giovedì 16 aprile 2009
Good news dal Canada.
Un paese spesso dipinto come pigro e sonnolento, ma che in ambito rock da sempre ci regala grandi soddisfazioni: negli ultimi tempi Arcade Fire e Goodspeed You Black Emperor, oppure il recentissimo ottimo debutto dei Bruce Peninsula (e pensare che quei piccoli bastardi di South Park volevano dichiarargli guerra per colpa di Bryan Adams…)
A pochi giorni di distanza dall’uscita del nuovo album di Neil “Cavallo Pazzo” Young – recensito qui su PiacenzaSera da Tony Face – ecco anche il “Live in London” di Leonard Cohen, registrato durante la trionfale serata dello scorso 17 luglio all’Arena O2.
Si trattava del suo ritorno sulle scene, dopo un'assenza durata quindici anni, e incredibilmente ritroviamo un Cohen in splendida forma – cosa davvero sorprendente, dal momento che egli ha qualcosa come 74 anni.
Il grande cantautore canadese, elegantissimo nel suo doppiopetto gessato con cappello di feltro, non si risparmia affatto e dispensa al suo pubblico oltre due ore e mezzo di musica di classe sopraffina (al modico prezzo di Euro 19,99, quando si dice cosa si deve fare per risollevare il mercato discografico…)
Nel ripercorrere più di 40 anni di carriera, lo aiutano nell’impresa una band assai collaudata – spiccano Dino Soldo ai fiati/armonica e Javier Mas a banjo/mandolino – e uno strepitoso coro di voci femminili.
Come spesso accade, la scaletta non ci può soddisfare al 100%: a nostro giudizio mancano all’appello pezzi irrinunciabili quali, ad esempio, “Avalanche” (di cui è nota anche una cover di Nick Cave), “Chelsea Hotel No. 2” dedicata al suo fugace incontro amoroso con Janis Joplin nell’albergo più rock di New York City, “The Partisan”, “Seems So Long Ago, Nancy” (tra le tante del nostro tradotte in italiano da Fabrizio De Andrè, suo grande estimatore) e “Famous Blue Raincoat”.
Tuttavia, non mancano sia i classici come “Suzanne”, “Sister Of Mercy” ,“So Long, Marianne” e “Hey That’s No Way To Say Goodbye” (resa celebre dallo spot della BMW), dall’album di debutto del 1967, oppure “Bird On The Wire” e “Hallelujah” (memorabile la versione di Jeff Buckley e poi anche saccheggiata dallo X-Factor inglese), sia il meglio della produzione più recente: qui la parte del leone la fa l’album “I’m Your Man” (’88) dal quale vengono estrapolati ben 6 brani, tra i quali “First We Take Manhattan” (ricordo una notevole cover dei R.E.M.) e “Tower Of Song”.
Nessun brano invece dall’ultimo album di studio, non irresistibile, “Dear Heather” (2004).
In ogni caso, nella sequenza dei brani nulla è lasciato al caso: per il finale ecco “Closing Time” (è tempo di chiudere) e il bis – prima di salutare con un canto preso in prestito dal Vecchio Testamento – è “I Tried To Leave You”, un bellissimo standard blues durante il quale Cohen presenta al pubblico – uno alla volta - tutti i musicisti che lo accompagnano, proprio come si faceva una volta.
Gran signore, Cohen.
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