sabato 22 gennaio 2011


Pronti:via!, ed ecco il primo grande album del 2011.
Abbandonate le velleità progressive e la ricerca di nuove e piu’ complesse sonorità che avevano caratterizzato il pur ottimo The Hazards Of Love (2009), i Decemberists – una curiosità: la loro sigla non deriva, come era presumibile, dal mese di dicembre, bensì dal nome dei rivoluzionari russi che nel 1925 si ribellarono allo zar – riscoprono le radici e l’amore per la tradizione.
Una sorta di Bringing It All Back Home, insomma.
A questo scopo si ritirano nella tranquillità agreste di un granaio ai piedi del monte Hood, nei pressi della loro Portland – la stessa Portland che recentemente ha portato alla ribalta bands come Menomena, Tu Fawning e Phoenix – e danno alla luce The King Is Dead (omaggio agli Smiths), un album di classico folk-rock, apparentemente semplice, ma di grande immediatezza e impatto emotivo.

Si parte alla grande con Don’t Carry It All, poi Calamity Song è la prima, esplicita ammissione dell’adorazione per il jingle-jangle dei Byrds e dei primi R.E.M. (pare uscire da Murmur o da Reckoning; e infatti Peter Buck collabora in tre pezzi) e Rise To Me è una languida ballata in stile Nashville (Gram Parsons).
Con un disinvolto copia e incolla, Rox In The Box ripropone nel mezzo un’aria in stile Irish Heartbeat, e le successive January Hymn e June Hymn si reggono su delicati arpeggi di chitarra Gibson.
E’ una profusione di mandolini, fise e armoniche a bocca, tra Young, Dylan e Springsteen: prendete l’intro del potente (e bellissimo) singolo Down By The Water, par di sentire The Promised Land.
All Arise! è invece quasi una cover dei Creedence, e prima della conclusiva, malinconica Dear Avery (Red House Painters) c’è ancora tempo per un perfetto brano pop come This Is Why We Fight.
Girerà a lungo sui nostri Ipod.

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