“Croz” è il suo soprannome storico. La scelta del titolo si deve a un
gioco iniziato tanto tempo fa, nel 1971. Il suo primo album da solista
si intitolava infatti “If I could only remember my name” (Se solo
potessi ricordare il mio nome), grande disco, e il suo secondo invece,
nel 1989, “Yes, I can” (Sì che posso). Quindi, il terzo: “Croz”.
Lui, David Crosby, è un grande della musica americana, uno dei maestri
della West Coast – prima nei Byrds poi nel celebre trio con Stills &
Nash, che arruolarono successivamente Neil Young – degli anni Sessanta e
Settanta.
Croz torna inaspettatamente, dopo oltre un ventennio di silenzio.
All’età di settantatre, con il coraggio di ieri. Forse per via del nuovo
fegato, recentemente trapiantato (una vita di bagordi, il nostro Croz).
E non delude le aspettative.
L’iniziale “What’s broken” è una raffinata ballata jazzy costruita
attorno la suadente chitarra di Mark Knopfler. Come “Slice of time”,
ricorda le atmosfere - recenti - di Iron&Wine e Deastroyer. Le
successive “Time I have” e “Holding not to nothing” (con la tromba di
Wynton Marsalis) hanno un tono più intimista e crepuscolare, così pure
“Morning falling”. Stesso mood per “If she called”, anzi più drammatica:
scritta osservando, dalla finestra di un albergo tedesco, alcune prostitute allineate ai bordi di una strada.
L’elettrica “The clearing”, con una bella coda di chitarre, la
radiofonica (!) “Radio” – con un delizioso ritornello pop - e “Dangerous
night” hanno un eco decisamente Seventies, ma del lotto nostalgico il
brano che più piace è “Set the baggage down”, psichedelica e amara. Un
pezzo che molte delle bands della cosiddetta scena neopsichedelica gli
invidieranno non poco. Bentornato, Croz.
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