con lo scoprire che essere gentili è difficile. Perché essere gentili all’inizio è essere tutti arcobaleni e cucciolotti, ma poi si espande, fino a includere… beh, proprio tutto.
Una cosa gioca a nostro favore: parte di questo diventare più gentili capita naturalmente, con l’età. Può trattarsi di una semplice questione di logoramento: a mano a mano che invecchiamo impariamo ad accorgerci di quanto sia inutile essere egoisti. Di quanto sia illogico, davvero. Iniziamo ad amare il prossimo e così facendo riceviamo una sorta di contrordine in merito alla nostra centralità. La vita reale ci prende a calci nel sedere, e la gente accorre in nostra difesa e in nostro aiuto, e così impariamo che non siamo separati dagli altri, né vogliamo esserlo. Vediamo le persone a noi vicine e a noi care indebolirsi, e poco alla volta ci convinciamo che forse anche noi un giorno saremo più deboli (un giorno, tra tanto tempo). La maggior parte delle persone, quando invecchia, diventa meno egoista e più amorevole. Penso che sia proprio vero. Il grande poeta di Syracuse Hayden Carruth quasi al termine della sua vita in una poesia scrisse di sentirsi “per lo più amore, ormai”.
Ed eccovi la mia previsione, il mio augurio di tutto cuore per voi: a mano a mano che invecchierete, il vostro Io diminuirà e crescerete nell’amore. L’IO sarà sostituito poco alla volta dall’AMORE. Se avrete figli, quello sarà un momento di enorme rimpicciolimento della vostra centralità. A quel punto non vi interesserà più ciò che accadrà a voi, purché siano loro a beneficiarne. Questo è uno dei motivi per i quali i vostri genitori oggi sono così orgogliosi e felici. Uno dei loro sogni più caramente accarezzatisi è trasformato in realtà: voi avete portato a compimento qualcosa di difficile e di tangibile che vi ha fatto crescere come persone e vi renderà la vita migliore, da adesso in poi, per sempre.
Congratulazioni, a proposito!
Da giovani siamo impazienti, come è giusto che sia, di scoprire se possediamo tutto ciò che ci serve. Ce la faremo? Riusciremo a costruirci una vita degna di questo nome? Ma voi – in particolare voi, di questa generazione – forse avrete notato un certa qualità ciclica in questa ambizione. Andate bene al liceo nella speranza di riuscire a entrare in una buona università, così da andare bene all’università nella speranza di riuscire a ottenere un buon posto di lavoro, così da poter svolgere bene il vostro lavoro nella speranza di riuscire a…
E tutto ciò è sicuramente ok. Se dobbiamo diventare più gentili, questo processo include il fatto di prenderci sul serio, in qualità di persone che agiscono, che portano a termine le cose, che sognano. Sì, dobbiamo fare proprio questo: essere il meglio di ciò che possiamo essere.
Tuttavia, il successo è inaffidabile. “Avere successo”, a prescindere da ciò che può voler dire per voi, è difficile, e la necessità di farlo sempre si rinnova di continuo (il successo è come una montagna che continua a innalzarsi nel momento stesso in cui la scaliamo), ed esiste il pericolo molto concreto che per “avere successo” sia necessaria la vita intera, mentre le grandi domande restano senza risposta.
Ed eccovi dunque un consiglio veloce, per congedarmi al termine di questo discorso: dato che secondo la mia opinione la vostra vita sarà un viaggio che vi porterà ad essere più gentili e più amorevoli, sbrigatevi. Fate presto. Iniziate subito. In ciascuno di noi c’è un equivoco di fondo, un vero malessere in verità. Si tratta dell’egoismo. Ma la cura esiste. Siate quindi gentili e proattivi e addirittura in un certo senso i pazienti di voi stessi – cercate le medicine più efficaci contro l’egoismo, cercatele con tutte le vostre energie, per tutto il resto della vostra vita.
Fate tutte le altre cose, quelle ambiziose – viaggiare, diventare ricchi, acquistare fama, essere innovativi, essere leader, innamorarsi, fare fortuna e perderla, nuotare nudi nei fiumi in mezzo alla giungla (dopo aver controllato che non ci siano in giro scimmie che cagano) – ma qualsiasi cosa farete, nella misura del possibile eccedete in gentilezza. Fate ciò che vi può indirizzare verso le risposte a quelle grandi domande, cercando di tenervi alla larga dalle cose che possono sminuirvi e rendervi banali. Quella luminosa parte di voi che esiste al di là della vostra personalità – la vostra anima, se credete – è tanto luminosa e brillante quanto nessun’altra. Luminosa come quella di Shakespeare, luminosa come quella di Gandhi, luminosa come quella di Madre Teresa. Sbarazzatevi di tutto ciò che vi può tenere lontani da quella luminosità nascosta. Credete nella sua esistenza, cercate di conoscerla meglio, coltivatela, condividetene incessantemente i frutti.
E un giorno, tra 80 anni, quando voi ne avrete 100 e io 134, quando saremo tutti così gentili e premurosi da risultare quasi insopportabili, scrivetemi due righe. Fatemi sapere come è stata la vostra vita. Spero tanto che mi scriviate: è stata meravigliosa.
Congratulazioni, laureati del 2013.
Vi auguro tanta felicità, tutta la fortuna del mondo e un’estate splendida.
 © George Saunders, 2013 – Tutti i diritti riservati