Non era facile dare un seguito a “For Emma, Forever Ago”, il debutto strabiliante dei/di Bon Iver del 2008, opera incensata e mitica (mitizzata?). Si trattava di una raccolta di esili ed eteree canzoni, letteralmente strazianti e un po’ naif, composte dal leader e vocalist Justin Vernon ritiratosi in un capanno isolato del Wisconsin dopo una lacerante delusione amorosa e al termine di una lunga malattia.
Questo secondo album eponimo – anzi doppiamente eponimo, Vernon preferisce chiamarlo “Bon Iver, Bon Iver” – non cade nel tentativo di ripetere quel mood unico e irripetibile, generato da una situazione contingente, ma invece arricchisce il loro repertorio di nuove trame, di un sound piu’ strutturato, di arrangiamenti piu’ sofisticati e orchestrali (fondamentali in questo senso le collaborazioni con Greg Leisz e Colin Stetson), senza tuttavia tradire gli elementi più tipici del suo stile ormai codificato: la voce in falsetto, trattata grazie all’uso del vocoder e a sovraincisioni multiple, le suggestive e malinconiche melodie a cavallo tra la tradizione folk ed emotività soul, una comunicatività unica malgrado i testi quasi incomprensibili (i lamenti stranianti di Vernon ci rammentano la lingua inventata dei Sigur Ros, o i virtuosismi vocali di Robert Wyatt e Tim Buckley).
Nel frattempo è infatti arrivato il successo, quello con la S maiuscola, e da lì collaborazioni illustri ed eterogenee (National, Kayne West, St. Vincent) e attestati di stima (Peter Gabriel ha inserito la cover di Flume nel suo ultimo album); e anche lo straordinario EP dello scorso anno, intitolato “Blood Bank”. Insomma, deve aver pensato Justin: cosa cazzo ci torno a fare in quel fottuto capanno del Wisconsin?
“Bon Iver, Bon Iver” è quasi un concept-album, nel senso che ogni brano è ispirato a un luogo del mondo, che sia reale o inventato, una sorta di diario di viaggio dell’immaginario nel clima gelido dell’America settentrionale (Bon Iver è una storpiatura di buon inverno in francese).
In apertura troviamo uno dei capolavori della collezione: “Perth”. “Una canzone heavy metal con un suono da Guerra Civile”, la definisce Vernon per via del suo incedere marziale. Gli altri capolavori sono le commoventi “Holocene” e “Michigant”, ballate post-rock che solo lui sa scrivere, e “Calgary”, primo singolo estratto, con la sua aspra e spiazzante coda noisy.
Un gradino sotto le bucoliche “Towers” e “Wash”, e anche l’innocuo intermezzo di “Lisbon, OH”.
I restanti tre pezzi presentano le maggiori discontinuità con il passato: in “Minnesota, WI” e “Hinnon TX” Vernon abbandona il falsetto mentre nella conclusiva “Beth/Rest” si permette addirittura di citare – alla maniera dell’ultimo Sufjan Stevens – il pop elettronico degli eighties, senza paura di apparire ridicolo (“Fuck it, I love the way this sounds").
Insomma, siamo in presenza di un vero artista: Bon Iver è – in campo musicale - la cosa piu’ bella che ci è capitata da qualche anno a questa parte.
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