Nel corso degli anni si è andata affermando una tradizione per questo
tipo di discorsi, che potremmo sintetizzare come segue: un vecchio
noioso e antiquato, con i migliori anni ormai alle spalle, che nel corso
della sua vita ha commesso una serie di errori madornali (che sarei
io), dà consigli dal profondo del cuore a un gruppo di giovani brillanti
e pieni di energie che hanno davanti a sé i loro anni migliori (che
sareste voi). E io intendo rispettare questa tradizione.
Ebbene, una delle cose più utili che si può fare con una persona
anziana – oltre a prendere soldi in prestito o chiederle di eseguire uno
dei “balli” dei suoi tempi, così da poterla osservare facendosi due
risate – è chiederle: “Ripensando al passato, di che cosa ti
rammarichi?”. E lei te lo dice. In qualche caso, come ben sapete, te lo
dice anche se non glielo chiedi. In qualche altro caso ancora te lo dice
perfino quando hai specificatamente chiesto che non te lo dica.
Bene: di che cosa mi rammarico? Di essere stato povero, di quando in
quando? Non proprio. Di aver fatto mestieri tremendi, come “estrarre le
articolazioni” in un mattatoio? (Che non vi venga assolutamente in mente
di chiedermi che cosa ciò comporta.) No. Non mi rammarico di ciò. Di
essermi tuffato senza nulla addosso in un fiume di Sumatra, un po’
alticcio, e di aver guardato in alto, e di aver visto qualcosa come
trecento scimmie sedute su una tubatura intente a cagare di sotto, nel
fiume, proprio quello nel quale stavo nuotando io, con la bocca
spalancata e tutto nudo? E di essermi ammalato in seguito a ciò, e di
essere stato male per i sette mesi successivi? Non proprio. Mi rammarico
forse di aver fatto qualche sporadica figuraccia? Come quella volta che
giocando a hockey di fronte a una gran folla – in mezzo alla quale
c’era una ragazza che mi piaceva davvero tanto – caddi a terra emettendo
un bizzarro suono stridulo, e non so come riuscii a segnare nella porta
della mia squadra e al tempo stesso a scaraventare il bastone in mezzo
alla folla e a colpire proprio quella ragazza? No. Non mi rammarico
neppure di questo.
In verità mi rammarico di un’altra cosa: in seconda media nella
nostra classe arrivò una ragazzina nuova. Nel rispetto della privacy,
diciamo che il nome col quale ci fu presentata fu “Ellen”. Ellen era
piccola, timida. Indossava occhiali blu dalla montatura a occhi di
gatto, del tipo che all’epoca portavano soltanto le signore anziane.
Quando era nervosa, in pratica quasi sempre, aveva l’abitudine di
mettersi una ciocca di capelli in bocca e di masticarla.
Insomma, arrivò nella nostra scuola e nel nostro quartiere, e per lo
più fu del tutto ignorata, in qualche caso presa in giro (“Sono saporiti
i tuoi capelli?” e altre battute del genere). Mi rendevo conto che
questo la feriva. Ricordo ancora come appariva dopo una villania di
questo tipo: teneva gli occhi bassi, se ne stava un po’ ripiegata, come
se avesse ricevuto un calcio nello stomaco, come se essendole appena
stato ricordato il posto che occupava cercasse, per quanto possibile, di
scomparire. Dopo un po’ scivolava via, con la ciocca di capelli ancora
in bocca. A casa, dopo la scuola, immaginavo che sua mamma le chiedesse
cose del tipo: “Come è andata oggi, tesoro?”. E lei rispondesse: “Oh,
bene”. E sua madre forse le chiedeva anche: “Hai stretto amicizie?”, e
lei rispondesse: “Sicuro, molte”.
Talvolta la vedevo bighellonare tutta sola nel giardino anteriore di
casa sua, come se fosse timorosa di uscirne. E poi… Poi traslocarono.
Ecco tutto. Nessuna tragedia. Nessuna grande presa in giro finale. Un
giorno era lì, il giorno dopo era sparita. Fine della storia.
Ebbene, perché mai mi rammarico di ciò? Perché a distanza di
quarant’anni ripenso ancora a quell’episodio? Rispetto alla maggior
parte degli altri ragazzini, in realtà, io mi ero comportato abbastanza
gentilmente con lei. Non le ho mai detto niente di sgradevole. Anzi, in
qualche caso l’ho addirittura difesa (un po’). Eppure… Mi dispiace.
Ecco, questa è una cosa vera che adesso so di sicuro, anche se si
tratta di qualcosa di un po’ trito e non so con esattezza che farne: ciò
che rimpiango di più nella mia vita è aver mancato di essere gentile.
Mi riferisco a quei momenti in cui davanti a me c’era un altro essere
umano, addolorato, e io ho reagito… assennatamente. In modo riservato.
Bonario.
Oppure, se vogliamo vedere le cose dall’altra parte, potremmo
chiederci: chi ricordi con maggior affetto nel corso della tua vita? Con
la più innegabile sensazione di cordialità? Quelli che sono stati
maggiormente gentili nei tuoi confronti, scommetto.
Sarà forse un po’ semplicistico, e sicuramente difficile da mettere
in pratica, ma direi che come obiettivo nella vostra vita fareste bene a
“cercare di essere più gentili”.
Ed eccoci alla domanda da un milione di dollari: qual è il nostro
problema? Perché non siamo più gentili? Questo è quanto penso io in
proposito:
Ciascuno di noi viene al mondo con una serie di malintesi innati che
quasi certamente hanno un’origine darwiniana. Mi riferisco a: 1) noi
siamo il centro dell’universo (in altri termini, la nostra storia
personale è la storia più importante e interessante al mondo. Anzi, in
realtà è l’unica storia che conti); 2) noi siamo qualcosa di diverso e
distinto dall’universo (sì, certo ci siamo noi e poi, laggiù, c’è tutto
il resto, cani e altalene e lo Stato del Nebraska e le nuvole basse e,
sì, è vero, anche tanta altra gente); e 3) noi siamo eterni (la morte
esiste, sì, certo, ma riguarda te, non me).
Ebbene, noi non crediamo veramente a queste cose – a livello
intellettuale non siamo certo così ingenui – ma ci crediamo a livello
viscerale, e viviamo in modo conforme a ciò che crediamo, al punto che
queste cose fanno sì che noi riteniamo prioritarie le nostre esigenze
rispetto a quelle altrui, anche se ciò che vogliamo davvero, nel
profondo dei nostri cuori, è essere meno egoisti, più consapevoli di
quello che sta accadendo nel momento presente, più aperti, più
amorevoli.
Ed eccoci alla seconda domanda da un milione di dollari: come
possiamo riuscire a fare una cosa del genere? Come possiamo diventare
più premurosi, più aperti, meno egoisti, più presenti, meno deludenti e
così via?
Già, bella domanda…
Purtroppo, mi restano soltanto tre minuti ancora…
Lasciate dunque che vi dica questo: il modo c’è. Voi già lo sapete,
del resto, poiché nella vostra vita avete conosciuto periodi di Grande
Gentilezza e periodi di Poca Gentilezza, e già sapete che cosa vi ha
spinti verso i primi e lontano dai secondi. Una buona istruzione serve.
Immergersi in un’opera d’arte serve. Pregare serve. Meditare serve. Una
chiacchierata schietta con un caro amico serve. Sentirsi parte di una
tradizione spirituale serve. Riconoscere che ci sono state innumerevoli
persone davvero intelligenti prima di noi che si sono poste queste
stesse domande e ci hanno lasciato le loro risposte serve.
Il fatto è che si finisce con lo scoprire che essere gentili è
difficile. Perché essere gentili all’inizio è essere tutti arcobaleni e
cucciolotti, ma poi si espande, fino a includere… beh, proprio tutto.
Una cosa gioca a nostro favore: parte di questo diventare più gentili
capita naturalmente, con l’età. Può trattarsi di una semplice questione
di logoramento: a mano a mano che invecchiamo impariamo ad accorgerci
di quanto sia inutile essere egoisti. Di quanto sia illogico, davvero.
Iniziamo ad amare il prossimo e così facendo riceviamo una sorta di
contrordine in merito alla nostra centralità. La vita reale ci prende a
calci nel sedere, e la gente accorre in nostra difesa e in nostro aiuto,
e così impariamo che non siamo separati dagli altri, né vogliamo
esserlo. Vediamo le persone a noi vicine e a noi care indebolirsi, e
poco alla volta ci convinciamo che forse anche noi un giorno saremo più
deboli (un giorno, tra tanto tempo). La maggior parte delle persone,
quando invecchia, diventa meno egoista e più amorevole. Penso che sia
proprio vero. Il grande poeta di Syracuse Hayden Carruth quasi al
termine della sua vita in una poesia scrisse di sentirsi “per lo più
amore, ormai”.
Ed eccovi la mia previsione, il mio augurio di tutto cuore per voi: a
mano a mano che invecchierete, il vostro Io diminuirà e crescerete
nell’amore. L’IO sarà sostituito poco alla volta dall’AMORE. Se avrete
figli, quello sarà un momento di enorme rimpicciolimento della vostra
centralità. A quel punto non vi interesserà più ciò che accadrà a voi,
purché siano loro a beneficiarne. Questo è uno dei motivi per i quali i
vostri genitori oggi sono così orgogliosi e felici. Uno dei loro sogni
più caramente accarezzatisi è trasformato in realtà: voi avete portato a
compimento qualcosa di difficile e di tangibile che vi ha fatto
crescere come persone e vi renderà la vita migliore, da adesso in poi,
per sempre.
Congratulazioni, a proposito!
Da giovani siamo impazienti, come è giusto che sia, di scoprire se
possediamo tutto ciò che ci serve. Ce la faremo? Riusciremo a costruirci
una vita degna di questo nome? Ma voi – in particolare voi, di questa
generazione – forse avrete notato un certa qualità ciclica in questa
ambizione. Andate bene al liceo nella speranza di riuscire a entrare in
una buona università, così da andare bene all’università nella speranza
di riuscire a ottenere un buon posto di lavoro, così da poter svolgere
bene il vostro lavoro nella speranza di riuscire a…
E tutto ciò è sicuramente ok. Se dobbiamo diventare più gentili,
questo processo include il fatto di prenderci sul serio, in qualità di
persone che agiscono, che portano a termine le cose, che sognano. Sì,
dobbiamo fare proprio questo: essere il meglio di ciò che possiamo
essere.
Tuttavia, il successo è inaffidabile. “Avere successo”, a prescindere
da ciò che può voler dire per voi, è difficile, e la necessità di farlo
sempre si rinnova di continuo (il successo è come una montagna che
continua a innalzarsi nel momento stesso in cui la scaliamo), ed esiste
il pericolo molto concreto che per “avere successo” sia necessaria la
vita intera, mentre le grandi domande restano senza risposta.
Ed eccovi dunque un consiglio veloce, per congedarmi al termine di
questo discorso: dato che secondo la mia opinione la vostra vita sarà un
viaggio che vi porterà ad essere più gentili e più amorevoli,
sbrigatevi. Fate presto. Iniziate subito. In ciascuno di noi c’è un
equivoco di fondo, un vero malessere in verità. Si tratta dell’egoismo.
Ma la cura esiste. Siate quindi gentili e proattivi e addirittura in un
certo senso i pazienti di voi stessi – cercate le medicine più efficaci
contro l’egoismo, cercatele con tutte le vostre energie, per tutto il
resto della vostra vita.
Fate tutte le altre cose, quelle ambiziose – viaggiare, diventare
ricchi, acquistare fama, essere innovativi, essere leader, innamorarsi,
fare fortuna e perderla, nuotare nudi nei fiumi in mezzo alla giungla
(dopo aver controllato che non ci siano in giro scimmie che cagano) – ma
qualsiasi cosa farete, nella misura del possibile eccedete in
gentilezza. Fate ciò che vi può indirizzare verso le risposte a quelle
grandi domande, cercando di tenervi alla larga dalle cose che possono
sminuirvi e rendervi banali. Quella luminosa parte di voi che esiste al
di là della vostra personalità – la vostra anima, se credete – è tanto
luminosa e brillante quanto nessun’altra. Luminosa come quella di
Shakespeare, luminosa come quella di Gandhi, luminosa come quella di
Madre Teresa. Sbarazzatevi di tutto ciò che vi può tenere lontani da
quella luminosità nascosta. Credete nella sua esistenza, cercate di
conoscerla meglio, coltivatela, condividetene incessantemente i frutti.
E un giorno, tra 80 anni, quando voi ne avrete 100 e io 134, quando
saremo tutti così gentili e premurosi da risultare quasi insopportabili,
scrivetemi due righe. Fatemi sapere come è stata la vostra vita. Spero
tanto che mi scriviate: è stata meravigliosa.
Congratulazioni, laureati del 2013.
Vi auguro tanta felicità, tutta la fortuna del mondo e un’estate splendida.
© George Saunders, 2013 – Tutti i diritti riservati