giovedì 3 dicembre 2009

A Milano piove da Dio


A Milano piove da Dio.
Cammino sul marciapiede, sul fianco di un muro scrostato e ricoperto di firme scarabocchiate con lo spray. Le auto procedono a velocità folle, schizzando l'acqua lurida e fredda sui miei pantaloni buoni.
La strada è resa sdrucciolevole dalla pioggia - lo so bene io che ho letteralmente aperto il cofano di una Uno Sting (argento metalizzato, mica cotica) su una panchina in calcestruzzo armato sul lungomare di Galway, Ireland - e poco piu' in là c'è un tamponamento a catena. Sfreccia un'autoambulanza con la sirena accesa.
Sotto i piloni del sottopassaggio ferroviario, un ragazzino con il cranio rasato e la tuta mimetica sta attaccando un manifesto (abusivo) di Forza Nuova.
C'è una grande fotografia di una donna stesa in terra, dolorante e piena di sangue, vittima di uno stupro, e le scritte:

E se fosse tua figlia?
E se fosse tua moglie?

Poi sotto: Sgomberare tutti i campi Rom, subito.

Osservo il ragazzino che intinge il pennello nel barattolo di colla, è poco piu' di un adolescente, non ha nemmeno un filo di barba, e intanto penso:
Se TU fossi mio figlio, caro ragazzo, ti prenderei a calci nel culo fino alla settima generazione.

Proseguo costeggiando anonimi caseggiati. Recinzioni in ferro arrugginito, muretti in calcestruzzo crepato e sgretolato, cortili d'asfalto invasi dalle sterpaglie. Ancora non siamo pronti per Expo 2015, temo.
Alla fermata del tram trovo riparo sotto una pensilina in plexiglass. Salgo sul numero due, puntualissimo. Mi piace leggere un libro stando seduto su quelle vecchie panche di legno massiccio e intanto osservare - attraverso il finestrino - la frenesia della gente là fuori. Cazzo, è spavenosa la percentuale di quelli che, mentre camminano con passo frettoloso, parlano al cellulare. Bisognerà fare una statistica, un giorno di questi.
Alzo gli occhi dal libro e la mia attenzione si sposta su una signora anziana con una vistosa parrucca colore rubino e un altrettanto strano turbante, che sembra fatto di stracci per la polvere.
Lei mi guarda e sorride.
Io ricambio, goffamente, e lei mi sorride ancora.
C'è da tenerselo stretto, un sorriso da parte di una sconosciuta, di questi tempi.

Scendo a Cordusio e mi incammino in direzione del Duomo. Ci sono un sacco di fottuti giapponesi in giro, riuniti in drappelli sotto la pioggia a fotografare le vetrine delle boutique d'alta moda. Ed è ancora primo pomeriggio.
La mostra di Hopper a Palazzo Reale è una mezza delusione. Tante opere minori, tanta grafica, mentre dei grandi dipinti a olio ci sono solo quelli del Whitney di New York, che ho già visto, anzi mancano addirittura i piu' belli. Manca soprattutto il celebre Nighthawks, del 1942, citato a piu' riprese da Wenders e da altri.
Non un evento all'altezza di una grande capitale europea, insomma.
Le didascalie ai lati delle opere esposte definiscono Hopper il poeta dell'anonimato e dell'isolamento delle metropoli - da non confondersi con la solitudine, scrivono i curatori. Sottolineano il suo "peculiare universo malinconico, solitario, metafisico e al contempo materiale", le sue "atmosfere vuote, silenziose, rarefatte, ovvero perfetti contenitori dell'esistenzialismo e della incomunicabilità invalicabile dell'uomo moderno".
Nulla da eccepire.

Sul metro del ritorno, raccolgo da un sedile vuoto una di quelle freepress che distribuiscono all'interno delle stazioni.
A pagina quattro trovo una notizia che mi colpisce.
Riguarda Francisco.
Figlio di immigrati messicani, Francisco soffre di una rara forma di autismo e vive con la sua famiglia - il padre è bracciante, la madre fa le pulizie - a Bensonhurst, Brooklyn, New York.
E' scappato di casa per paura di un rimprovero per un brutto voto, con solo una tessera della metro e dieci dollari in tasca.
Un budget risibile, che lui ha centellinato molto scrupolosamente negli undici giorni durante i quali è rimasto sempre sottoterra, sui treni, mangiando gli snack piu' a buon mercato prelevati dai distributori automatici. Per non farsi trovare, Francisco ha tolto la batteria dal cellulare. I genitori hanno immediatamente dato l'allarme, mobilitando parenti, polizia e consolato, che in realtà si sono mossi con un pò in ritardo, di un messicano gli importa poco, si sa.
Lo hanno ritrovato nei dintorni di Coney Island.

Immagino Hopper ritrarre Francisco sulla banchina, mentre è intento a scegliere dal distributore automatico un Mars, un KitKat o un sacchetto di patatine.
Il dubbio che divora Francisco.
Cazzo, il Kit Kat costa dieci centesimi meno, pensa alla fine.
E allora vada per il Kit Kat.
Poi Francisco che si allontana verso la scala mobile che lo riporta al livello superiore, dove si va a coricare su una panca di marmo ghiacciata, mentre un branco di umanoidi scorre eterea al suo fianco, di corsa, per rincorrere il vagone in arrivo giù al binario.

Potrà sembrare strano, ma durante questi undici giorni nessuno ha mai rivolto la parola a Francisco.
No, non lo trovo affatto strano, ha spiegato lui: a nessuno frega nulla del mondo e delle altre persone.


3 commenti:

proleter ha detto...

"Mi piace leggere un libro stando seduto su quelle vecchie panche di legno massiccio e intanto osservare - attraverso il finestrino - la frenesia della gente là fuori." ... nn vorrei essere paedante, ma leggi o guardi gli altri, deciditi

Gbattm ha detto...

è vero, sarà ora che mi decida...

Anonimo ha detto...

uno strabico può farcela tranquillamente