giovedì 21 gennaio 2010


Un po’ perché pentito per aver ingiustamente trascurato il loro “Embryonic” nel recente pagellone di fine anno, e di aver addirittura escluso un pezzo come “Evil” dalla tradizionale compilation natalizia per gli amici piu’ intimi.

Un po’ perché l’originale - il The Dark dei Pink Floyd intendo – è stato uno dei miei primi ascolti in assoluto. Lo sparava a manetta mio fratello (maggiore) Achille - non che fosse un gran rockettaro, per la verità: in quei tempi, ascoltava canti gregoriani, fumava la pipa e portava una folta barba nera tipo Renato Curcio - sul suo stereo ad altissima fedeltà, a un volume tanto alto da far vibrare i vetri delle finestre e anche i lampadari in gocce di cristallo dell’inquilino di sotto. Io all’epoca andavo alle medie, e passavo il mio tempo a guardare i cartoni di Gundam e Mazinga, a collezionare adesivi che si mendicavano in giro per i negozi del centro o a tirare quattro calci al pallone sul campetto in asfalto dell’oratorio di San Savino. Immaginatevi il mio stupore di fronte alla perfezione assoluta e alla grandiosità di quei suoni.

E un po’ perché – massì, diciamola tutta, cazzo, con buona pace di tutta quella cricca fighetta e snobbona che gli preferisce i dischi degli esordi, quelli dell’epoca Barrett , ovvero i piu’ lisergici “The Piper At The Gates Of Dawn” o “Ummagumma” – “The Dark Side Of The Moon” è:
1. Il capolavoro dei Pink Floyd;
2. Uno dei piu’ grandi dischi della storia del rock.
In poche parole, una vera e propria opera d’arte.
Il suo maggior demerito, agli occhi di molti, è il fatto di aver venduto così tanto – per Wiki è il terzo disco rock piu’ venduto della storia (rimase per 741 settimane nella classifica Billboard 200 della omonima rivista musicale americana, dalla quale uscì soltanto negli anni ’80: uscì nel 1973!), qualcosa come 45 milioni di copie, preceduto solamente da Thriller di Michael Jackson e da Back In Black degli ACDC - e di aver trasformato Waters, Gilmour e soci in una banda di milionari pigri e imbolsiti.

Questo remake dei Flaming Lips, autoprodotto dalla band di Wayne Coyne e uscito alla fine dello scorso anno, oltre a rappresentare il classico omaggio dell’allievo al maestro, è una gradevolissima sorpresa, così lontano dall’essere una rivisitazione trita e scontata, dal compitino insomma.
L’opener “Speak To Me/Breathe” stupisce per la sua tensione nervosa, ma è la successiva versione dance di “On The Run” a spiazzare di brutto. Discreta la versione acustica di “Time”, con la ripresa di “Breathe”, che anticipa la strepitosa, apocalittica, cover di “The Great Gig In The Sky”, con i vocalizzi di Peaches e l’ausilio – come in quasi tutti pezzi – di Henry Rollins.
Si procede con la celeberrima “Money”, che qui sembra suonata dagli alieni e, ancora, con una lentissima versione di “Us And Them”, piuttosto dura da digerire. “Any Colour You Like” in salsa krautrock apre la strada al crescendo finale con la pacata “Brain Damage”, dall’arrangiamento lo-fi, e la straordinaria “Eclipse”, la cui perfezione ci lascia dei dubbi: e se in realtà fosse un pezzo dei Flaming Lips?

Da ascoltare e mandare a memoria, l’originale e il remake, tutte le volte che si puo’.

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