sabato 20 febbraio 2010


Due anni fa fu il turno dei Portishead, amici-rivali di sempre e co-fondatori della cosiddetta scena di Bristol. Tornarono - dopo oltre dieci anni di silenzio - e lo fecero con un disco eccezionale, “Third”, premiato anche da PiacenzaSera come miglior disco del 2008.
Il colpo non riesce del tutto ai Massive Attack.
Sette anni dopo “100th Window”, questo nuovo album – anticipato pochi mesi fa dall’Ep “Splitting The Atom”, un trip hop apocalittico che sembra cantato dal Cohen penultima maniera (quello di “The Future”, insomma) – è un’opera discontinua e bella a metà.
Intendiamoci, i Massive Attack hanno classe sopraffina.
I pezzi di “Heligoland” (è un’isola del Mare del Nord, presso Brema, Germania) sono lavorati con estrema accuratezza e grande mestiere da Robert 3D Del Naja e Grant Daddy G Marshall, e spesso rasentano la perfezione tecnica.
Il rientro alla base di quest’ultimo, poi, garantisce una profusione di dub e di potenti giri di basso, oltre a restituire alla loro musica quell’anima black - e quell’atmosfera cupa e persino un po’ inquietante - smarrita all’inizio del nuovo millennio.
Tuttavia.
Tuttavia, in diversi episodi della raccolta il loro sound risulta troppo levigato, troppo etno-chic, e la loro consueta eleganza “stilosa” rischia di sfociare in un manierismo patinato e mainstream, finendo per emozionare poco o niente.
E poi c’è questa mania delle ospitate.
Stucchevole è infatti l’elenco delle guest-star: tra i piu’ convincenti, Tunde Adebimpe dei TV On The Radio (l’opener “Pray For Rain”, un irresistibile groove tribale e concitato), Guy Garvey degli Elbow nella rarefatta e ipnotica “Flat Of The Blade” e la strepitosa Hope Sandoval in “Paradise City”, mentre Damon Albarn se la cava con apparente svogliatezza (Blur, Gorillaz) nel tutto sommato prevedibile brit-pop di “Saturday Come Slow”.
Convincono poco la scontatissima “Girl I Love You” con il fidato vocalist reggae Horace Andy e anche i due brani cantati da Martina Topley-Bird (“Babel” e la goticheggiante “Psiche”, molto meglio la seconda della prima, a dir la verità).
Infine, scivolano via innocue le ballate elettro-dance “Rush Minute” e “Atlas Air”, perfetta colonna sonora di un happy hour in un Buddha Bar dell’hinterland metropolitano.

Si ha la sensazione. insomma, che “Heligoland” sia un disco da lasciare in sottofondo, lanciandolo con il mouse sul lettore Real Player, magari mentre si sta chiudendo una complicata contabilità di fine semestre oppure lavorando alla stesura di una relazione tecnica o, ancora, mentre si sta chattando con gli amici su Skype.
Magari ci scappa anche una telefonata, e allora siamo costretti ad abbassare il volume delle casse.
Alla fine possiamo pure rialzare l’audio, certi di non avere perso il filo del discorso e di poter ricominciare tutto da capo.

sabato 13 febbraio 2010


Ecco cosa diceva sempre il mio allenatore, all’epoca – purtroppo remota – degli Esordienti: “Di giocatori buoni ce n’è da far la siepe al Po, ma i veri fuoriclasse puoi contarli sulla punta delle dita”.
E il vecchio Arcangelo (sessant’anni proprio oggi, il 13 febbraio) è – a mio giudizio - uno di quelli.
Beh, io non sono proprio un tipo imparziale. Ho assistito al mio primo concerto dei miei amatissimi Genesis nel 1982, quando l’antico leader ormai se ne era andato da un pezzo, e il primo album in assoluto che acquistai da Alphaville fu proprio Peter Gabriel – IV. Era il periodo di Mister Fantasy, storica trasmissione tv condotta da Carlo Massarini, e il nostro - travestito da scimmia- si divertiva a lanciarsi con una liana sulla platea azzimata dell’Ariston di Sanremo, schiantandosi contro il bordo del palco.

Dopo otto anni di silenzio, l’anziano fuoriclasse torna con un album di sole cover, in versione rigorosamente acustica, o meglio accompagnato solamente da un’orchestra sinfonica (“No drums and no guitars", si legge sul suo sito ufficiale).
L’idea non è nuova.
Recentemente, lo ha fatto Patti Smith, e poi i Lemonheads, qui da noi Franco Battiato con i suoi Fleurs.
Inoltre, in genere è indice di scarsa ispirazione.

E invece il risultato è tutt’altro che noia.
La raccolta si apre con un pezzo sacro, la mitica Heroes di David Bowie, qui in una versione quasi chiesastica con arrangiamento di organo e archi, grandioso e magniloquente, e si chiude con una Street Spirit (Radiohead) appena sussurrata, quasi à la Wyatt.
E in mezzo, è tutto un gran godimento, dalla già nota The Book Of Love dei Magnetic Fields – dei quali è fresco di stampa il nuovo album, intitolato Realism – alla superba versione di Listening Wind dei Talking Heads dell’amico David Byrne. Stupisce la qualità dei brani scelti da Gabriel, che svaria dai grandi classici (Lou Reed, Neil Young, Paul Simon, Randy Newman), dei quali spulcia nel repertorio minore, agli alfieri del nuovo rock, versante piu’ intellettuale (Arcade Fire, Elbow, Bon Iver e la cantautrice di origine russa Regina Spektor), mentre dalla track-list che girava ufficiosamente sino a poco tempo fa è – disdetta! - uscita Waterloo Sunset dei Kinks.

Ma qui c’è di piu’.
Gli artisti omaggiati da Gabriel si sono impegnati a restituire il favore, tramite una sorta di baratto musicale (song swapping), raccogliendo in un secondo album le loro versioni di brani – celebri o meno - di Gabriel.
Il tutto nel segno dell’ironia: se il titolo di questo disco suona come “Grattami la schiena”, l’altro si intitolerà I’ll Scratch Yours : “Io gratterò la tua”.
Stephin Merritt dei Magnetic Fields ha già inciso la sua versione di Not One Of Us di Gabriel - è la B-side del singolo di lancio The Book of Love - e le prime indiscrezioni dicono che la stessa cosa si appresta a fare Paul Simon, con l’immortale Biko (scelta scontata, per l’autore di Graceland).
Divertiamoci allora a indovinare le scelte degli altri artisti chiamati in ballo dal genio di Bath.
Questi gli abbinamenti proposti da noi di PiacenzaSera:

Elbow – Here Comes The Flood
Talking Heads – I Have The Touch o San Jacinto
Lou Reed – Games Without Frontiers
Bon Iver – Red Rain
Magnetic Fields – The Carpet Crawlers
Arcade Fire – I Know What I Like (In Your Wardrobe)
Neil Young – Solsbury Hill o Family Snapshot
Randy Newman - The Cinema Show o Blood Of Eden
Regina Spektor - Dusk
Radiohead – The Musical Box

venerdì 5 febbraio 2010


Artista prolifico come pochi, Mark Oliver Everett.
A pochi mesi di distanza dall’ottimo “Hombre Lobo” – classificatosi al secondo posto nel pagellone di PiacenzaSera dello scorso anno – Mr. E torna con un nuovo lavoro intitolato “End Times”.
Il sospetto che si potesse trattare di una raccolta di B-sides, outtakes ed episodi minori era forte, dato il poco tempo a disposizione.
E invece il nostro eroe – accompagnato come sempre dai suoi fidati Eels - supera l’ennesimo esame con un album spoglio ed essenziale, permeato dall’inizio alla fine da un grande senso di vuoto e di abbandono. Un album che lo conferma come il miglior erede di una stirpe di cantautori intimisti ed esistenzialisti, di loner (“L’epitaffio inciso sulla mia tomba: qui giace un uomo che voleva semplicemente restare solo”), da Leonard Cohen a Nick Drake, da Neil Young a Tim Buckley.
Ispirata da una cocente delusione d’amore (“Lei è molto carina, ma adesso sene è andata!”), la vena malinconica di Mr. E – ritratto sulla cover dal fumettista Adrian Tomine nelle vesti di un anziano signore barbuto – si esprime ai consueti, altissimi, livelli in struggenti ballate pianistiche – “A line in to the dirt” e “I Need A Mother” – e in brani acustici come la dylaniana “Mansion Of Loz Feliz” e “In My Younger Days”, oltre che nella title-track con la quale sembra voler fare un primo bilancio (negativo) della sua esistenza. Ancora, l’armonica a bocca e una chitarra in stile West Coast accompagnano “Nowadays”, mentre l’atmosfera è piu’ sognante nella opener “The Beginning”.
L’amore per il blues e per le radici americane emergono a piu’ riprese nella tradizionale “Paradise Blues”, un pò Springsteen, e in pezzi atipici – quasi senza percussioni - come “Gone Man” e “Unhinged”, ancora fortemente influenzata dal lo-fi del primo Beck, utili se non altro a spezzare la tensione.
Tensione che aleggia sulle conclusive “Little Bird” - il primo singolo estratto, distribuito gratuitamente attraverso il sito - e “On My Feet” (“sto uno schifo dentro, non è che sia granché facile camminare sulle mie gambe ora come ora, ma sono certo di aver vissuto anche di peggio”) in grado di riportarci – tranquillamente, però – nella piu’ cupa disperazione.