sabato 8 marzo 2014

ODIO I COMPLEANNI. UNA MIA INTERVISTA A CARTA RESISTENTE

Odio i compleanni.
Se penso a quando ero bambino: tutti gli anni la stessa storia.
Mio padre che rincasa a tarda sera, saluta con un cenno della mano, appoggia l’impermeabile sulla poltrona e siede al tavolo, aspetta in silenzio la zuppa riscaldata con i crostini abbrustoliti in padella, un bicchiere di vino rosso, freddo di frigo, e una ciotola di insalata ancora da condire. Mia madre che gli si fa accanto con sguardo severo. Ti sei dimenticato anche questa volta che è il compleanno del piccolo, sussurra, evidentemente per non farsi sentire da me, dal momento che in casa non c’è nessun altro, da me che sono sul divano del tinello a guardare i cartoni animati, con il volume al minimo, perché a papà viene il mal di testa.
Lui che mi si avvicina e dice: campione, adesso il papà torna in ufficio a prendere il tuo regalo. Sai, sono stato fuori città con un cliente. Non ne posso più di questa vita. Ma tu non ti preoccupare, campione. Rimedio in un battibaleno.
E poi via, una corsa disperata verso l’ultimo negozio aperto, mentre fuori è sera inoltrata, corsa che immancabilmente termina in autogrill, dove non gli resta che racimolare pupazzi di fabbricazione cinese.
Avevo un’intera collezione di quelli che suonavano le canzoni natalizie. E pensare che compio gli anni in aprile.


Giovanni Battista Menzani, L’odore della plastica bruciata (LiberAria)


I paesaggi e le situazioni che racconti sono “nostre”, ma nella tua scrittura, soprattutto in alcuni racconti, io sento le atmosfere di Ballard. Può essere? E quali sono gli scrittori stranieri che apprezzi?Ho scoperto Ballard al primo anno di università, un periodo, per me, di grandi mutamenti e di scoperte rivoluzionarie: ricordo la sensazione di libertà, la voglia di conoscere, la consapevolezza delle possibilità e delle opportunità. Lessi “Il condominio”, consigliatomi da una docente curiosa e aperta al dialogo. Mi piacque la sua tesi di fondo, ovvero la violenza latente che prima o poi sarebbe dovuta esplodere in una situazione apparentemente perfetta, in un mondo ideale; come successivamente in “Supercannes”. Poi lessi “Crash”, “L’isola di cemento” e soprattutto “La mostra delle atrocità”, che mi ha ricordato Burroughs.
Sicuramente Ballard mi ha influenzato: ha descritto come pochi altri i nuovi scenari della postmodernità.
Per rispondere alla seconda parte della domanda, prediligo gli americani contemporanei: Pynchon, Vonnegut, De Lillo, McCarthy, Carver, Foster Wallace.


I tuoi racconti sono definiti “surreali e grotteschi”, ma la realtà non è poi così lontana…Io penso che possano essere suddivisi in due filoni. Ci sono i racconti dalla vena più intimista e minimale, che derivano in buona parte da esperienze autobiografiche. Ci sono poi i racconti più surreali, situazioni dell’assurdo in cui alcuni aspetti della nostra società vengono enfatizzati e per così dire portati all’eccesso.
E tuttavia, questa realtà deformata ci suona tremendamente familiare.


Come mai hai scelto il racconto “L’odore della plastica bruciata” per dare il titolo al libro? E c’è un motivo sul fatto che è posto al termine della raccolta?In realtà la raccolta terminava con il racconto intitolato “Il vitello grasso”, cronaca di un ritorno a casa, una delle invarianti classiche della letteratura. È stata un’idea di Alessandra Minervini, il mio bravo e attento editor, quella di chiudere il volume con la title-track, per usare un termine discografico, ovvero con la storia più cruda e drammatica. Ha avuto ragione. E’ un finale apocalittico, con i due bambini che vengono sgridati dal padre perché disturbano il pubblico, impassibile, che assiste alle esecuzioni capitali. E poi da il titolo alla raccolta. Un titolo che rende un’idea di desolazione, di macerie. Di day-after.


Ogni tanto affiora anche il tuo mestiere, la tua formazione, che se non sbaglio è quello di architetto.È esatto. Devo spiegarti la genesi del libro.
Prima dell’esplosione dei social tenevo un blog sul quale appuntavo episodi di vita quotidiana, per lo più presi dalla mia attività di architetto. Rileggendoli, mi accorsi che mi piacevano. Così ritornai sui miei passi, lavorai sulla riscrittura e sullo stile, li smontai e rimontai. Infine inviai la raccolta a Giulio Mozzi di Einaudi, che mi incoraggiò, pubblicando sulla rivista Vibrisse un racconto intitolato “Real Estate”. Successivamente, grazie all’aiuto di Gabriele Dadati, proposi “L’odore della plastica bruciata” a LiberAria, editore indipendente e attento, che accettò con entusiasmo la pubblicazione.
La mia deformazione professionale mi ha forse portato, inoltre, a descrizioni particolareggiate degli ambienti interni e della città postmoderna, fatta di case diroccate e outlet di cartapesta, villaggi di baracche e quartieri residenziali suburbani, superstrade e autolavaggi: un’immensa periferia anonima e stereotipata.


Sei stato coinvolto sulla realizzazione della bella copertina illustrata da Vincenza Peschechera?No, però l’ho approvata senza esitazioni. Mi pareva bellissima. C’è la finzione, con quell’idea geniale della casa che diventa solo un’etichetta, un adesivo. Insomma, una cosa posticcia, falsa.


So che sei un appassionato di musica, cosa stai ascoltando negli ultimi mesi?Bon Iver, Wilco, James Blake, Arcade Fire. Ho recuperate vecchi amori come Weller e gli Smiths.
In questi giorni ho scaricato il nuovo di Beck. Ti saprò dire.


http://cartaresistente.wordpress.com/2014/03/07/lodore-della-plastica-bruciata-con-intervista-allautore/


Grazie a Fernando

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