lunedì 31 gennaio 2011
100.000 lire
Non avevamo trovato biglietti in prevendita, e allora eravamo partiti dal bar assai presto. Nell’abitacolo della vecchia utilitaria regnava un alone di pessimismo. Era la prima volta dei Pearl Jam in Italia: tutto esaurito da mesi. Ma noi si era deciso di andare su a Milano lo stesso. Vediamo come butta, ci eravamo detti. Una volta arrivati, neanche il tempo di parcheggiare e Big ti acquista da un bagarino quattro biglietti al modico prezzo di centomila lire l’uno, che a quei tempi – era appena uscito Vitalogy, nel 1994, se non ricordo male - con un centino ci facevi il signore un mese, se non avevi vizi particolari: una briscola in cinque ogni tanto e i gintonic della Pieve il sabato sera. Cazzo, Big, potevamo almeno parlarne prima, mi ero lamentato senza troppa convinzione, mentre lui silenziosamente soddisfatto, coi nostri biglietti in tasca, si dirigeva verso l’ingresso al palazzetto.
D’altro canto era il nostro periodo grunge: capelli lunghi sino alle spalle e camicie di flanella a quadri scozzesi comprate sul mercato, che ancora adesso sono buone per andare a funghi. A quei tempi, un Ep in vinile colorato di Touch I’m Sick dei Mudhoney, noi si era capaci di spendere una fortuna.
Inutile dire che non ci pentimmo affatto.
E’ con questi ricordi appena sfocati in testa che mi accingo ad ascoltare questo nuovo (ennesimo) live della band di Seattle, dato alle stampe per festeggiare il ventesimo compleanno a quasi tredici anni di distanza dal suo celebre predecessore, Live On Two Legs, ovvero il loro primo disco dal vivo ufficiale (con il quale, particolare curioso che ai fan piu’ accaniti non sfuggirà, non condivide alcun brano in scaletta). Tredici anni durante i quali Vedder e soci hanno pubblicato una serie impressionante di concerti, bootleg, performance acustiche.
C’era poco da aggiungere, quindi, e per questo la scelta dei pezzi è poco ortodossa: tutt’altro che un “Best Of”, Live On Ten Legs privilegia i rock’n’roll tirati e adrenalinici, per la gioia dei patiti del pogo: su tutti i classici Animal e Rearviewmirror (da Vs, 1993), Spin The Black Circle (da Vitalogy, 1994) e State Of Love And Trust (dalla soundtrack di Singles, 1991). Pesca poi ad ampie mani nel repertorio piu’ recente, con ben quattro brani dall’ultimo album Backspacer (bene Unthought Known e la ballata acustica Just Breathe), una sporca World Wide Suicide dal penultimo omonimo del 2006 e le riflessive I Am Mine e Nothing As It Seems, per recuperare solo nel finale i fasti degli esordi con il fantastico tris Alive, Jeremy e Porch. C’è spazio infine per le cover, a dire il vero non indimenticabili: Arms Aloft di Joe Strummer (Clash) in apertura e Public Image dei P.I.L., la creatura di John Lydon post Sex Pistols: come a dire, veniamo proprio da lì, dal punk.
Qualcuno, sul web, storce il naso.
Io davvero non lo capisco, quel qualcuno: i Pearl Jam sanno fare bene i Pearl Jam, cos’altro dovrebbero fare?
Qualcuno insiste cioè a dire che da decenni non fanno altro che canonizzare se stessi, riproponendo la solita minestra della nonna. Mah, forse perché il mio povero nonno non era davvero un drago in cucina – per dirne una: mescolava lo sciroppo di tamarindo con quello di orzata per ottenere un orrendo beverone -, noi da quella nonna ci andremmo tutti i giorni, a mettere le gambe sotto il tavolo.
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