domenica 27 febbraio 2011

Codex (10)


La band di Oxford ci ha ormai abituati a scelte radicali – o radical chic?; per i piu’ critici sono solo dei gran furboni… – e a strategie poco convenzionali, spesso in antitesi alle logiche imperanti del mercato discografico.
Eccoli dunque improvvisamente annunciare l’uscita dell’ottavo album, disponibile da pochi giorni solo in download sul sito ufficiale: www.radiohead.com, al modico prezzo di 7 pounds, ovvero poco meno di 9 euro al cambio attuale, per la versione Mp3; 11 pounds per quella WAV, mentre gli sboroni per 36 pounds possono invece ordinare una confezione con vinile, CD, una collezione di 625 (!) artworks e una rivista con la storia del disco.

7 pounds per soli otto brani, per un totale di soli 37 minuti: mai così stitici.
The King Of Limbs (pare si tratti del nome di un’antica quercia situata nei pressi del loro studio di registrazione) è un’opera divisa in due metà quasi esatte.
Quella che una volta sarebbe stata la side A è minimalismo elettronico, sperimentale e ambizioso, quasi un outtakes da Kid A o Amnesiac, e può risultare indigesta come una teglia di pizzoccheri. Campionamenti e scratch, effetti rumoristici, fruscii di sottofondo, melodie sghembe, percussioni in evidenza: non lascia davvero nulla alla facilità di ascolto. Sarà pure un caso, ma si apre con un brano tribal-psichedelico intitolato Bloom, come il protagonista dell’Ulisse di Joyce, il romanzo del XX secolo inaccessibile per eccellenza. E le successive Morning Mr Magpie (Autechre), Little By Little (forse la migliore del lotto) e Feral – un dustep che sembra allacciarsi al recente debutto di James Blake - non si discostano dal tema.
Il singolo Lotus Flower ha il compito di traghettarci nella seconda metà del disco, composta invece da quattro suggestive e malinconiche ballate in stile Pyramid Song o Sail To The Moon. In particolare nell’intimismo delicato di Codex (il brano migliore in assoluto: che onore, è il nome del nostro editore…) e Give Up The Ghosts emerge il lirismo ispirato di Thom Yorke.

Un disco leggermente sfocato, forse. Per noi inferiore non solo ai capolavori del passato, ma anche al penultimo In Rainbows.
Breve e incompleto: la conclusiva Separator sembra tuttavia il presagio (“If you think this is over, then you're wrong”) di un seguito a breve.
Restiamo trepidi in attesa.

martedì 22 febbraio 2011


Avevamo detto che ci saremmo tornati, su questo James Blake di James Blake, e vogliamo essere di parola.
Il giovanissimo (è nato nel 1989) e talentuoso Dj e produttore inglese – inserito dalla BBC al secondo posto del "Sound of 2011", la prestigiosa classifica che individua i talenti musicali di ogni nuovo anno musicale – ha recentemente raggiunto un insperato successo con la sua straordinaria cover di Limit To Your Love della cantautrice canadese Feist, ormai quasi membro fisso dei Broken Social Scene: una versione scarna, essenziale, spogliata di ogni orpello, assai più bella dell’originale.
Ma è tutto il lavoro a stupire, con le sue basi dubstep e il suo minimalismo elettronico, mai troppo compiaciuto o sintetico, ma anzi permeato da una vena soul (i suoi genitori ascoltano Stevie Wonder, D'Angelo e Sly & The Family Stone), da una voce capace di bassi profondi e di calde intonazioni.
I never learnt to share, ad esempio, oppure la conclusiva Measurements: il gospel come dovrebbe suonare nel XXI secolo. E Willhelm Scream, secondo singolo estratto dall’album, con quell’unica strofa ripetuta in crescendo, o l’accoppiata Lindesfarne/Lindesfarne II, variazioni infinitesimali sullo stesso tema.
Tra le sue influenze il piccolo genio – secondo alcuni un autentico predestinato - cita i connazionali XX; l’iniziale Unluck ricorda i Bon Iver dello straordinario EP del 2009 (Woods), la già citata I never learnt to share e la pianistica Give My Mouth sono in debito con Antony & The Johnsons. A noi tornano in mente anche i Radiohead di Amnesiac e persino il Robert Wyatt di Shleep.
Insomma, questo disco è poco meno di un capolavoro.

Il prossimo 21 aprile Blake si esibirà al Lambretto Art Project di Milano, al Club To Club Festival. L'ingresso al concerto sarà libero fino ad esaurimento posti: le modalità per prenotare il proprio biglietto invece saranno comunicate nei prossimi giorni.
State sul pezzo.

martedì 15 febbraio 2011


Reduce da un’annata, quella appena trascorsa, piuttosto opaca, salvata solamente da leoni antichi o meno antichi come Weller e Albarn, la gloriosa terra d’Inghilterra inizia il nuovo anno con una serie interessante di nuove produzioni: il secondo album degli Chapel Club, “Palace”, subito ribattezzati dalla critica come i nuovi My Bloody Valentine, il debutto (omonimo) di James Blake – sul quale torneremo, magari la prossima settimana – e soprattutto quello di Anna (o Anne) Calvi, da tempo al centro dell’attenzione dopo la sua scoperta da parte dei Coral, le manifestazioni di stima di Nick Cave – che l’ha voluta ad aprire i concerti dell’ultima tournee dei Grinderman – e la benedizione di Brian Eno: “è la cosa piu’ bella successa dopo Patti Smith”, ha dichiarato l’alchimista-genio inventore dell’ambient ed ex-Roxy Music, che offre il suo contributo prezioso in un paio di brani.
E la sacerdotessa del rock piu’ impegnato è il primo nome che viene in mente ascoltando l’opera prima di questa giovane autrice di evidente origine italiana, paragonata anche a PJ Harvey (a proposito, è in uscita il suo nuovo lavoro, intitolato Let England Shake), Diamanda Galas, Soap&Skin, Cat Power, Siouxie, Nina Simone, addirittura Tim Buckley.
Opera prima assai gradevole, anche se non il miracolo a cui ha gridato gran parte della critica specializzata. Una produzione assai raffinata, quasi perfetta, toglie infatti un po’ di sapore al disco – e anche di calore, l’interpretazione di Anna in certi tratti è glaciale.
Un incipit strumentale introduce l’innocua No More Words e un bel pezzo quasi dance, Desire, a là Florence & The Machine. Suzanne & I si apre con percussioni rock ed emerge come uno dei tratti migliori della raccolta, First We Kiss e soprattutto la litania The Devil ne mostrano il lato piu’ tormentato e dark. Notevole la sequenza finale: Blackout, ovvero il brano piu’ pop, la teatrale I’ll Be Your Man, la sexy Morning Light e Love Won’t Be Leaving.

sabato 5 febbraio 2011

482-406

Esistono ormai decine di pubblicazioni del tipo “I 500 album fondamentali del rock”, oppure “I 100 dischi da portare su un’isola deserta”. Io li leggo tutti, per poi rivedere la mia personalissima classifica.
Ebbene, certi dischi o certi autori non mancano mai, nel senso che mettono d’accordo tutti; sono, si può dire, delle autentiche invarianti. I Suicide, ad esempio, che poi a me viene il dubbio che qualcuno non li abbia mai nemmeno ascoltati. Gli Stone Roses. I Jesus And Mary Chain. O i misconosciuti Camper Van Beethoven.
Tra questi ci sono senza dubbio i Gang Of Four e gli Wire, due delle band britanniche piu’ importanti e influenti della generazione postpunk.

I primi, da Leeds, spaccarono tutto nel 1979 con l’album d’esordio Entertainment! (al 482esimo posto del listone di Rolling Stone), ovvero con un funk di matrice marxista e di straordinaria vitalità.
Tornano oggi, a distanza di sedici anni dal penultimo Shrinkwrapped, licenziando il mediocre Content, disco di new-new wave modello Franz Ferdinand suonato fuori tempo massimo.
Molto meglio andarsi a ripescare il mitico Entertainment!

I secondi, londinesi, nella seconda metà dei Settanta furono tra i piu’ autentici traghettatori dal punk alla new wave e diedero alla luce pietre miliari come Pink Flag (una collezione di ventuno tracce scarne e rapidissime, al 406esimo posto della lista di Rolling Stone), Chair Missing e 154.
Giunti alla terza reunion - che vede la rinuncia del chitarrista Bruce Gilbert, rimpiazzato da Robert Grey - tornano con un disco tutt’altro che scontato: Red Barked Tree apre con la raffinata e asimmetrica Please Take, che a noi riporta in mente i Japan, seguita da Now Was e dalla malinconica Adapt, una delle nostre preferite, per poi proseguire con l’heavy primitivo di Two Minutes e dalla bellissima Clay, in odore shoegaze.
La seconda parte dell’album si mantiene su livelli notevoli, in particolare con la rumoristica Moreover e con il powerrock bislacco di A Flat Tent.
Anche la chiusura si rivela all’altezza della situazione, con la traccia che offre il titolo all’intera collezione, una ipnotica e ossessiva ballata in stile Stereolab.

Colin Newman e soci suoneranno presto in Italia; ecco le date riportate sul loro sito ufficiale: Feb 19: Velvet, Rimini; Feb 21: Circolo Degli Arti, Roma; Feb 22: Bloom, Mezzago (Milano).