domenica 25 aprile 2010
Cancrena, 04
Negli ultimi tempi, il vecchio si reggeva a malapena in piedi.
Tuttavia, non voleva che lo aiutassi.
Con le stampelle se la cavava benissimo, sosteneva lui.
E invece metteva il culo giu' in terra in continuazione, e poi restava lì delle ore, senza chiedere aiuto, in attesa degli eventi. Si faceva venire dei lividi bluastri grandi come delle padelle.
Lo so bene io - quante volte ho dovuto pulirglelo, quel suo culo flaccido.
Lui restava lì, in posizione supina dentro la vecchia vasca dai bordi increspati e dal fondo ingiallito, a tremare come un neonato.
Era morto nel sonno, all'alba di un bellissimo giorno di fine estate, mentre nei campi di erba medica già cantavano i grilli e le cicale.
Non c'era stato bisogno di autopsia o di esami particolari. Arresto cardiaco: questa la diagnosi del medico di famiglia, un uomo grassoccio e stempiato con un unico vestito di flanella grigia, che puzzava di sigari di bassa marca. Viveva da solo in un appartamento di dodici locali, completamente vuote, che aveva ereditato dalla facoltosa madre. Sotto la sua abitazione c’era l’ambulatorio, una piccola stanza buia e poco areata: l’unica finestra, di dimensioni minuscole, dava su un tetro cavedio per gli impianti condominiali.
C'era da aspettarselo, aveva commentato - scrollando la testa in segno di disapprovazione - il dottore, appena prima di salutare frettolosamente i primi parenti convenuti sul posto.
Tutti, in famiglia, avevano sofferto di problemi di circolazione.
Il padre era morto d'infarto, quando lui ancora portava i calzoncini corti e un paio di sandali scalcinati, e passava i suoi pomeriggi a inseguire le anatre starnazzanti nell'aia polverosa.
Per tutta la vita aveva provato a ricordarselo, suo padre, ma tutto quello a cui riusciva a pensare era un sorriso stanco, un patetico riporto di capelli unti sulla fronte stempiata e due occhi gelidi e distanti.
Oppure a quella volta che, da bambino, aveva sfondato il solaio del fienile ed era caduto di sotto, in mezzo ai liquami della stalla, e il padre l'aveva picchiato con la cinghia dei pantaloni.
Questo lo ricordava bene.
E anche le barrette di cioccolato bianco che suo padre nascondeva nel cassetto della scrivania del suo studio, e che ogni tanto gli dava dopo cena, senza farsi vedere da sua moglie che non approvava per niente.
E lui che zappava nell'orto poco dopo il tramonto.
E le due sterline d’oro che gli aveva regalato per la prima comunione.
Era andata ancor peggio allo zio di suo padre, stimato penalista in pensione e insignito - con cerimonia ufficiale - di una medaglia al valore e del titolo di cavaliere.
Una rara malattia lo aveva costretto su una carrozzella. Il sangue aveva progressivamente smesso di circolare nelle sue vene e i muscoli si erano pertanto atrofizzati, sino ad incancrenirsi: uno dopo l’altro, i medici erano stati costretti ad amputargli tutti e quattro gli arti, prima le gambe e poi le braccia.
Così facendo, avevano creato un mostro - un’assurda e miserabile larva umana.
Lo zio trascorreva il suo tempo su una carrozzella, parcheggiata sotto la pianta del fico, borbottando sommesse e oscene litanie.
Una volta addormentato, il mollusco – questo era il gentile nomignolo affibbiatogli dai figli dei mezzadri - costituiva un facile bersaglio e, così, nascosti dietro la siepe, i teppistelli lo colpivano ripetutamente con pirioli di carta sparati da cerbottane di plastica dura. Talvolta il piriolo veniva incendiato con un cerino appena prima del lancio, oppure veniva dotato di uno spillo, sadicamente infilato proprio nella punta del cono costruito con vecchi giornali. Nelle torride giornate d’estate, lo zio era il facile obiettivo di fitti lanci di gavettoni d’acqua dal balconcino del bagno del primo piano. Non solo, accerchiato al centro dell’aia, sopportava con eroica pazienza l'assedio di una tribu' di mocciosi travestiti da pellerossa, con le piume delle galline appena spennate sulla testa.
Il vecchio mi aveva piu' volte raccontato della faccia atterrita di suo zio quando, appena svegliatosi da una pennica pomeridiana, si ritrovò alcune pelli di fico spalmate sul cranio lucido.
Da quell’improvvisato copricapo, viscido e vellutato, il succo dei frutti colava sulle guance del vecchio, mescolandosi con lacrime amare di umiliazione.
sabato 24 aprile 2010
I texani Midlake sono tra le bands piu’ attive del momento.
Pochi mesi orsono è uscito per la label Bella Union il loro terzo album (“The Courage Of Others”), con il quale sembrano aver abbandonato le atmosfere lisergiche degli esordi per approdare a un folk assai piu’ tradizionale e classico, seppur terribilmente monocorde.
A poca distanza, eccoli di nuovo in veste di co-produttori (e musicisti) dell’opera prima di John Grant - ex-leader degli Czars, da Denver, Colorado, al rientro dopo una fase a dir poco turbolenta della sua vita, caratterizzata da eccessi vari – accolta oltreoceano e nel Regno Unito dall’ovazione quasi unanime da parte della critica (5 stelle su 5 per Mojo).
Anche Grant trae ispirazione dai grandi classici del passato, prima di tutto il grande rock americano degli anni anni Settanta.
Ed è - è doveroso ammetterlo - capace di scrivere ottime canzoni.
Come la doppietta iniziale con le malinconiche TC And Honeybar e I Wanna Go To Marz, per esempio, che qualcuno sul Web ha paragonato addirittura a un mpstro sacro come I Talk To The Wind dei King Crimson.
Il problema sono gli arrangiamenti levigati, puliti, tipici di un certo AOR (Adult Oriented Rock) da classifica, un mucchio di citazioni e alcune melodie facili facili, assai semplici da mandare a memoria: alcuni pezzi ricordano, per citare il Grande Lebowski, i fottuti Eagles.
Where Dreams Go To Die e It’s Easier promettono bene, grazie alla voce calda e suadente di Grant, ma i rispettivi ritornelli sono davvero troppo melensi per le nostre povere orecchie indie.
Meglio Chicken Bones, un pezzo decisamente on the road – sembra di sentire i Little Feat di Willin’ e Trouble - e la marcetta pianistica Silver Platter Club, che pare invece Randy Newman o il primo Billy Joel.
Ancora un paio di episodi poco convincenti, ma poi nel finale l’album si riscatta alla grande: in Caramel Grant sembra fare il verso ad Antony & The Johnson, e c’è anche una bella coda sintetica in mellotron, mentre Leopard And Lamb e la title-track – grande atmosfera glam - hanno davvero un bel tiro.
Chissà se al Drugo sarebbe piaciuto.
Mah.
Mica sono i Creedence.
Pochi mesi orsono è uscito per la label Bella Union il loro terzo album (“The Courage Of Others”), con il quale sembrano aver abbandonato le atmosfere lisergiche degli esordi per approdare a un folk assai piu’ tradizionale e classico, seppur terribilmente monocorde.
A poca distanza, eccoli di nuovo in veste di co-produttori (e musicisti) dell’opera prima di John Grant - ex-leader degli Czars, da Denver, Colorado, al rientro dopo una fase a dir poco turbolenta della sua vita, caratterizzata da eccessi vari – accolta oltreoceano e nel Regno Unito dall’ovazione quasi unanime da parte della critica (5 stelle su 5 per Mojo).
Anche Grant trae ispirazione dai grandi classici del passato, prima di tutto il grande rock americano degli anni anni Settanta.
Ed è - è doveroso ammetterlo - capace di scrivere ottime canzoni.
Come la doppietta iniziale con le malinconiche TC And Honeybar e I Wanna Go To Marz, per esempio, che qualcuno sul Web ha paragonato addirittura a un mpstro sacro come I Talk To The Wind dei King Crimson.
Il problema sono gli arrangiamenti levigati, puliti, tipici di un certo AOR (Adult Oriented Rock) da classifica, un mucchio di citazioni e alcune melodie facili facili, assai semplici da mandare a memoria: alcuni pezzi ricordano, per citare il Grande Lebowski, i fottuti Eagles.
Where Dreams Go To Die e It’s Easier promettono bene, grazie alla voce calda e suadente di Grant, ma i rispettivi ritornelli sono davvero troppo melensi per le nostre povere orecchie indie.
Meglio Chicken Bones, un pezzo decisamente on the road – sembra di sentire i Little Feat di Willin’ e Trouble - e la marcetta pianistica Silver Platter Club, che pare invece Randy Newman o il primo Billy Joel.
Ancora un paio di episodi poco convincenti, ma poi nel finale l’album si riscatta alla grande: in Caramel Grant sembra fare il verso ad Antony & The Johnson, e c’è anche una bella coda sintetica in mellotron, mentre Leopard And Lamb e la title-track – grande atmosfera glam - hanno davvero un bel tiro.
Chissà se al Drugo sarebbe piaciuto.
Mah.
Mica sono i Creedence.
domenica 18 aprile 2010
Difficile immaginare due debutti così diversi, così lontani.
Soffice, leggero e innocente il primo.
Ruvido, sporco e sfrontato il secondo.
Eppure, sono i dischi che vanno in loop sul mio Ipod durante le lunghe passeggiate serali con il vecchio cane Oscar, adesso che è finalmente primavera e il cielo appare sterminato e senza nubi.
Jonsi – vero nome: Jón Þor Birgisson - è il leader degli islandesi Sigur Ros, band in assoluto tra le piu’ importanti dello scorso decennio. Qui è al suo debutto solista, intitolato semplicemente Go (Andiamo), anche se a dire il vero preceduto dallo sperimentale Riceboy Sleeps recentemente inciso in coppia con Alex Somers.
Per non ricadere nell’ovvio, lo straordinario vocalist dalla terra dei vulcani cerca di smarcarsi da un passato/presente così illustre - che tuttavia riaffiora in brani letteralmente senza tempo come le eteree Tornado e Kolniður, oltre che nella nenia incomprensibile Hengilás) - puntando su filastrocche bislacche e su un’immediatezza e una freschezza pop (il singolo Go Do, Animal Arithmetic e l’ottima Boy Lilikoi) che funzionano assai bene. Oltre che su una base ritmica piu’ solida (alle percussioni troviamo Samuli Kosminen dei Múm) e su una lunghezza dei brani piu’ contenuta del consueto; celebre il rifiuto dei Sigur Rós al Letterman Show: offrirono al gruppo solamente quattro minuti per suonare, un tempo troppo esiguo per lo stile della band.
Gonjasufi – vero nome: Sumach Valentine – è un personaggio alquanto strano, per usare un eufemismo.
Nero, rasta, insegnante di yoga, intellettuale mistico e inquieto, Dj ed ex-rapper, oggi artista di punta della scuderia WARP.
La sua opera prima è una delle produzioni piu’ sorprendenti di questa prima parte dell’anno, con il quale mescola con classe e irriverenza i piu’ disparati generi musicali: il trip hop (Portishead e Tricky) di Ancestors e di Change, il blues-rock gutturale di Suzie Q (Captain Beefheart) e She Gone, il folk bucolico di Sheep, l’elettronica vintage di I've Given e Holidays, il groove di Dust, la disco di Candylane, le citazioni terzomondiste dell’ottima Kowboyz And Indians, l’acid-rock psichedelico di Klowds (nella quale fa il verso addirittura a Jim Morrison) e della conclusiva Made.
E lo fa con un’inclinazione rigorosamente Lo-fi (fruscìi di fondo compresi) che fa pensare – oltre che a Frank Zappa - al primo, grandissimo, Beck.
Da seguire con attenzione.
venerdì 16 aprile 2010
Cancrena, 03
I primi tempi, avevo paura del vecchio.
Ero arrivata dal mio paese con una piccola valigia tutta sgualcita, non ancora maggiorenne: una ragazza timida e insicura, con un vocabolario stentato e ridotto all'osso, venti parole o poco piu', apprese da un corso acquistato al mio paese per corrispondenza.
Io restavo sempre sull’attenti, come un vecchio maggiordomo.
Lui mi trattava male.
Ci aveva preso gusto, quel maiale.
Ed era anche irascibile.
Per un nonnulla, era capace di strillare come un pazzo. Andava letteralmente fuori di testa. Sbatteva i pugni contro il muro. Ci fu una volta persino che si ferì alle nocche delle dita, e io fui costretta a portarlo all'ospedale per farlo cucire con un paio di punti di sutura. All'infermiera aveva raccontato che si era chiuso la mano nel grande cancello di ferro, quel vecchio cancello che demilimitava la proprietà privata - oltre gli orti, appena piu' in là del ciglio della strada.
Quando era di cattivo umore - ed era spesso di cattivo umore - spostava tutte le cose dal loro posto.
Così, senza motivo.
Solo per farmi un dispetto.
Eppure.
Eppure, nonostante tutto, io avevo finito per affezionarmi a lui.
Non foss'altro che per l'abitudine.
Passavamo insieme lunghi pomeriggi, con la pioggia o con il sole, io e lui soli nel silenzio spettrale di quella vecchia casa che - ora - restava ai margini della storia.
Davanti al fuoco, il vecchio mi raccontava la sua storia, con l'aria complice di chi ti sta facendo chissà quali confidenze. Si ricordava tutto, del suo passato.
Come tutti gli anziani, non avrebbe saputo dire dove aveva messo la scatola dei fiammiferi che lui stesso aveva usato soltanto qualche istante prima, ma era in grado di ricostruire episodi avvenuti da tempo immemorabile, con una precisione assoluta. Con un’attenzione maniacale per i dettagli. Forse qualcosa se lo inventava sul momento - è possibile, anzi probabile, adesso che ci penso - ma per me non cambiava nulla.
Restavo pazientemente ad ascoltarlo.
Era quello di cui aveva bisogno, in fondo: qualcuno che lo ascoltasse, non chiedeva altro.
Qualche volta avrei voluto persino prendergli una mano, quella sua mano rugosa con le vene rigonfie - così gonfie che sembrava potessero esplodere da un momento all'altro.
Non l'ho mai fatto per paura di essere male interpretata.
Le conoscete anche voi, le storie che si mettono in giro sulle badanti.
Non lo credereste, ma il vecchio era capace di piccole dolcezze.
Ogni tanto mi lasciava bere un po’ di vino, quel lambrusco frizzante da pochi soldi che mi mandava a comprare tutti i sabati al banco del mercato. Me lo davano in un contenitore di plastica, tipo le taniche che normalmente si usano per la nafta del trattore. Il tappo veniva avvitato con forza ma anche così non teneva piu' di tanto e così mi ritrovavo con i sedili della vecchia utilitaria tutti inzuppati.
Vino buono come questo non ce n'è, ripeteva lui. Lo fanno ancora come si faceva una volta. Mica tutti quegli additivi che ci mettono adesso. Altrochè.
Io annuivo, cosa volete che sappia io, di vino. Da noi si beve solo vodka. Ormai i nostri uomini sono tutti scemi, a furia di bere vodka.
In cambio delle sue piccole gentilezze, io lo facevo vincere a scopa.
Non ci stava, a perdere, quel bastardo.
Con una donna, poi - non sia mai: il massimo dell'umiliazione.
Non se poteva proprio parlare.
Così io scartavo le carte sbagliate e lui mi riprendeva bonariamente per i miei errori marchiani.
E ripeteva che le donne non erano fatte per giocare con le carte, anche se forse si era accorto che io sbagliavo apposta, così, solo per farlo contento.
sabato 10 aprile 2010
La ricetta dei Baustelle, in fondo, è sempre la medesima: melodie accattivanti - semplici e immediate-, arrangiamenti orchestrali, testi impegnati e molto elaborati, malinconia e nichilismo.
Anche stavolta è così, malgrado la superproduzione di Pat McCarthy (U2, R.E.M.) apra la strada a un sound piu’ americano e diretto rispetto al passato. L’influenza della band georgiana, infatti, è evidente e la rivisitazione della chitarra jingle-jangle alla Byrds è qui riproposta con deliberata sfacciataggine: addirittura, è incredibile non trovare Peter Buck tra i credits della scialba La Canzone Della Rivoluzione…
Le altre novità, in breve: un’atmosfera evocativa da spaghetti-western, stile Ennio Morricone, l’abbandono del consueto citazionismo colto – diciamolo pure: Bianconi, tipico intellettuale snobbone, in questo disco se la tira un po’ meno, anche se nella title-track compare Jacopone da Todi – e dei duetti tra lo stesso Bianconi e la Bastreghi: per quest’ultima, molto meno spazio rispetto ai precedenti, celebratissimi, album.
Quasi ovunque, poi, aleggia lo spirito del grande De Andrè.
Nell’intro suggestivo L’indaco, che ci riporta alla mente Le Nuvole di Fabrizio.
Nella conclusiva L’ultima Notte Felice Del Mondo, la cui sezione fiati ricorda La Canzone Dell’Amore Perduto.
E ancora nella title-track, la quale peraltro sfodera un indovinato ritornello tipicamente Baustelle: non so voi, ma per me canticchiare “No/ci salveremo disprezzando la realtà/e questo mucchio di coglioni sparirà/e ne denaro e ne passione servirà/gentili ascoltatori siamo nullità/equipaggi persi in alto mare/forse il presidente non lo sa” è un’esperienza davvero catartica, soprattutto dopo aver ascoltato i titoli di testa del TG1 di Augusto Minzolini e un’intervista radio ad Angelino Alfano.
Il disco parte forte.
Oltre ai pezzi già citati, c’è la psichedelica San Francesco, il singolo Gli Spietati – con in coda un omaggio a Rino Gaetano di Mio Fratello E’ Figlio Unico – e soprattutto la suggestiva Follonica, ingeneroso e deprimente ritratto della terra toscana natìa (“Facciamo un pò di sesso/facciamolo lo stesso/per ricordarci di esser vivi/sulla spiaggia di Follonica”), e Le Rane. Quest’ultima, che si candida a nostro giudizio a diventare il secondo – irresistibile - singolo, è una riflessione nemmeno troppo sofisticata sul tempo che inesorabilmente sfugge ("Che fine hai fatto?/ ti sei sistemato?/che prezzo hai pagato?/che effetto ti fa?/vivi ancora in provincia?/ci pensi ogni tanto alle rane?/L'ultima volta ti ho visto cambiato/bevevi un amaro al bancone del bar/perché il tempo ci sfugge/ma il segno del tempo rimane"), mentre la base ritmica somiglia troppo a quella un pezzo dei Blur, quale sia non mi viene in mente ora.
Nella seconda parte del disco la tensione inevitabilmente cala, e con la tensione le emozioni.
Con la stanchezza riaffiorano poi vecchi vizi della band: l’eccessiva orecchiabilità, che confina qua e là con la banalità, alcuni arrangiamenti troppo ricercati; persino alcuni testi (La bambolina, Il sottoscritto) appaiono un po’ scontati.
Nel complesso, tuttavia, non un capolavoro memorabile ma un’opera intelligente e godibile, anche se non così facile come potrebbe sembrare al primo impatto.
Eppure, ne siamo sicuri, non mancheranno le stroncature.
Ma certi siti di critica rock, si sa, quando trattano la musica nostrana ricordano le nostre madri, che quando eravamo bambini ci dicevano sempre: proprio non sei mai contento!
Forse non perdoneranno alla band di Montepulciano la collaborazione con Irene Grandi al Festival di Sanremo - brutta compagnia, in effetti: tra lo sfigato che fa l’amore in mezzo ai laghi e il principe Savoia che stona con Pupo e Marcello Lippi, ce ne sarebbe abbastanza per chiedere l’espatrio – oppure la loro presunta svolta commerciale, la firma con una mayor e il cedimento alle logiche del Mercato e bla bla bla.
Noi ci accontentiamo di questi Mistici Dell’Occidente.
Anzi, come dicevano i nostri vecchi:
Cara di grazia.
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