martedì 22 marzo 2011

Fragola e cioccolato


C’era quello scrittore francese – Delerme mi pare si chiamasse – che ha venduto un pacco di copie del suo libro che semplicemente elencava i piccoli piaceri della vita, quelli a cui davvero non si può rinunciare.
Il primo sorso di birra, cose del genere.
Ebbene, venerdì scorso, ho pensato a lui e al suo libretto del cazzo quando, dopo essere passato a prendere mia figlia davanti a scuola, per la prima volta ci siamo fiondati – io e lei e una masnada di bambini chiassosi – nell’unica gelateria del paese, che ha aperto i battenti da pochi giorni dopo la pausa invernale.
Il sole del tardo pomeriggio ancora scaldava e si poteva stare in mezze maniche, e quindi abbiamo impilato i cappotti e i giubbotti sulle sedie di plastica bianca affiancate al muro coperto di muschio o appoggiati in terra vicino alla vetrina.
Dentro al negozio, ho convinto tutti quanti a prendere un cono di fragola e cioccolato.
E’ tradizione che il primo gelato della stagione debba essere fragola e cioccolato, ho detto ai bambini che mi guardavano increduli.
E’ una regola ormai consolidata.
(Non credevo ci cascassero così facilmente, erano già sul punto di cedere).
Infrangere la regola porta sfiga, ho aggiunto: non sia mai.
E così quei poveretti si sono presi un cono fragola e cioccolato, tutti, senza eccezioni, sotto lo sguardo pieno d’odio della gelataia per via che i cestelli degli altri gusti rimanevano immacolati.
Avrebbe voluto dirmi, e bravo il mio cretino, adesso a chi la do’ la zuppa inglese?
Al gatto?

Comunque: cos’era buono il mio cono fragola e cioccolato.
Me lo sono gustato passeggiando avanti e indietro sull’ampio marciapiede che fronteggia la provinciale, dove - appena accostato sul lato sbagliato della strada - era parcheggiato lo scuolabus del paese, un pulmino arancione, un Turbodaily tutto ammaccato e con i fari pieni di condensa e i tergicristalli senza spatole che quando piove bisogna andare a passo d’uomo e mettere fuori la testa dal finestrino. Sarà un Euro0, quel fottuto Turbodaily. Cazzo, quando parte sprigiona una nube tossica che è peggio della centrale di Fukushima.
L’autista – che poi è anche il cantoniere, e anche il necroforo, quando occorre - era dentro la gelateria, lui e il suo equipaggio: quattro o cinque bambini, tutti maschi, chissà se c’è un motivo che sono sempre tutti maschi quelli dello scuolabus. Ha ordinato un cono per ognuno di loro. Sbrigatevi a scegliere i gusti, ripeteva ad alta voce, visibilmente spazientito dalla lunga attesa. C’era un bimbo originario dell’Ecuador o giù di lì che non capiva la domanda della gelataia, che da qualche minuto gli stava chiedendo se voleva le praline colorate. Un bel bambino, con il viso tondo e una frangia così di capelli corvini. Suo fratello invece è un gigante, fa paura. Fa le medie ed è piu’ alto di me, non che io sia poi così alto, ma insomma. Porta i capelli lunghi, oltre le spalle, e, cazzo, sembra proprio l’indiano di Qualcuno volò sul nido del cuculo, quello che alla fine sradica il lavandino di marmo e lo scaglia contro le inferriate, le sfonda e infine si allontana dal manicomio. Le vuoi o no le praline colorate?, ha sbuffato l’autista. Poi si è avvicinato al banco e ha fatto per pagare. Sei gelati da un euro e mezzo per un totale di nove euro. Allontanandosi mi ha visto e si è accorto che lo stavo osservando e allora mi ha fatto, prendo cinque euro di straordinario per portare a casa questi piccoli bastardi e ne spendo quasi il doppio per pagargli il gelato.
Hai fatto un affare anche oggi, ho detto io con un sorriso compiaciuto.
Cazzo, ha risposto lui.
Poi mi ha schiacciato l’occhio e ha iniziato a richiamare i bambini, ricordando loro che dovevano muoversi, cazzo, erano già in ritardo di quindici minuti sulla tabella di marcia.
Avete finito o no?, ripeteva.
Uno di loro era ancora indietro con il suo gelato e ha fatto il gesto di salire sul bus, e allora l’autista si è incazzato sul serio e lo ha preso per un orecchio, delicatamente, però. Non puoi mangiare il gelato sul bus, gli ha detto. Fa già schifo così, ci manca solo che mi sporchi i sedili col tuo gelato. Infine ha aspettato che quell’altro finisse, ha caricato il suo equipaggio sul bus, ha salutato con un gesto della mano e poi ha ingranato la marcia verso le colline ricoperte di vigneti ancora spogli.
E io me ne sono restato in silenzio a finire il mio cono fragola e cioccolato.
Ancora più felice, però.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Una fissazione col "cazzo", almeno 2 o 3 volte in ogni frase.
La stessa fissazione con la volgarità, se ho colto bene, degli Afterhours... Peccato che loro la definiscano "arte", perchè meglio questa che essere "coglioni",no? Ma è prova di quanto vaghino da soli, per campi sconfinati, senza una vera strada.
Bella libertà, quella di non poter arrivare da nessuna parte.

E poi bel libro quello di Delerm, ma è pieno di cose che rendono bella la vita, non per cui valga la pena vivere.

Forse è il primo commento vero che ricevi? :)

Ciao,
Christian Wilde