lunedì 6 febbraio 2012


Era destino inevitabile che, tale era stato l’hype dei mesi passati e tale l’attenzione su di lei da parte dei media, alla fine nessuno parlasse della sua musica.
Lana del Rey, al secolo Elizabeth Grant (classe 1986), newyorchese, ha finalmente pubblicato il suo primo album, preceduto da un’abilissima operazione di marketing; in molti le pronosticano da tempo un futuro da star. Che poi, di vero debutto non si tratta: la biondina dalla bellezza algida e dallo sguardo glaciale aveva già inciso un disco nel 2009 sotto lo pseudonimo di Lizzy Grant, poi misteriosamente ritirato dal mercato (assai più affascinante il nuovo nome d’arte, mutuato dalla diva di Hollywood Lana Turner, nota per le sue burrascose relazioni sentimentali, e la Ford Del Rey, una macchina di produzione sudamericana diventata obsoleta prima del tempo).

“Born To Die” è uscito a fine gennaio e già divampano le polemiche.
I duri e puri dell'alt rock sono rimasti delusi a causa di una produzione patinata e dagli arrangiamenti troppo pop.
Il popolo del web che l’aveva anzitempo adottata come nuova eroina – il videocilp di “Videogames”, primo singolo estratto, è da mesi tra i più cliccati sul tubo – l’ha pubblicamente rinnegata: si moltiplicano le parodie sui social network e le critiche sulla sua scarsa resa live (la sua esibizione al Saturday Night Live è stata definita "disastrosa", e c’è chi ha scritto che un ubriaco su un treno canterebbe meglio…; meglio è andata da Letterman qualche sera dopo, con il popolare showman che al termine dell’esibizione le dice: torna anche domani!)
Giudicate voi stessi:
http://www.youtube.com/watch?v=9zrvD-o8cII
http://www.youtube.com/watch?v=Hr52zTBp3oo

Alcuni dubitano della sua autenticità, ipotizzando che si tratti di una bufala colossale, di un prodotto studiato a tavolino da sedicenti strateghi del mercato discografico (ricordate The Great Rock’n’Roll Swindle, la grande truffa del Rock’n’Roll?). Altri ironizzano sul suo look ruffiano, artificiale e rétro; altri ancora sospettano pesanti iniezioni di chirurgia plastica, e le labbra a canotto alla Jessica Rabbit parrebbero avvalorare questa tesi.

La sua musica, dicevamo.
A noi ha lasciato un po’ di amaro in bocca.
I due brani già noti, “Videogames” e la title-track (con un video dark-gothic girato nel castello di Fountainebleu), sono due brani notevoli e dunque le aspettative, anche per noi, erano assai elevate. E invece il resto della collezione non si mantiene a quei livelli, invero eccellenti; meritano un cenno “Blue Jeans” – tra Portishead e Goldfrapp – l’orecchiabile “Dark Paradise” e infine la bella “Million Dollar Man”- tra Dido e Cat Power -, mentre "National Anthem" cita nell’incipit i Verve di "Bittersweet Symphony", che a loro volta avevano citato gli Stones di “You Can’t get Always What You Want” (“Money is the anthem/Of success/So before we go out/What's your address?”).

La aspettiamo alla prova del nove, anche se rischiamo di rimanere ancor più delusi: “Non credo che scriverò un altro disco”, ha dichiarato in questi giorni, ancora visibilmente scossa dalle critiche feroci, “Cosa potrei dire? Sento che ho già detto tutto quello che volevo dire”.

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