Scorre per tutti, inesorabilmente. Ma non per tutti alla stessa
velocità. Il mio cane, ad esempio. Zoppo e spelacchiato, abbaia rauco
che sembra più una foca, che un cane. Per lui il tempo scorre più
rapidamente. Lo stesso accade per le bands.
Tra quelle emerse a inizio millennio in Gran Bretagna, ecco di nuovo in pista i Franz Ferdinand.
Artefici di un art-rock molto influenzato dal funky e dai Talking
Heads, gli scozzesi tornano con un album dalla consueta grafica
costruttivista e zeppo di brani ballabili, ridondanti, purtroppo schiavi
di una formula ormai scontata e che invece tendono a ripetere
all’infinito. Senza sussulti.
Discorso diverso per gli Editors.
Il gruppo di Birmingham si smarca dall’accusa di essere un clone
dei Joy Division e vira, dopo la sfortunata parentesi elettronica del
penultimo e assai deludente “In this light and on this evening”, verso
un sound AOR e verso un’epica da stadio. La critica, spietata, cita U2,
Muse e Coldplay.
Peccato, perché le bonus track acustiche, “Hyena” e “Nothing”,
lasciano intravvedere nuovi percorsi, se decidessero di abbandonare
enfasi e magniloquenza.
Se la cavano egregiamente, invece, gli Arctic Monkeys, anche loro come gli Editors al quinto disco (i FF al quarto).
La band di Sheffield abbandona l’indie degli esordi ed emigra in
America. Il suono ora è più maturo, scarno ed essenziale, la scrittura è
più complessa, i temi più profondi.
L'album - semplicemente intitolato AM - si apre con una
spettacolare doppietta, “Do I wanna Know?” (atipico primo singolo) e “R U
Mine?”: due domande, come a dire, risposte non ne abbiamo.
“One for the road” è fiacca, ma non c'è tempo per recriminare.
“Arabella” e la lennoniana “No. 1 party anthem” sono tra i pezzi più
convincenti, e tra loro “I want it all” scorre tutto sommato innocua.
La seconda metà soffre il rischio della ripetizione e appare nel
suo complesso meno urgente, anche se un cenno lo meritano “Fireside” e
l’altro singolo “Why’d you only call me when you’re high”, mentre “Knee
socks” sembra rubare l'intro a “Miss you” degli Stones e la mielosa “Mad
sounds” termina - tra organi sixties e una chitarra dolcemente ripegata
su sè stessa - in un Ullallà-ù di cui le scimmie artiche sembrano non
avere vergogna, ed è una dimostrazione di maturità raggiunta (chissà
cosa ne penseranno i fan della prima ora, quelli del clubbing più duro).
* Jennifer Egan
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