(July 24th, 1994) - PRIMA PARTE
Il fuso orario non perdona.
Alle quattro e mezzo siamo già in piedi, dopo esserci più volte girati e rigirati tra le lenzuola.
Non abbiamo nemmeno fame.
Quello che è certo, è che quel pazzo furioso dell'indiano tifoso di Baggio a quest'ora del mattino dorme della grossa, e l'ultima cosa che ha in testa è quella di svegliarsi per preparare il breakfast a noi tre sfigati. Fortuna che abbiamo pagato in anticipo, per cui possiamo silenziosamente andarcene da quello squallido motel, senza rendere conto a nessuno.
Dopo il problema alla Hertz con il cambio di auto, ieri era sorto un nuovo intoppo. Verso sera, avevamo telefonato alla KLM per confermare il volo di ritorno, ma ci avevano risposto che non esistevano prenotazioni per il 15 agosto a nostro nome.
Cazzo, non ne va bene una.
Che paese di merda, l'America.
L'unica era andare a verificare di persona. Allo sportello della compagnia di bandiera olandese del L.A. International Airport ci accoglie con un sorriso a trentadue denti uno steward di colore. Cioè, di colore: è un negrone coi controcazzi, sarà alto quasi due metri, un fisico da paura. Si mette male, toccherà dargli ragione su tutta la linea. In pochi istanti, l'energumeno verifica i dati del terminale, digitando rapidamente sulla tastiera, e alla fine alza il pollice verso di noi a segno di conferma:
- Ok, it's all right!
Che grande paese, l'America.
Il negro continua a sorridere, neanche fosse in uno spot di un nuovo dentifricio miracoloso. In modo assai galante ci consiglia di chiamare la compagnia per un ulteriore conferma nelle 72 ore precedenti l'imbarco a Los Angeles, perchè non si sa mai.
Usciamo rincuorati dall'aeroporto. Adesso tutto è a posto, si può partire. L'America ci aspetta.
Ripercorriamo i nostri passi e imbocchiamo di nuovo la freeway verso nord, in direzione Malibù Beach. Proprio quì ha inizio il celebre Sunset Boulevard, ovvero il viale principale di Beverly Hills, che percorriamo a velocità ridotta. Siamo nel paradiso dorato dello star-system cinematografico. Abitano tutti quì, quei buffoni. Sulla collina, riusciamo a intravvedere la scritta:
H O L L Y W O O D.
Bella cagata.
Da quà sembra fatta con il cartone. Sembra uno di quei festoni che si attaccano alle pareti alle festicciole di compleanno dei bambini.
Il Sunset non è altro che una sfilata di ville favolose e di giardini lussureggianti, peraltro nascosti alla vista dei curiosi e dei passanti mediante cancellate e recinzioni altissime, alla cui sommità è stato posto del filo spinato. I controviali punteggiati da altissime palme sono deserti, c'è solo qualche fuoristrada assurdo parcheggiato sul marciapiede, dal momento che ancora non è ancora esplosa la mania dei SUV.
C'è un silenzio assordante. Gli unici rumori che riesci a percepire sono gli scatti a intermittenza degli impianti di irrigazione automatici. Anche i cani da guardia sono ancora nel dormiveglia, evidentemente.
In prossimità della Downtown, la classica selva di grattacieli in acciaio e vetri, accostiamo per fare finalmente colazione. Lo stomaco vuoto inizia a lamentarsi. In un locale triste, arredato come un brutto fast food di periferia, sorseggiamo un caffè in tazza grande, lungo come la fame, accompagnato da un donut fritto, ma fritto all'inverosimile. Sarà anche il cibo preferito da Homer Simpson, resta il fatto che il donut è merda aalo stato puro. Ancor più se ti tocca ingurgitarlo alle otto del mattino.
Ci muoviamo in direzione sud-ovest, sulla Harbour Freeway, poi sulla Artesia e infine sulla Riverside.
Quando, grazie a Dio o a chi ne fa le veci, abbandoniamo la sterminata regione urbana di Los Angeles, abbiamo già percorso quasi 140 miglia, ovvero 200 km e suffella.
La Statale n. 10 conduce a Palm Springs, noto luogo di villeggiatura mondano, e poi a Indian Wells, Indio Hills.
A un tiro di sputo dall'oceano, la terra è secca e arida.
La temperatura si alza improvvisamente.
La strada è deserta, l'unico pericolo è rappresentato dai brandelli di copertoni abbandonati quasi dappertutto.
Dall'asfalto si alza un calore vaporoso.
Il traffico è diretto verso sud, in direzione San Diego, Orange County e Messico, la mecca di orde di minorenni e non solo, che si dirigono là per abusare di alcol e trip vari.
Scolliniamo le Mecca Hills, punteggiate da centinaia di mulini a vento, e raggiungiamo il bivio per il Cottonwood Pass, che costituisce l'ingresso meridionale del Joshua Tree National Monument.
A mezzogiorno entriamo nel parco, reso celebre dal disco degli U2.
La Cholla Cactus Garden è una distesa sterminata di strani ciuffi pelosi, soprannonminati Teddy Bear Cholla.
Diventeremo degli esperti di cactus, nei prossimi giorni: sapremo distinguere il Cholla dall'Organ Pipe, un cespo basso e largo, oppure da un saguaro, sicuramente il nostro preferito, un bastone verticale con due o tre diramazioni laterali che si piegano verso l'alto con un angolo retto. Notiamo una curiosa somiglianza con i vecchi pali del telegrafo, che da queste parti si possono ancora trovare.
Il Mohaved Desert è uno scenario imponente e desolante.
La Hidden Valley è tuttavia il piatto forte: ammassi e cascate di rocce erose dal vento e dalla pioggia sino a donargli splendide forme arrotondate, quasi geometriche, disseminate su una landa desertica di sabbia giallo-brunastra. Tra le rocce, spuntano eleganti e fieri gli alberi di Joshua. Lo spettacolo è grandioso, da commuoversi. Scendo dalla Camry per scattare qualche fotografia - un tormentone che ci accompagnerà durante tutto il viaggio, n.d.r. - e appena appoggio i piedi sulla sabbia bollente mi ustiono a puntino.
Il villaggio di Joshua Tree è attraversato in tutta la sua lunghezza da un'assurda strada a sei corsie, costeggiata da due file di piccole casette in legno.
Il tutto è così sproporzionato da sembrare perfetto.
In una taverna tipo saloon, gestita da una simpatica famiglia di Japan, come li chiamano quì, sbraniamo letterlamente degli ottimi hamburger con brocche di te' freddo a volontà. Ci voleva proprio.
Sul soffitto, un enorme ventilatore ruota senza sosta, cigolando in modo sinistro.
(segue)
2 commenti:
Architettone della p.m., a te Chatwin ti fa una pippa! Questi diari americani sono un fasto senza fine. Mi sono venute in mente le parole esatte del negrone: "NO change", al che io continuavo a dirgli "so it's all ok?" e lui impassibile, ridendo "no change"...una scena da film!
Rileggendo gli appunti tornano in mente tanti particolari sperduti in qualche angolo della memoria. Averli a disposizione qui sul blog, in futuro, potrà permetterci di cancellare qualche file dal nostro hard disk personale, e così facendo libereremo lo spazio per tutti i momenti belli ancora a venire.
Non sarà un'opera semplice trascrivere il tutto, ma penso ne valga davvero la pena.
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