lunedì 9 gennaio 2012
Archiviato l’anno appena trascorso con il trionfo annunciato – almeno per il pagellone di PiacenzaSera – di Justin Vernon aka Bon Iver, meritatamente un gradino o due sopra Wilco, P.J. Harvey, St. Vincent e James Blake, non resta che recuperare alcuni lavori assolutamente misconosciuti ma interessanti che, per ragioni di spazio, abbiamo in passato colpevolmente ignorato.
Ma anche qui non c’è spazio per tutti – verrebbero in mente i transalpini M83, i danesi Iceage, poi i Tuneyards, i Gang Gang Dance e anche il secondo album di Antlers, progetto solista di Peter Silberman, da Brooklyn – e dunque siamo costretti a scegliere solamente due titoli: Girls e Dirty Beachers.
I primi arrivano da San Francisco e sono capitanati da Christopher Owens, hipster magro e biondo con una biografia che sembra scritta da un Frank Capra in acido: orfano di padre in tenerissima età, cresciuto dalla setta religiosa Children of God dopo aver girovagato per anni con la madre prostituta, infine adottato da un milionario di Beverly Hills, che non si sa se è un lieto fine.
Il loro rock chitarroso e abrasivo si richiama alla migliore scuola americana anni ’80, epoca pre-grunge: Husker Du e Replacements.
Si ascoltino Vomit – il primo singolo estratto dall’album, un lungo lamento che fa pensare a Nick Cave – poi My Ma (palesemente ispirata dal Neil Young di Rust Never Sleeps), la cavalcata psych Die e la melodica Just a Song.
Quello di Alex Zhang Hungtai aka Dirty Beaches è invece un dischetto sporco e imperfetto (dura poco più di venti minuti, ma attenzione: è un vero gioiellino) scovato grazie a Sentire Ascoltare, che lo ha inserito tra le rivelazioni del 2011. L’atmosfera – lo dice il titolo – dovrebbe essere ispirata allo Springsteen crepuscolare di Nebraska. Si sente l’influenza anche dello psichobilly distorto e scomposto di Cramps e Suicide e della canzone d’autore di scuola francese; con echi di romanticismo tenebroso da Giant Sand, Portishead e Tindersticks.
Un grande dischetto.
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