giovedì 7 agosto 2008

QUASI COME KEROUAC, 04

(July 24th, 1994) - SECONDA PARTE

La strada taglia il Sonoran Desert in due porzioni uguali.
Attraversiamo questa landa arida e desolata con tantissimo entusiasmo e voglia di stupirci. Siamo gasati. La radio è a manetta. Sono le due del pomeriggio, e la temperatura sfiora i quaranta.
I laghi di Cadiz e Danby, incastonati tra le Iron e le Calumet Mountains, sono quasi un miraggio, un'oasi, dopo tante miglia di nulla e poi nulla. Oltrepassato il Granite Pass, incontriamo per la prima volta il fiume Colorado, che diventerà nostro fedele compagno di viaggio nei prossimi giorni. Il grande fiume costituirà, per lunghi tratti nel futuro del nostro viaggio, il confine tra gli stati della California e dell'Arizona, il Grand Canyon State.
Sulla Statale n. 62 non ci sono segni di vita, o quasi. Incontriamo una casa, o meglio la sua cassetta della posta (sempre collocata sulla strada principale, mentre le case a volte sono in fondo a lunghi viottoli polverosi), solo ogni morte di Papa.
La Camry viaggia a tutto gas. Ci avevano avvertiti che in California sono inflessibili contro gli eccessi di velocità. Se passi i limiti di un tot, ti portano dentro una notte, e la passi in cella, non ci sono di cazzi. Ma qui nel deserto, sembra impossibile incontrare una pattuglia. Dovrebbero scovarci con l'elicottero. Tipo Punto Zero. Tipo Kowalski. Ma per quale motivo dovrebbero seguirci con un elicottero, poi? Avranno dell'altro da fare, che seguire tre stronzi di turisti italiani su una fottuta Toyota a noleggio, pensiamo.

La lancetta del carburante crolla paurosamente. Succede tutto all'improvviso: dieci minuti prima segnava quasi un quarto di serbatoio.
Merda, siamo in riserva sparata.
Rallentiamo.
Big controlla la mappa. A dieci miglia da qui, nel buco del culo del mondo, è segnata una località chiamata Rice, proprio al bivio con una strada secondaria che corre verso sud, parallela alla ferrovia che porta al confine messicano.
Procediamo a bassa velocità, aiutati dal cruise control, un meccanismo per noi nuovo che non ti permette di superare un limite prefissato.
Merda.
Scorgiamo due case diroccate in lontananza, ai margini della statale.
Su una delle due costruzioni vi è ancora dipinta una scritta: WELCOME TO RICE. Poco più in là, un distributore abbandonato da anni. Nel piazzale c'è un auto con il cofano aperto, e il suo proprietario steso a terra a torso nudo, apparentemente addormentato.
Cazzo, faremo la sua fine, pensiamo.
Riprendiamo la marcia, e come per miracolo la lancetta risale un pò. Tra dieci miglia dovremmo essere a Grommet, così almeno dice la nostra carta. Non ci nascondiamo che ci sono discrete possibilità che Grommet possa essere come Rice, l'ennesimo villaggio fantasma in queste terre di frontiera. Avamposti dimenticati della mitica corsa all'oro che si scatenò nel secolo scorso.
Così è, infatti.
Anche a Grommet non c'è un cazzo di niente.
Adesso sì che siamo preoccupati. Qui in California chi rimane senza benzina si becca anche una pesante sanzione, oltre al fatto che su questa strada non passa un cazzo di nessuno e di telefoni neanche a parlarne...
Diciannove miglia più avanti la mappa segnala Vidal Junction, a poche miglia dal confine. Arriviamo lì con il motore che procede letteralmente a strappi, cercando di pescare le ultime gocce di nettare vitale dal serbatoio. Ancora tre o quattro miglia e non ce l'avremmo fatta. Facciamo il pieno in una stazione si servizio della Shell, e mentre ci godiamo lo scampato pericolo ci diciamo che non aspetteremo più di restare in riserva.

In Arizona il deserto è ancora più deserto.
Costeggiamo il Cactus Plain, una distesa infinita di saguari, il cactus più familiare nel paesaggio dell'Arizona meridionale. La strada statale n. 95 ci conduce a Quartzsite, dove imbocchiamo la Freeway n. 10 in direzione est verso Phoenix, la capitale.
Il sole è sempre alto all'orizzonte, e ci accompagna durante la nostra cavalcata attraverso il Ranegras Plain, le Big Horn Mountains, il Tonopah Desert. In realtà, il paesaggio è sempre uguale: rocce, sabbia rossa e cactus. E poi ancora rocce, sabbia rossa e cactus.
Qunado giungiamo a Phoenix, il sole sta tramontando e regala uno scenario assai spettacolare. La vista di questa magnifica cattedrale del deserto, questa selva di guglie e grattacieli illuminati dalla sua luce rossastra resterà indimenticabile. La freeway penetra nel superbo skyline metropolitano come nel ventre di un mostro, e offre una serie di vedute mozzafiato. Sostiamo all'Heritage Place per una rapida visita, ma il caldo è insopportabile.
Esausti, ci mettiamo in cerca di un posto decente dove passare la notte. Lo troviamo sulla strada in direzione est, verso Scottdale, un Motel pulito con una piccola piscina in cortile, dove ci immergiamo subito dopo esserci liberati dei bagagli. Il bagno notturno ci ritempra e offre un temporaneo sollievo alla terribile calura.
Usciamo per la cena a un orario assurdo. Verso le undici, prendiamo un tavolo al ristorante messicano lì a fianco. Il gestore, Tom, è un tipo robusto con due bei baffoni neri. Ci chiava più di cinquanta verdoni a cranio per dei tacos e delle tortillas col chili, ma rimane un tipo simpatico. Altri posti dove mangiare non ce ne sono. Cazzo doveva fare? Era chiaro che ci avrebbe chiavato.
La clientela del locale ci piace meno. Puttane attempate, facce rugose e vissute da giocatori d'azzardo e da magnaccia, bevitori di birra di mezza marca che alzano la voce, sempre in cerca di un pretesto per scatenare una rissa.
Non è il caso di restare a fare due chacchiere conviviali, pensiamo.
Sarà meglio se andiamo a controllare se c'è ancora tutto nella nostra stanza.

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