sabato 10 aprile 2010


La ricetta dei Baustelle, in fondo, è sempre la medesima: melodie accattivanti - semplici e immediate-, arrangiamenti orchestrali, testi impegnati e molto elaborati, malinconia e nichilismo.
Anche stavolta è così, malgrado la superproduzione di Pat McCarthy (U2, R.E.M.) apra la strada a un sound piu’ americano e diretto rispetto al passato. L’influenza della band georgiana, infatti, è evidente e la rivisitazione della chitarra jingle-jangle alla Byrds è qui riproposta con deliberata sfacciataggine: addirittura, è incredibile non trovare Peter Buck tra i credits della scialba La Canzone Della Rivoluzione…
Le altre novità, in breve: un’atmosfera evocativa da spaghetti-western, stile Ennio Morricone, l’abbandono del consueto citazionismo colto – diciamolo pure: Bianconi, tipico intellettuale snobbone, in questo disco se la tira un po’ meno, anche se nella title-track compare Jacopone da Todi – e dei duetti tra lo stesso Bianconi e la Bastreghi: per quest’ultima, molto meno spazio rispetto ai precedenti, celebratissimi, album.

Quasi ovunque, poi, aleggia lo spirito del grande De Andrè.
Nell’intro suggestivo L’indaco, che ci riporta alla mente Le Nuvole di Fabrizio.
Nella conclusiva L’ultima Notte Felice Del Mondo, la cui sezione fiati ricorda La Canzone Dell’Amore Perduto.
E ancora nella title-track, la quale peraltro sfodera un indovinato ritornello tipicamente Baustelle: non so voi, ma per me canticchiare “No/ci salveremo disprezzando la realtà/e questo mucchio di coglioni sparirà/e ne denaro e ne passione servirà/gentili ascoltatori siamo nullità/equipaggi persi in alto mare/forse il presidente non lo sa” è un’esperienza davvero catartica, soprattutto dopo aver ascoltato i titoli di testa del TG1 di Augusto Minzolini e un’intervista radio ad Angelino Alfano.

Il disco parte forte.
Oltre ai pezzi già citati, c’è la psichedelica San Francesco, il singolo Gli Spietati – con in coda un omaggio a Rino Gaetano di Mio Fratello E’ Figlio Unico – e soprattutto la suggestiva Follonica, ingeneroso e deprimente ritratto della terra toscana natìa (“Facciamo un pò di sesso/facciamolo lo stesso/per ricordarci di esser vivi/sulla spiaggia di Follonica”), e Le Rane. Quest’ultima, che si candida a nostro giudizio a diventare il secondo – irresistibile - singolo, è una riflessione nemmeno troppo sofisticata sul tempo che inesorabilmente sfugge ("Che fine hai fatto?/ ti sei sistemato?/che prezzo hai pagato?/che effetto ti fa?/vivi ancora in provincia?/ci pensi ogni tanto alle rane?/L'ultima volta ti ho visto cambiato/bevevi un amaro al bancone del bar/perché il tempo ci sfugge/ma il segno del tempo rimane"), mentre la base ritmica somiglia troppo a quella un pezzo dei Blur, quale sia non mi viene in mente ora.

Nella seconda parte del disco la tensione inevitabilmente cala, e con la tensione le emozioni.
Con la stanchezza riaffiorano poi vecchi vizi della band: l’eccessiva orecchiabilità, che confina qua e là con la banalità, alcuni arrangiamenti troppo ricercati; persino alcuni testi (La bambolina, Il sottoscritto) appaiono un po’ scontati.

Nel complesso, tuttavia, non un capolavoro memorabile ma un’opera intelligente e godibile, anche se non così facile come potrebbe sembrare al primo impatto.

Eppure, ne siamo sicuri, non mancheranno le stroncature.
Ma certi siti di critica rock, si sa, quando trattano la musica nostrana ricordano le nostre madri, che quando eravamo bambini ci dicevano sempre: proprio non sei mai contento!
Forse non perdoneranno alla band di Montepulciano la collaborazione con Irene Grandi al Festival di Sanremo - brutta compagnia, in effetti: tra lo sfigato che fa l’amore in mezzo ai laghi e il principe Savoia che stona con Pupo e Marcello Lippi, ce ne sarebbe abbastanza per chiedere l’espatrio – oppure la loro presunta svolta commerciale, la firma con una mayor e il cedimento alle logiche del Mercato e bla bla bla.

Noi ci accontentiamo di questi Mistici Dell’Occidente.
Anzi, come dicevano i nostri vecchi:
Cara di grazia.

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