Quando il nostro recensore di fiducia, CJ, mi ha detto che per questa settimana avrei dovuto sostituirlo con un pezzo sul nuovo lavoro di Vinicio Capossela, mi sono stramaledetto per avergliene parlato.
Recensire Capossela non è facile nemmeno per i critici musicali “veri”, figurarsi per me. E poi quest’ultimo lavoro è davvero complesso e immenso, denso e stracolmo di suoni, voci e parole: forse la summa di un’intera carriera.
Ma tant’è, e quindi mi metto all’opera.
“Marinai, Profeti e Balene” è una sorta di concept diviso in due parti, per un totale di diciannove canzoni e circa un’ora e mezza di musica, che hanno per tema il mare - con particolare riferimento alle opere di Melville (Moby Dick su tutte) - e la mitologia omerica.
L’incredibile varietà di generi musicali, le particolarissime sonorità, ottenute con stratificazioni di strumenti rock, strumenti classici e “strumenti” inventati (lumachine di mare, pentoline, ondioline, teste di moro!), l’uso costante dei cori, a volte in chiave quasi operistica, e l’affabulazione ininterrotta di Capossela lo rendono il disco meno “facile” del nostro.
Quindi rilassatevi, sedetevi in poltrona, abbassate le luci, tenete a portata di mano il libretto dei testi – non dovete perdervi neanche una parola - e una bottiglia di rum invecchiato (io consiglio un Brugal Extra Viejo Gran Reserva, ma se siete ricchi andate direttamente sullo Zacapa Centenario).
La vecchia baleniera Pequod inizia il viaggio con l’impatto devastante, cupo e disperato de “Il Grande Leviatano” (“io vidi spalancarsi la bocca dell’inferno”) e prosegue con due brani più lievi, in particolare con il divertissement anni ’30 di “Pryntyl”, per approdare al non sense di “Polpo d’Amor”, la cui musica è stata scritta da Burns e Convertino dei Calexico.
Il momento topico del disco è “La Bianchezza della Balena”: “niente è più terribile di questo colore, una volta separato dal bene”. E in questa dicotomia lacerante, tra purezza e scandalo, tra bianco e nero, tra demonio e santità, tra cielo e mare – che sta alla base del disco e di tutte le sue opere, forse della sua vita - Capossela inchioda i suoi personaggi e le sue storie, sempre alla ricerca di qualcosa che non si trova, sempre ad un passo dal baratro.
Notevolissima anche “Billy Budd”, blues sgangherato impreziosito dalla chitarra di Marc Ribot; poi tra citazioni di personaggi biblici (“Job”) e omerici (“La lancia del Pelide”, quieta canzone d’amore), si conclude il disco 1 e inizia il disco 2, nel quale vengono introdotti strumenti di tradizione greca (lyra, daoulaki, flauti), a sottolineare le parabole mitologiche (la struggente “Le Pleiadi”, “Aedo”, “Dimmi Tiresia”, “Goliath” e infine “Vinocolo”, autentico sabba etilico).
Tra un brano tropicale (“Calypso”) e la filastrocca/minuetto “La Madonna delle conchiglie”, l’enciclopedica opera si avvia alla fine. In “Nostos” c’è l’esaltazione del viaggio di Ulisse, ma è l’ultimo brano, “Le Sirene”, a togliere il fiato (confesso di essermi ritrovato con gli occhi lucidi la prima volta che l’ho ascoltata… e pensare che una volta ascoltavo i gruppi hardcore di Washington): pianoforte, viola e contrabbasso, quasi a sottrarre tutto quello che viene prima (i suoni, i rumori, le idee) per lasciare Capossela nudo, indifeso, spossato per il lungo viaggio.
Che dire ancora?
Un disco enorme, non per la mole, ma per il coraggio, i mille spunti che offre, la genialità sempre presente, il lavoro di ricerca sui testi davvero di altissimo livello. Tolti due o tre momenti a mio parere minori, siamo in presenza di un lavoro davvero importante.
In spiccioli, 5 stelle.
Firmato: Big
Nessun commento:
Posta un commento