venerdì 16 aprile 2010
Cancrena, 03
I primi tempi, avevo paura del vecchio.
Ero arrivata dal mio paese con una piccola valigia tutta sgualcita, non ancora maggiorenne: una ragazza timida e insicura, con un vocabolario stentato e ridotto all'osso, venti parole o poco piu', apprese da un corso acquistato al mio paese per corrispondenza.
Io restavo sempre sull’attenti, come un vecchio maggiordomo.
Lui mi trattava male.
Ci aveva preso gusto, quel maiale.
Ed era anche irascibile.
Per un nonnulla, era capace di strillare come un pazzo. Andava letteralmente fuori di testa. Sbatteva i pugni contro il muro. Ci fu una volta persino che si ferì alle nocche delle dita, e io fui costretta a portarlo all'ospedale per farlo cucire con un paio di punti di sutura. All'infermiera aveva raccontato che si era chiuso la mano nel grande cancello di ferro, quel vecchio cancello che demilimitava la proprietà privata - oltre gli orti, appena piu' in là del ciglio della strada.
Quando era di cattivo umore - ed era spesso di cattivo umore - spostava tutte le cose dal loro posto.
Così, senza motivo.
Solo per farmi un dispetto.
Eppure.
Eppure, nonostante tutto, io avevo finito per affezionarmi a lui.
Non foss'altro che per l'abitudine.
Passavamo insieme lunghi pomeriggi, con la pioggia o con il sole, io e lui soli nel silenzio spettrale di quella vecchia casa che - ora - restava ai margini della storia.
Davanti al fuoco, il vecchio mi raccontava la sua storia, con l'aria complice di chi ti sta facendo chissà quali confidenze. Si ricordava tutto, del suo passato.
Come tutti gli anziani, non avrebbe saputo dire dove aveva messo la scatola dei fiammiferi che lui stesso aveva usato soltanto qualche istante prima, ma era in grado di ricostruire episodi avvenuti da tempo immemorabile, con una precisione assoluta. Con un’attenzione maniacale per i dettagli. Forse qualcosa se lo inventava sul momento - è possibile, anzi probabile, adesso che ci penso - ma per me non cambiava nulla.
Restavo pazientemente ad ascoltarlo.
Era quello di cui aveva bisogno, in fondo: qualcuno che lo ascoltasse, non chiedeva altro.
Qualche volta avrei voluto persino prendergli una mano, quella sua mano rugosa con le vene rigonfie - così gonfie che sembrava potessero esplodere da un momento all'altro.
Non l'ho mai fatto per paura di essere male interpretata.
Le conoscete anche voi, le storie che si mettono in giro sulle badanti.
Non lo credereste, ma il vecchio era capace di piccole dolcezze.
Ogni tanto mi lasciava bere un po’ di vino, quel lambrusco frizzante da pochi soldi che mi mandava a comprare tutti i sabati al banco del mercato. Me lo davano in un contenitore di plastica, tipo le taniche che normalmente si usano per la nafta del trattore. Il tappo veniva avvitato con forza ma anche così non teneva piu' di tanto e così mi ritrovavo con i sedili della vecchia utilitaria tutti inzuppati.
Vino buono come questo non ce n'è, ripeteva lui. Lo fanno ancora come si faceva una volta. Mica tutti quegli additivi che ci mettono adesso. Altrochè.
Io annuivo, cosa volete che sappia io, di vino. Da noi si beve solo vodka. Ormai i nostri uomini sono tutti scemi, a furia di bere vodka.
In cambio delle sue piccole gentilezze, io lo facevo vincere a scopa.
Non ci stava, a perdere, quel bastardo.
Con una donna, poi - non sia mai: il massimo dell'umiliazione.
Non se poteva proprio parlare.
Così io scartavo le carte sbagliate e lui mi riprendeva bonariamente per i miei errori marchiani.
E ripeteva che le donne non erano fatte per giocare con le carte, anche se forse si era accorto che io sbagliavo apposta, così, solo per farlo contento.
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