domenica 29 agosto 2010
Superstar dell’alt-rock, acclamatissimi da pubblico indie e da critica specializzata, i canadesi giungono al terzo album (dopo i favolosi ‘Funeral’ del 2005 e ‘Neon Bible’ del 2007) ovvero - come spesso accade - il vero e proprio l’esame della maturità (lo fallirono i Pink Floyd, per fare un esempio illustre, e non andarono benissimo Doors e Velvet Underground; in tempi piu’ recenti così così i R.E.M., esplosione definitiva invece per U2 e Radiohead), ben piu’ del secondo sul quale in fondo si può sempre vivere di rendita.
Stretti nell’apparentemente insanabile dubbio tra una ripetizione di schemi sin qui già proposti e l’inevitabile rischio dello sperimentare e di cercare nuove sonorità, il collettivo di Montreal sceglie alla fine di stare nel mezzo, e così facendo allunga oltre misura la durata dell’album: sedici brani per una durata di quasi sessantacinque minuti.
Proprio l’eccessiva lunghezza e l’accurato formalismo dell’album finiscono per togliere qualcosa alla freschezza spregiudicata e alla tensione emotiva degli esordi, tuttavia The Suburbs si fa piacevolmente ascoltare per il suo pop raffinato e per un sempre assai riuscito amalgama folk/wave (Neil Young che incontra Television, Talking Heads e New Order).
La sensazione è che gli Arcade Fire – come scrive Storiadellamusica.it - non abbiano avuto il coraggio di scegliere, di sfrondare, a ridurre all'essenziale, trascinandosi dietro molto materiale, piuttosto eterogeneo in certi punti, pur di accontentare tutti: e la noia, qua e là, fa capolino, anche se in ultima analisi il livello medio dei pezzi rimane eccellente sino alla fine.
Gli episodi migliori, a giudizio di PiacenzaSera, sono quelli che riprendono il filo del discorso interrotto tre anni orsono (The Suburbs I e II, The Sprawl I, la quasi byrdsiana Suburban War, Ready To Start e la spettacolare accoppiata Half Light I e II) descrivendo – stavolta come in una sorta di concept album – un paesaggio contemporaneo alienato e alienante, fatto di desolate lande suburbane fatte di centri commerciali e di outlet, di autolavaggi e di svincoli autostradali, di vuoti e assolati piazzali d’asfalto, di immense aree di parcheggio e di schiere interminabili di villette a schiera. Ovvero quello che gli urbanisti definisco appunto “Sprawl” (“Sometimes I wonder if the world’s too small/that we can never get away from the sprawl”), una rapida e disordinata crescita di un'area metropolitana a misura di automobile e priva di spazi pubblici o collettivi (“In the suburbs / I long to drive / And you told me we’ll never survive / Grab your mothers keys we’re leaving”).
Convincono invece meno le svolte più marcatamente disco-wave (Empty Room, Sprawl II) – leggi anche: non se ne può davvero piu’ del revival ‘80… - e i barocchismi di Rococo.
Il tempo dirà se anche The Suburbs contiene dei classici come Intervention, Neighborhood #1, Rebellion (Lies), nel frattempo godiamoci questa nuova raccolta di grandi canzoni che si candida, sin da ora, al podio di un’annata assai avara (per ora) di capolavori.
lunedì 2 agosto 2010
lunedì 12 luglio 2010
La nostra rubrica settimanale di recensioni in ambito pop-rock va in ferie fino a settembre. Nell’augurare a tutti i lettori un’estate serena e ricca di emozioni, PiacenzaSera vi consiglia una sorta di compilation con il meglio – a nostro umile giudizio - del primo semestre dell’anno in corso.
Questi i venti pezzi, in rigoroso ordine alfabetico.
NB: Per evitare le solite accuse dei soliti detrattori - del tipo: che palle, mi sono addormentato a metà; oppure: mi hai messo addosso una tristezza tale che per tirarmi su mi sono andato a rivedere un film di Michelangelo Antonioni - ho inserito un paio di pezzi modaioli e danzerecci (è o non è una compilation per l’estate?): e dunque Ok Go (divertente il videoclip in heavy rotation su Mtv) e LCD Soundsystem (un bizzarro incrocio tra Devo e Talking Heads).
NB2: Ci sono anche tre bonus tracks per evitare altre due tra le piu’ classiche delle accuse, cioè quella di considerare solo il mondo cosiddetto occidentale e di ignorare la scena italiana.
Acts Of Man – MIDLAKE
Andromeda – PAUL WELLER
Angel Echoes – FOUR TET
Drunk Girls – LCD SOUNDSYSTEM
God Made Me - SHEARWATER
Hengilor - JONSI
Lemonworld - NATIONAL
Never Follow Suit – THE RADIO DEPT.
Pieces - VILLAGERS
Queen Of Denmark – JOHN GRANT
Rhinestone Eyes - GORILLAZ
She Gone - GONJASUFI
Splitting The Atom – MASSIVE ATTACK
Sweetness – MICA P. HINSON
Swoon – CHEMICAL BROTHERS
This Too Shall Pass – OK GO
Trouble In Mind – ERLAND & THE CARNIVAL
Unknown Brother – BLACK KEYS
When A Man Cries – DIVINE COMEDY
Zebra – BEACH HOUSE
Bonus Tracks:
Beautiful Tango – HINDI ZAFRA
Hoja En Blanco – AMPARO SANCHEZ
Puoi dirlo a tutti – TRE ALLEGRI RAGAZZI MORTI
mercoledì 7 luglio 2010
martedì 29 giugno 2010
La perfida Albione se ne torna mestamente a casa dal Sudafrica – il (clamoroso) goal fantasma di Lampard non è un alibi che regge per i patetici leoni di Capello: Rooney sembrava la controfigura di Iaquinta – ma si consola con numerosi ritorni importanti in campo discografico.
Di Paul Weller e del suo Wake Up The Nation! – ovvero l’amarissimo controcanto al crepuscolo del New Labour - è stato già detto, e allora dobbiamo parlare dei nuovo album dei Divine Comedy di Neil Hannon (Bang Goes The Knighthood) - sempre di livello eccelso e con un’ottima When A Man Cries, barocchismo degno del miglior Peter Hammill o del Bowie di mezzo -, dei Teenage Fanclub (Shadows) – i beniamini di Nick Hornby non deludono le attese -, di Robyn Hitchcock con i suoi Venus (Propellor Time), vecchio maestro della psichedelica pop, e dei mitici e immarcescibili Fall di Mark E. Smith da Manchester (Your Future Our Clutter): questi ultimi due non li abbiamo ancora ascoltati – musica per le orecchie per gli amanti e i nostalgici degli Eighties - ma promettiamo di tornarci sopra al piu’ presto.
Ma il maggior clamore è per l’ottavo album dei Chemical Brothers (Further: “Piu’ avanti”).
Chi scrive non è mai stato un fan sfegatato del duo londinese (al secolo: Ed Simons e Tom Rowlands), e nemmeno della musica dance/techno – il cosiddetto Big Beat - tanto in voga nei club negli anni Novanta (Prodigy, Fat Boy Slim).
Eppure Further si differenzia dalla recente produzione dei fratelli chimici perché abbassa un po’ il tiro, pretende meno insomma e infatti è piu’ divertente; dunque possiamo goderci, senza dovercene vergognare, la semplice melodia elettronica stile Daft Punk o Air del singolo Swoon – strepitoso il videoclip, una vera e propria opera d’arte digitale – e di Another World, il kraut di Snow e K+D+B, la citazione di Baba O’Riley dei Who nella lunga ed estenuante Escape Velocity (lunga), mentre piu’ scontata (e rimasticata) suona Horse Power.
Pubblicato su Virgin, sarà uno dei tormentoni dell’estate 2010.
sabato 19 giugno 2010
Chi come noi si porta l’Irlanda nel cuore non può che rallegrarsi per questa opera prima del giovane dublinese Conor J. O’Brien, alias Villagers.
Abbiamo scoperto per caso il singolo Becoming A Jackal – stesso titolo dell’album – grazie a un insolito passaggio in F***ing Good Music, ottima trasmissione serale della rete satellitare brand:new di Mtv, e subito ci hanno sorpreso il suo delicato fraseggio folk e la sua immediatezza comunicativa: la critica per lui ha scomodato paragoni scomodi con Elliott Smith, Sufjan Stevens e i Bright Eyes.
Il disco si apre con le orchestrazioni immagnifiche di I Saw The Dead, che narra di un funerale sotto il mare, prosegue con il singolo stesso e con la ritmata Ship Of Promises, dalle parti degli Wilco.
Ma è nella parte centrale che raggiunge l’apice con un pop fiabesco dalla freschezza invidiabile: Home, That Day - con spettacolari cori in farsetto a là Bon Iver - e infine The Pact (I’lle Be Your Fever), una marcetta sixties con un ritornello irresistibile.
Becoming A Jackal (= “Diventando uno sciacallo”, qualcosa che si avvicina a un concept album sulla storia grottesca di un ragazzo che si trasforma appunto in sciacallo) sembrerebbe mostrare, nel finale, qualche segno di stanchezza ma l’indice di gradimento si impenna all’improvviso con la meravigliosa Pieces, il brano migliore di tutta la raccolta, sospesa tra un’atmosfera vagamente jazzy (Tindersticks, Divine Comedy), una magistrale interpretazione vocale tra Damien Rice e Tom Yorke (Radiohead) e un finale da licantropo in stile Eels.
Per PiacenzaSera una delle proposte piu’ interessanti dell’anno in corso.
Anzi.
E se ci trovassimo di fronte (per restare in Irlanda) all’erede di Van - The Man - Morrison?
lunedì 7 giugno 2010
Dopo aver preso un cazziatone dall’amico J. per non aver inserito San Patricio dei Chieftains con il mitico Ry Cooder (a suo dire, il disco dell’anno, a dire di J., intendo dire) nel pezzo di due settimane orsono dedicato a una serie di collaborazioni inusuali e feconde tra artisti di estrazione differente - mea culpa - non posso esimermi di recensire il sesto album di Micah P. Hinson: un suo, un nostro, vecchio pallino. Anche perché Tony Face ha già parlato dalle colonne di PiacenzaSera di alcune interessanti uscite di maggio, tra le quali l’ottimo Brothers dei Black Keys – davvero una sorpresa, grazie Tony - e i Dead Weather, per la verità un po’ legnosi quest’ultimi.
Il folksinger texano – avete notato quanti texani, ultimamente? Per fortuna, non solo i Bush da quella terra arida e ricca – ritorna con un disco da battaglia: "I pionieri sabotatori hanno il cuore pieno di rabbia. Guardiamo il mondo cambiare e non ci piace quello che vediamo". Basti citare la cover del disco, con una canna di pistola puntata contro l’osservatore, o il titolo dell’ouverture strumentale, fin troppo esplicito: A Call To Arms (Una Chiamata Alle Armi).
Troviamo in quest’opera tutto quello che ci è sempre piaciuto nei suoi lavori precedenti, ovvero il consueto immaginario della grande pianura americana: Walt Whitman, l’epica western, ritratti di frontiera, predicatori falliti e venditori di bibbie (My God), matrimoni in crisi (Seven Horses Seen), la voglia di fuga e di ribellione, gli archi e il pianoforte, la malinconia e la speranza. E poi il maestro Johnny Cash, l’eco di Calexixo e Black Heart Procession (The Striking Before The Storm e soprattutto The Cross That Stole This Heart Away), del revival wave di National e compagnia briscola (Watchman, Tell Us Of The Night), persino i fasti del Nick Cave mistico di The Ship Song (in 2nd and 3rd) e sperimentazioni noise forse troppo ambiziose (The Returning).
Ancora una volta, tuttavia, il meglio di sé Micah (pronounced: “maica”) lo da’ con una manciata di struggenti canzoni d’amore (The Letter At Twin Wrecks (Dear Ashley), dedicata alla moglie), tra le quali emerge la delicatezza e la disarmante semplicità, apparentemente persino banale, di Take Off That Dress For Me, tra Cohen e il primo Waits.
Alla fine, tutti d’accordo con J.: ottimo lavoro, Maica.
PS: presto lo vedremo in Italia: il 16 luglio a Verona, il 17 al Pistoia Blues Festival, il 18 luglio a Ferrara, il 19 luglio a Roma e il 20 luglio a Torino.
sabato 22 maggio 2010
3+3=6
E’ un periodo di collaborazioni inaspettate e contaminazioni feconde.
Ben vengano, in un periodo come questo, in ultima analisi caratterizzato dall’assenza di album indimenticabili, di quelli da portarsi dietro in una fantomatica isola deserta (che poi magari arrivi là per ascoltarti in santa pace, che so, “Rock Bottom” di Robert Wyatt o “Blonde On Blonde” di Bob Dylan, e improvvisamente piombano lì, a romperti i coglioni, Daniele Battaglia - chi cazzo sarà mai, poi, Daniele Battaglia? - e Aldo Busi, Massimo Ciavarro o Giucas Casella).
L’ex-leader dei Talking Heads non è certo nuovo a questo tipo di scommesse: basti qui ricordare il seminale My Life In The Bush Of Ghost, inciso con Brian Eno (ovvero: l’incontro di due geni musicali che dà vita a un autentico capolavoro) e i lavori con Mogway, Paul Simon e Ruicky Sakamoto.
Con il celebre Dj inglese (al secolo Norman Quentin Cook) ed ex-membro degli Housemartins, egli costruisce un vero e proprio concept album ("Here Lies Love"), ovvero un ciclo di canzoni dedicate alla controversa figura di Imelda Marcos, amante della bella vita e vedova dell'ex-dittatore delle Filippine, già portato a teatro sotto forma di musical a partire dal 2007. Album sovraccarico e tutto sommato un po’ faticoso: ci sono la dance, il funk elettronico degli esordi, gli ovvi aromi sudamericani, e anche inutili barocchismi; soprattutto, una serie impressionanti di vocalists femminili che, pazientemente in attesa del loro turno, danno voce a Imelda e alle altre donne importanti della sua vita: Natalie Merchant, Cindy Lauper, Tori Amos, Martha Wainwright, Kate Pierson dei B52’S, Florence & The Machine.
Dopo dodici anni alla guida degli Amparanoia, la cantante Andalusa Amparo Sánchez intraprende la carriera solista chiedendo aiuto ai Calexico, ai quali ella aveva prestato la sua splendida voce in Inspiración (sull’album "Carried to Dust"). Il risultato non poteva che essere eccellente: "Tucson Habana" è un disco elegante e raffinato, caldamente consigliato anche dall’amico Big, con una malinconica atmosfera latina appena venata da accenti jazz e blues, e – sullo sfondo – il riconoscibile contributo dei maestri Burns e Convertino, rispettivamente alla batteria e alla chitarra.
Ma la palma del connubio piu’ inedito e sorprendente se la guadagnano i bravi Okkervil River di Will Sheff, qui ad accompagnare il clamoroso rientro – dopo quindici anni di silenzio, caratterizzati da tragedie personali e da un profondo travaglio interiore - di Roky Erickson, ex-leader (è tutta una parata di ex…) della garage-band californiana dei 13th Floor Elevators (come non ricordare You’re Gonna Miss Me?, uno dei brani migliori dell’esaltante stagione dei Sixties).
Sheff, con un lavoro di ascolto certosino, ha scelto una manciata di brani tra gli oltre cento composti dal suo vecchio idolo, e si è offerto di accompagnarlo con la sua band per una rivisitazione di alto livello, tendenzialmente lo-fi, con echi di psichedelia, rithm’n blues e hard-rock.
Giovanni Battista Menzani
www.cjmoleskine.blogspot.com
giovedì 20 maggio 2010
domenica 16 maggio 2010
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