sabato 18 settembre 2010

E, again


Mr E – al secolo Mark Oliver Everett - lo avrete capito, è un nostro pallino.
Dunque l’inizio di settembre si presenta con un’accoppiata da urlo: nuovo disco e concerto milanese all’Alcatraz (15.09), unica tappa italiana di un tour partito il 3 agosto scorso dalla California. Tanta roba, come dicono oggi i gggiovani.
Qualcuno però potrebbe storcere il naso: ancora gli Eels... Tuttavia, non è colpa nostra se incidono ben tre album nello spazio di soli diciotto mesi – lo ammettiamo, possono sembrare tanti – per completare con Tomorrow Morning la trilogia iniziata con Hombre Lobo nel 2009 e proseguita con End Times all’inizio dell’anno.
Diciamolo subito: il disco è un gran disco.
Piu’ arioso e solare rispetto al capitolo precedente. Ovunque aleggia una vena di ottimismo e di riappacificamento con il mondo. "L'accostamento a "Tomorrow Morning"", dice Mr E. nel presentare il nuovo lavoro, "cambia il significato del titolo di "End Times": come potrebbe essere davvero la fine se domani c'è un nuovo mattino?".
Si parte con un breve strumentale, punteggiato dai campanelli sintetici che con il tempo sono diventati un loro marchio di fabbrica, a cui succede I’m a Hummingbird, un brano dall’aria quasi space accompagnato da soli archi. The Morning è la prima delle solite straordinarie ballate (What I Have To Offer, That's Not Her Way): è davvero notevole la quantità sfornata nel tempo da E. senza correre il rischio di apparire ripetitivo.
Baby Loves Me – così come The man - riprende i passaggi piu’ ruvidi di Hombre lobo, mentre Looking Up è un blues sporco a là Cave.
Il singolo Spectacular Girl e la già citata What I Have To Offer introducono le bellissime
This Is Where It Gets Good, con la suo incedere ipnotico e la sua coda elettronica con tastiere e sample in gran spolvero (sembra di ascoltare Beck rifare un pezzo dei Can di Tago Mago) e – dopo un altro breve strumentale - Oh So Lovely, con gli archi a cura della Tomorrow Morning Orchestra e la cui atmosfera mistica rimanda ai tempi di Beautiful Freak.
Il finale segna sereno. I Like The Way This Is Going è la piu’ classica dichiarazione d’amore e i cori della conclusiva Mystery Of Life sono il presagio di un futuro luminoso, di un risveglio, così come l’albero di Jacaranda in fiore sulla cover dell’album.
La versione deluxe ha un EP allegato contenente quattro tracce inedite (Swimming Lesson, St. Elizabeth Story, Let’s Ruin Julie’s Birthday e For You): anche in questo caso si tratta di materiale ampiamente sopra la sufficienza.

Dal vivo gli Eels non deludono, anche se resta qualche rimpianto per la durata scarsina del concerto (poco piu’ di 90 minuti) e per l’assenza di quasi tutti i grandi classici. Mr E. si presenta con un’inquietante look fatto di bizzarra bandana, occhialoni neri e barba foltissima, e il resto del gruppo non è da meno: picchiano duro, e con quelle barbe sembrano gli ZZ Top suonare i Ramones. Ripropongono buona parte della trilogia, con soli 3 brani da Tomorrow Morning: Spectacular Girl, Looking Up e Oh So Lovely, l’ultimo bis e tra i brani migliori insieme a Fresh Blood, Prizefighter, I Like Birds e il gioiello That Look You Give That Guy.

domenica 5 settembre 2010


Giugno 1985: arriva, per la prima volta assoluta in Italia, il Boss.
Un evento da non perdere, nemmeno per tutto l’oro del mondo.
E’ uno Springsteen all’apice della sua carriera, reduce dal successo planetario di Born in the U.S.A.
Dopo una faticosa ricerca tra i negozi della nostra piccola città ci arrendiamo all’evidenza: non si trovano più biglietti. Decidiamo ugualmente di partire - poco prima dell’alba - alla volta di San Siro. Li prenderemo dai bagarini, pensiamo. Sui viali che portano allo stadio, è ancora buio e il vapore misto allo smog inizia ad alzarsi dall’asfalto, un semiarticolato ci taglia improvvisamente la strada e urta la vecchia Panda del Gigio, sfasciandole la fasciata sinistra, peraltro già ammaccata qua e là. Fermati Gigio, abbiamo ragione, diciamo noi. Frega’n cazzo, dice lui: c’è il Boss.
E allora ripartiamo, incuranti del clang clang metallico della portiera che penzola verso l’asfalto e, alla fine di una lunga ed estenuante trattativa con un tipo in canottiera e infradito, investiamo la cifra assurda di 50.000 lire a cranio: mica cotica, ai quei tempi per guadagnarli dovevi farci la campagna dei pomodori tutto agosto.
Ed è l’apoteosi.

A distanza di venticinque anni è uscito il doppio dvd ”London Calling: Live In Hyde Park”, concerto di Bruce Springsteen & The E Street Band registrato all’Hard Rock Calling Festival di Londra esattamente un anno prima, il 28 giugno 2009.
E’ un Boss in gran forma, malgrado una voce sempre più rauca - a tratti incomprensibile - e una registrazione audio imperfetta (in particolare per ciò che riguarda il sax di Clemmons). Si diverte, ride e saltella sul palco come un ragazzino, sudato come una capra, ammiccando ruffiano verso un Little Steven anche lui invecchiato e Clarence “Big Man” Clemmons, “l’uomo piu’ grande che avete mai visto in tutta la vostra vita”.
La scaletta è da paura.
Si apre con una trascinante cover di London Calling, e lo scenario apocalittico post-nucleare del mitico pezzo dei Clash viene idealmente unito all’apatia depressa delle Badlands della provincia (“lavorare nei campi/fino a che ti bruci la schiena/lavorare giù in officina/fino a che non ti si schiariscono le idee”) per iniziare quello che il London Times ha definito “un viaggio di tre ore a tutto gas attraverso l'America di Springsteen”
Durante la sua esibizione Springsteen raccoglie dal pubblico cartelli con richieste personalizzate, fingendo di assecondarle: Downbound train, dice uno, Adam raised A Cain un altro, Cadillac ranch un altro ancora. Lui, è ovvio, non può accontentare proprio tutti ma – come tradizione consolidata – non si risparmia neppure per un attimo e infila oltre tre ore di energia pura e di grandissimo rock’n roll.
E allora c’è spazio per i brani recenti (Working On A Dream, The Rising, Radio Nowhere, Outlaw Pete e una simpatica Waiting On A Sunny Day, alla fine della quale fa cantare un bambino nelle prime file) ma soprattutto per una serie straordinaria di vecchi cavalli di battaglia: 4 pezzi da Born to run (1975; la title-track, She’s the one, Night e una strepitosa Jungleland, a giudizio di scrive il suo punto piu’ alto in assoluto in oltre trent’anni di storia artistica), 3 da The darkness on the edge of town (1978; Badlands, The promised land e una emozionante Racing in the street), 1 a testa per gli album di mezzo The river (1980; Out in the Street) e Nebraska (1982; una robusta Johnny 99), oltre a 4 pezzi ancora da Born in the USA (1984; Bobby Jean, Dancing in the dark, Glory days e una No surrender eseguita con Brian Fallon dei The Gaslight Anthem).

Impossibile scegliere le cose migliori, anche se forse il clou dello spettacolo si conferma l’intramontabile sequenza Born to run-Rosalita (Come Out Tonight), quest’ultima dal suo secondo disco del 1973, The Wild, the Innocent & the E Street Shuffle.
In questi casi si sa, non si è mai contenti: spicca l’assenza di un must assoluto come Thunder road, mentre per The river la produzione ripara inserendo come bonus track una sua struggente versione dal Glastonbury dello stesso 2009. Sui nostri ipotetici cartelli da portare all’Hyde Park ci sarebbe stato scritto: Candy’s room, Point blank, Mansion on the hill, 4th of July Asbury Park (Sandy)…

Viviamo tempi molto difficili, dice un Boss letteralmente stremato presentando il primo dei bis, ovvero la cover di Hard Time (Come Again No More), scritta da Stephen Foster nel lontano 1854.
Ma stanotte possiamo dimenticarci di tutti i problemi e di tutte le ansie che ci affliggono.
Stanotte, direbbe il Gigio, frega’n cazzo: c’è il Boss.
C'è il Boss a farci saltare, cantare, ballare.
A scaldarci il cuore.

domenica 29 agosto 2010


Superstar dell’alt-rock, acclamatissimi da pubblico indie e da critica specializzata, i canadesi giungono al terzo album (dopo i favolosi ‘Funeral’ del 2005 e ‘Neon Bible’ del 2007) ovvero - come spesso accade - il vero e proprio l’esame della maturità (lo fallirono i Pink Floyd, per fare un esempio illustre, e non andarono benissimo Doors e Velvet Underground; in tempi piu’ recenti così così i R.E.M., esplosione definitiva invece per U2 e Radiohead), ben piu’ del secondo sul quale in fondo si può sempre vivere di rendita.

Stretti nell’apparentemente insanabile dubbio tra una ripetizione di schemi sin qui già proposti e l’inevitabile rischio dello sperimentare e di cercare nuove sonorità, il collettivo di Montreal sceglie alla fine di stare nel mezzo, e così facendo allunga oltre misura la durata dell’album: sedici brani per una durata di quasi sessantacinque minuti.
Proprio l’eccessiva lunghezza e l’accurato formalismo dell’album finiscono per togliere qualcosa alla freschezza spregiudicata e alla tensione emotiva degli esordi, tuttavia The Suburbs si fa piacevolmente ascoltare per il suo pop raffinato e per un sempre assai riuscito amalgama folk/wave (Neil Young che incontra Television, Talking Heads e New Order).
La sensazione è che gli Arcade Fire – come scrive Storiadellamusica.it - non abbiano avuto il coraggio di scegliere, di sfrondare, a ridurre all'essenziale, trascinandosi dietro molto materiale, piuttosto eterogeneo in certi punti, pur di accontentare tutti: e la noia, qua e là, fa capolino, anche se in ultima analisi il livello medio dei pezzi rimane eccellente sino alla fine.
Gli episodi migliori, a giudizio di PiacenzaSera, sono quelli che riprendono il filo del discorso interrotto tre anni orsono (The Suburbs I e II, The Sprawl I, la quasi byrdsiana Suburban War, Ready To Start e la spettacolare accoppiata Half Light I e II) descrivendo – stavolta come in una sorta di concept album – un paesaggio contemporaneo alienato e alienante, fatto di desolate lande suburbane fatte di centri commerciali e di outlet, di autolavaggi e di svincoli autostradali, di vuoti e assolati piazzali d’asfalto, di immense aree di parcheggio e di schiere interminabili di villette a schiera. Ovvero quello che gli urbanisti definisco appunto “Sprawl” (“Sometimes I wonder if the world’s too small/that we can never get away from the sprawl”), una rapida e disordinata crescita di un'area metropolitana a misura di automobile e priva di spazi pubblici o collettivi (“In the suburbs / I long to drive / And you told me we’ll never survive / Grab your mothers keys we’re leaving”).
Convincono invece meno le svolte più marcatamente disco-wave (Empty Room, Sprawl II) – leggi anche: non se ne può davvero piu’ del revival ‘80… - e i barocchismi di Rococo.

Il tempo dirà se anche The Suburbs contiene dei classici come Intervention, Neighborhood #1, Rebellion (Lies), nel frattempo godiamoci questa nuova raccolta di grandi canzoni che si candida, sin da ora, al podio di un’annata assai avara (per ora) di capolavori.

lunedì 12 luglio 2010


La nostra rubrica settimanale di recensioni in ambito pop-rock va in ferie fino a settembre. Nell’augurare a tutti i lettori un’estate serena e ricca di emozioni, PiacenzaSera vi consiglia una sorta di compilation con il meglio – a nostro umile giudizio - del primo semestre dell’anno in corso.
Questi i venti pezzi, in rigoroso ordine alfabetico.
NB: Per evitare le solite accuse dei soliti detrattori - del tipo: che palle, mi sono addormentato a metà; oppure: mi hai messo addosso una tristezza tale che per tirarmi su mi sono andato a rivedere un film di Michelangelo Antonioni - ho inserito un paio di pezzi modaioli e danzerecci (è o non è una compilation per l’estate?): e dunque Ok Go (divertente il videoclip in heavy rotation su Mtv) e LCD Soundsystem (un bizzarro incrocio tra Devo e Talking Heads).
NB2: Ci sono anche tre bonus tracks per evitare altre due tra le piu’ classiche delle accuse, cioè quella di considerare solo il mondo cosiddetto occidentale e di ignorare la scena italiana.

Acts Of Man – MIDLAKE
Andromeda – PAUL WELLER
Angel Echoes – FOUR TET
Drunk Girls – LCD SOUNDSYSTEM
God Made Me - SHEARWATER
Hengilor - JONSI
Lemonworld - NATIONAL
Never Follow Suit – THE RADIO DEPT.
Pieces - VILLAGERS
Queen Of Denmark – JOHN GRANT
Rhinestone Eyes - GORILLAZ
She Gone - GONJASUFI
Splitting The Atom – MASSIVE ATTACK
Sweetness – MICA P. HINSON
Swoon – CHEMICAL BROTHERS
This Too Shall Pass – OK GO
Trouble In Mind – ERLAND & THE CARNIVAL
Unknown Brother – BLACK KEYS
When A Man Cries – DIVINE COMEDY
Zebra – BEACH HOUSE

Bonus Tracks:
Beautiful Tango – HINDI ZAFRA
Hoja En Blanco – AMPARO SANCHEZ
Puoi dirlo a tutti – TRE ALLEGRI RAGAZZI MORTI

martedì 29 giugno 2010


La perfida Albione se ne torna mestamente a casa dal Sudafrica – il (clamoroso) goal fantasma di Lampard non è un alibi che regge per i patetici leoni di Capello: Rooney sembrava la controfigura di Iaquinta – ma si consola con numerosi ritorni importanti in campo discografico.
Di Paul Weller e del suo Wake Up The Nation! – ovvero l’amarissimo controcanto al crepuscolo del New Labour - è stato già detto, e allora dobbiamo parlare dei nuovo album dei Divine Comedy di Neil Hannon (Bang Goes The Knighthood) - sempre di livello eccelso e con un’ottima When A Man Cries, barocchismo degno del miglior Peter Hammill o del Bowie di mezzo -, dei Teenage Fanclub (Shadows) – i beniamini di Nick Hornby non deludono le attese -, di Robyn Hitchcock con i suoi Venus (Propellor Time), vecchio maestro della psichedelica pop, e dei mitici e immarcescibili Fall di Mark E. Smith da Manchester (Your Future Our Clutter): questi ultimi due non li abbiamo ancora ascoltati – musica per le orecchie per gli amanti e i nostalgici degli Eighties - ma promettiamo di tornarci sopra al piu’ presto.

Ma il maggior clamore è per l’ottavo album dei Chemical Brothers (Further: “Piu’ avanti”).
Chi scrive non è mai stato un fan sfegatato del duo londinese (al secolo: Ed Simons e Tom Rowlands), e nemmeno della musica dance/techno – il cosiddetto Big Beat - tanto in voga nei club negli anni Novanta (Prodigy, Fat Boy Slim).
Eppure Further si differenzia dalla recente produzione dei fratelli chimici perché abbassa un po’ il tiro, pretende meno insomma e infatti è piu’ divertente; dunque possiamo goderci, senza dovercene vergognare, la semplice melodia elettronica stile Daft Punk o Air del singolo Swoon – strepitoso il videoclip, una vera e propria opera d’arte digitale – e di Another World, il kraut di Snow e K+D+B, la citazione di Baba O’Riley dei Who nella lunga ed estenuante Escape Velocity (lunga), mentre piu’ scontata (e rimasticata) suona Horse Power.
Pubblicato su Virgin, sarà uno dei tormentoni dell’estate 2010.

sabato 19 giugno 2010


Chi come noi si porta l’Irlanda nel cuore non può che rallegrarsi per questa opera prima del giovane dublinese Conor J. O’Brien, alias Villagers.
Abbiamo scoperto per caso il singolo Becoming A Jackal – stesso titolo dell’album – grazie a un insolito passaggio in F***ing Good Music, ottima trasmissione serale della rete satellitare brand:new di Mtv, e subito ci hanno sorpreso il suo delicato fraseggio folk e la sua immediatezza comunicativa: la critica per lui ha scomodato paragoni scomodi con Elliott Smith, Sufjan Stevens e i Bright Eyes.
Il disco si apre con le orchestrazioni immagnifiche di I Saw The Dead, che narra di un funerale sotto il mare, prosegue con il singolo stesso e con la ritmata Ship Of Promises, dalle parti degli Wilco.
Ma è nella parte centrale che raggiunge l’apice con un pop fiabesco dalla freschezza invidiabile: Home, That Day - con spettacolari cori in farsetto a là Bon Iver - e infine The Pact (I’lle Be Your Fever), una marcetta sixties con un ritornello irresistibile.
Becoming A Jackal (= “Diventando uno sciacallo”, qualcosa che si avvicina a un concept album sulla storia grottesca di un ragazzo che si trasforma appunto in sciacallo) sembrerebbe mostrare, nel finale, qualche segno di stanchezza ma l’indice di gradimento si impenna all’improvviso con la meravigliosa Pieces, il brano migliore di tutta la raccolta, sospesa tra un’atmosfera vagamente jazzy (Tindersticks, Divine Comedy), una magistrale interpretazione vocale tra Damien Rice e Tom Yorke (Radiohead) e un finale da licantropo in stile Eels.
Per PiacenzaSera una delle proposte piu’ interessanti dell’anno in corso.
Anzi.
E se ci trovassimo di fronte (per restare in Irlanda) all’erede di Van - The Man - Morrison?

lunedì 7 giugno 2010


Dopo aver preso un cazziatone dall’amico J. per non aver inserito San Patricio dei Chieftains con il mitico Ry Cooder (a suo dire, il disco dell’anno, a dire di J., intendo dire) nel pezzo di due settimane orsono dedicato a una serie di collaborazioni inusuali e feconde tra artisti di estrazione differente - mea culpa - non posso esimermi di recensire il sesto album di Micah P. Hinson: un suo, un nostro, vecchio pallino. Anche perché Tony Face ha già parlato dalle colonne di PiacenzaSera di alcune interessanti uscite di maggio, tra le quali l’ottimo Brothers dei Black Keys – davvero una sorpresa, grazie Tony - e i Dead Weather, per la verità un po’ legnosi quest’ultimi.
Il folksinger texano – avete notato quanti texani, ultimamente? Per fortuna, non solo i Bush da quella terra arida e ricca – ritorna con un disco da battaglia: "I pionieri sabotatori hanno il cuore pieno di rabbia. Guardiamo il mondo cambiare e non ci piace quello che vediamo". Basti citare la cover del disco, con una canna di pistola puntata contro l’osservatore, o il titolo dell’ouverture strumentale, fin troppo esplicito: A Call To Arms (Una Chiamata Alle Armi).
Troviamo in quest’opera tutto quello che ci è sempre piaciuto nei suoi lavori precedenti, ovvero il consueto immaginario della grande pianura americana: Walt Whitman, l’epica western, ritratti di frontiera, predicatori falliti e venditori di bibbie (My God), matrimoni in crisi (Seven Horses Seen), la voglia di fuga e di ribellione, gli archi e il pianoforte, la malinconia e la speranza. E poi il maestro Johnny Cash, l’eco di Calexixo e Black Heart Procession (The Striking Before The Storm e soprattutto The Cross That Stole This Heart Away), del revival wave di National e compagnia briscola (Watchman, Tell Us Of The Night), persino i fasti del Nick Cave mistico di The Ship Song (in 2nd and 3rd) e sperimentazioni noise forse troppo ambiziose (The Returning).
Ancora una volta, tuttavia, il meglio di sé Micah (pronounced: “maica”) lo da’ con una manciata di struggenti canzoni d’amore (The Letter At Twin Wrecks (Dear Ashley), dedicata alla moglie), tra le quali emerge la delicatezza e la disarmante semplicità, apparentemente persino banale, di Take Off That Dress For Me, tra Cohen e il primo Waits.
Alla fine, tutti d’accordo con J.: ottimo lavoro, Maica.

PS: presto lo vedremo in Italia: il 16 luglio a Verona, il 17 al Pistoia Blues Festival, il 18 luglio a Ferrara, il 19 luglio a Roma e il 20 luglio a Torino.