E
già due anni fa, parlando del live, avevamo commentato che non capivamo quelli
che ogni volta storcevano il naso. Scrivevamo, davvero non li capiamo, quelli:
i Pearl Jam sanno fare bene i Pearl Jam, cos’altro dovrebbero fare?
E
anche questa volta fanno i Pearl Jam.
Ci
sono i consueti pezzacci adrenalinici ed elementari, con in testa “Getaway”/“Mind
your manners”, il primo singolo, che tuttavia non scaldano come un tempo, nel
mezzo le ballate elettriche “Sirens” (scelta come secondo singolo) e “Shallowed
whole”, buone per i live ma forse troppo telefonate, tipo Foo Fighters, oppure il
blues rock vecchio stile di “Let the records play” e , in coda, l’acustica intimista
di “Yellow moon” e “Future days”, un po’ ruffiane.
Tutto
come da copione, a parte una copertina orrenda.
O
forse no.
I
brani più interessanti a un ascolto prolungato sono quelli più atipici:
l’elettrica “My father’s son”, per via di quel ritornello in sospensione, una
“Sleeping by myself” che - già parte delle “Ukulele songs”, qui riarrangiata in
maniera impeccabile - sembra fare il verso a Weller e una “Pendulum” che
viaggia in territori quasi lisergici, scritta a sei mani da Vedder, Jeff Ament
e Stone Gossard.
Il
solito disco onesto dei Pearl Jam.
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