mercoledì 31 marzo 2010

Cancrena, 02


Mi è spiaciuto, per il vecchio.
Intendo dire, mi spiace di dovermene andare via da qui, da questa casa che ormai un pò mi apparteneva. Mi spiace di essere rimasta senza un posto dove stare e tutto quanto. Ovvio che mi spiace per questo - non sono un'ipocrita.
Ma non è solo questo.
La morte di quel vecchio bastardo mi ha addolorato, sul serio.
Non lo dico per piaggeria.
D'altro canto, che motivo avrei per fingere, ora che lui non c'è più?

Il vecchio era uno stronzo di merda.
E' così, è inutile negarlo, adesso.
Aveva un pessimo carattere (lui stesso lo riconosceva, nei rari ed effimeri momenti di serenità).
Era prepotente.
A comandare si era dovuto abituare assai presto, da quando era diventato - subito dopo una laurea a pieni voti in legge - il capo di un'illustre stirpe che aveva fatto la storia del paese. Aveva gestito gli affari da autentico patriarca.
La sua era sempre stata una famiglia assai ricca.
Amava raccontare che, ai tempi belli, quando faceva il brodo sua madre era solita buttare via la carne. Quando poi le cose svoltarono per il peggio, seppero comunque resistere alla grande crisi, subito dopo l'ultima guerra, stringendo la cinghia e dannadosi l'anima per riuscire a mettere insieme il pranzo con la cena. E così risalirono la china, lentamente, fino a tornare a essere la piu' grande azienda agricola di tutto il paese, anzi dell'intera provincia.
Dopo, i suoi nipoti si erano mangiati tutto, o quasi, avevano dilapidato una fortuna. Avevano aperto una nuova ditta, facendola presto fallire, e poi un'altra, e un'altra ancora, una serie desolante di tentativi morti sul nascere, sino all'inesorabile crac finanziario.
Per ripianare i debiti, avevano dovuto vendere i gioielli di famiglia.
Di questo passo, commentava amaro il vecchio, avrebbero fatto la fine dei loro acerrimi rivali di un tempo - quei farabutti si erano ridotti a dormire con i polli e i conigli in soggiorno, e facevano pure i turni di guardia perché avevano paura che qualche balordo glieli portasse via durante la notte.

Di quell'immenso patrimonio l'unica cosa che resta, ora, è questa vecchia casa diroccata.
Una volta, era una villa padronale immersa in un parco lussureggiante di ippocastani e querce secolari, con il tronco contorto e la chioma maestosa. Sul retro, l’aia inghiaiata era coperta dalla vite rampicante che in estate, fittamente appesa a un traliccio di fili di ferro ormai arrugginiti, costituiva uno scudo impenetrabile ai raggi del sole. Sotto la pianta dei fichi, poco distante da lì, una fila di seggiole in metallo arrugginito era allineata a un muretto di sassi coperto di muschio. Alla sua ombra il vecchio era solito accogliere il tepore della primavera, discorrendo con i mezzadri dell’inesorabile passare del tempo.
Della vita e della morte.
E del lavoro, quello duro, che aveva conosciuto sin da bambino nei campi di granoturco e di orzo, disposti lì attorno sino alla strada provinciale che porta in città.

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