venerdì 28 dicembre 2007
giovedì 27 dicembre 2007
POPSONGS: XMAS 2007
Puntuale come l'acconto IVA del quarto trimestre, arriva anche quest'anno l'immancabile compilation di fine anno, a cura di contry joe e d.j. paulette.
Per ragioni di spazio, non è possibile qui segnalare la tracklist completa.
Anticipazioni:
i Radiohead fanno la parte del leone, con ben cinque estratti (All I Need, Nude, Videotapes, Faust Arp, Jigsaw Falling Into Place) dal loro ultimo capolavoro Inrainbows: nessuna sorpresa, ormai è noto l'apprezzamento di c.j. per quest'opera.
A questo proposito.
C.j. non aveva certo l'intenzione di interferire sul regolare svolgimento della consultazione "L'album dell'anno 2007".
Egli tuttavia vuole sottolineare che chiunque, dopo aver selezionato "Nude" sul lettore mp3 e dopo aver ruotato in senso antiorario - finché ce n'è - la manopola del volume, non provasse una piacevole sensazione di oblìo o almeno una pelle d'oca anche superficiale, beh, allora, sostiene c.j., questi dovrebbe farsi vedere alla svelta da uno bravo...
In ogni caso, Big e Beddolix stiano tranquilli: Vedder è presente con quattro brani (Rise, la meravigliosa Society, Long Nights e la cover '80 Hard Sun), e lo stesso vale per le scimmie artiche, o Arctic Monkeys (Fluorescent adolescent, If You Were There, Beware, Old Yellow Bricks, Teddy Picker sono pezzi che spaccano!).
Fratello J. apprezzerà invece Comelade (Smog On The Vermut, Stranger In Paradigm), Beirut (Eelphant Gun) e Banhart (Bad girl).
Per restare agli album votati nel sondaggio qui a destra, tre brani a testa per gli ormai classici White Stripes (Icky Thump, Little Cream Soda, You Don't Know What Love Is) e gli islandesi Sigur Ros, i preferiti di d.j. paulette (le eteree Agaetis Byrjun, Hljomalind, Von).
Bene anche Editors (Put Your Head Towards The Air, Smokers Outside The Hospital Doors - che gran titolo! - e The Racing Rats), gli alfieri dell'Alt-Country Wilco (Either Way, On And On And On, What Light) e Interpol (il gettonatissimo singolo The Heinrich Maneuver e, soprattutto, Pioneer To The Falls, gran pezzo).
La canzone d'autore, oltre che i soliti mostri sacri come Wyatt (la fantastica Just As You Are e Stay Tuned, ripresa da Anja Garbarek), Springsteen e Cave con i Grinderman, presenta tante novità interessanti: il londinese e giovanissimo Patrick Wolf (Augustine ed Enchanted sono due gioielli acustici di rara intensità), l'irlandese Damien Rice alla sua seconda difficile prova (Elephant, Me, My Yoke And I), il norvegese Sondre Lerche (After All, la ballad Tragic Mirror), gli svedesi Pelle Carlberg (I Love You, Imbecile, Middleclass Kid) e Jens Lekman, acuto songwriter di indie pop da camera (Friday Night at the Drive-In Bingo, Postcard to Nina) oltre alla rivelazione Keren Ann (The Harder Ships Of The World, Where No Endings End).
Sul versante indiepop, infine, trovano spazio gli Spoon, i Devastations, i Panda Bear, gli Odawas, gli Okkervil River, gli elettronici Stateless (Bloodstream, Down Here), i francofoni Superflu, i National (ottimo il loro noir-rock a la Tindersticks), i folkeggianti Backworld e l'ennesima "next big thing", ovvero gli Arcade Fire (Antichrist Television Blues, Intervention, Black Mirror).
mercoledì 26 dicembre 2007
NY 08, FILIPPIDE O FIDIPPIDE
A molti di noi non ne potrebbe calare di meno, ma in risposta al commento di Big al suo ultimo post (commento nel quale il nostro - dall'altro della sua inconfutabile cultura classica - correggeva "Filippide" in "Fidippide"), l'altrettanto dotto Steve ritiene di precisare che:
Fidippide (o Filippide) morto nel 490 a.C. è stato un leggendario corridore greco.
La leggenda narra che Milziade, a capo degli eserciti di Atene, dopo la vittoria sui persiani nella battaglia di Maratona (490 a.C.), incaricò Fidippide di recare la buona notizia ad Atene; la distanza tra le città di Maratona ed Atene è di circa 40 km e Fidippide percorse l'intero tragitto di corsa senza mai fermarsi; dopo aver gridato l'annuncio della vittoria di Atene sui Persiani, l'araldo crollò al suolo morto, stremato dallo sforzo.
A chiosa di tale precisazione, Steve commenta : "che Big mi baci il culo..."
Una disputa tra due accademici di quel Dio.
Fidippide (o Filippide) morto nel 490 a.C. è stato un leggendario corridore greco.
La leggenda narra che Milziade, a capo degli eserciti di Atene, dopo la vittoria sui persiani nella battaglia di Maratona (490 a.C.), incaricò Fidippide di recare la buona notizia ad Atene; la distanza tra le città di Maratona ed Atene è di circa 40 km e Fidippide percorse l'intero tragitto di corsa senza mai fermarsi; dopo aver gridato l'annuncio della vittoria di Atene sui Persiani, l'araldo crollò al suolo morto, stremato dallo sforzo.
A chiosa di tale precisazione, Steve commenta : "che Big mi baci il culo..."
Una disputa tra due accademici di quel Dio.
sabato 22 dicembre 2007
NY 06 - STEVE, AGAIN (GIORNO 1)
Dalla finestra della nostra stanza si vedono il Chrysler Building e l’East River , siamo sulla 42^, un fiume di taxi gialli scorre sotto di noi.
Manhattan è già sveglia e ci aspetta.
Stasera arriverà CJ e allora saremo al completo, ma intanto abbiamo una giornata davanti e non bisogna perdere tempo.
Abbiamo prenotato un tour in pullman, ma prima facciamo colazione da Starbucks. Vinnie prova un succo di frutta viola, gli piace, lo riprenderà per tutta la vacanza. Ci avviamo. Paul e io camminiamo guardando all’in su, respirando la meraviglia dei grattacieli, Vinnie ci segue, come se nulla lo sfiorasse, ha già visto tutto lui, a NY c’è già stato.
La scorsa volta trovò coda alle Twin Towers, “ci tornerò”, disse.
Il tour è una mezza vaccata, anche se ci da comunque una visione d’insieme della città. Al Financial District scendiamo e andiamo a vedere il vuoto lasciato dalle Torri. Sinceramente non è molto emozionante, in fondo oggi è solo un cantiere. C’è tanta gente. Lungo il perimetro le foto della tragedia e testimonianze varie ti riportano emotivamente all’11-9, ma non se nel frattempo ti chiama tua mamma per dirti che Libertà ha pubblicato le tue dichiarazioni pre-maratona, con tanto di cognome nel titolo. Scoppio in una risata. Mi guardo attorno, vedo le facce degli altri.
Il tour è una mezza vaccata, anche se ci da comunque una visione d’insieme della città. Al Financial District scendiamo e andiamo a vedere il vuoto lasciato dalle Torri. Sinceramente non è molto emozionante, in fondo oggi è solo un cantiere. C’è tanta gente. Lungo il perimetro le foto della tragedia e testimonianze varie ti riportano emotivamente all’11-9, ma non se nel frattempo ti chiama tua mamma per dirti che Libertà ha pubblicato le tue dichiarazioni pre-maratona, con tanto di cognome nel titolo. Scoppio in una risata. Mi guardo attorno, vedo le facce degli altri.
Andiamo?
E’ proprio una bella giornata, Battery Park è incantevole e noi camminiamo senza sosta. Ci immergiamo tra i grattacieli fotografando tutto e decidiamo che non possiamo mancare una delle bancarelle che vendono cibo take-away. Forse becchiamo la peggiore. Ad oggi nessuno ci potrebbe convincere che quello nel piatto non fosse un cane, ma va bene così.
Riprendiamo verso nord, il porto, un cantante che gira un video e poi lui, il Brooklyn Bridge, vecchio e solido, che aggancia Manhattan al suo passato di mattoni e immigrati. Lo percorriamo tutto, ci fermiamo ogni due passi a fare foto, siamo quasi al tramonto e c’è una luce bellissima.
Sono a New York e penso che ci devo tornare.
Strano no?
Hai come un senso di accoglienza e di familiarità. Come se fosse la tua seconda città, nonostante sia così diversa dal tuo mondo quotidiano.
Ci tornerò, la prossima volta con Federica. Glielo devo.
Ci arrendiamo alle distanze e prendiamo un taxi, CJ sta per arrivare e dobbiamo incontrarlo a Times Square, come se fosse la cosa più normale del mondo. “Ci si be a NY!”…
Eccolo, Johnny! Bella lì! Passavi di qua?
L’Hard Rock, dove la sera prima Vinnie ha sfoggiato il suo inglese con un “rare” graffiante, ci sembra il posto ideale per una cenetta a base di carne e cakes XXL.
Eccolo, Johnny! Bella lì! Passavi di qua?
L’Hard Rock, dove la sera prima Vinnie ha sfoggiato il suo inglese con un “rare” graffiante, ci sembra il posto ideale per una cenetta a base di carne e cakes XXL.
Ah… dolci cameriere yankees, siete proprio cotte di noi Italians… no, non insistete, pazze!, siamo atleti…
STEVE
giovedì 20 dicembre 2007
NY 05, LA VERSIONE DI STEVE (GIORNO 0)
Facciamo un passo indietro.
Quando C.J. atterra a New York, infatti, tre maratoneti sono già lì ad aspettarlo.
E non sono maratoneti normali...
Eccovi il racconto di Steve:
"Era passato un anno esatto da quando, con la lucidità di un folle, guardando negli occhi un Paulette distrutto dalla fatica, gli dissi:
- il prossimo anno facciamo la maratona di New York!
Eravamo ad Atene, nello stadio delle Olimpiadi del 1896, alla fine di quella che per noi allora era ancora “l’impresa”: 10 km di corsa con un numero e la scritta “Italia” sul petto, tra centinaia di persone, che come noi avevano corso ai piedi del Partenone, spinte dal mito di Filippide e dalla voglia di rappresentare se stessi e il proprio paese.
Era passato un anno esatto ed eravamo lì, io, Paulette e l’immancabile Vinnie, atterrati a Newark, pronti per “l’Impresa”, stavolta con la "i" maiuscola.
Era passato un anno esatto ed eravamo lì, io, Paulette e l’immancabile Vinnie, atterrati a Newark, pronti per “l’Impresa”, stavolta con la "i" maiuscola.
Mi ricordo l’impatto con gli Stati Uniti, si apre la porta scorrevole e mi affaccio sul marciapiede dell’aereoporto.
Potrà sembrare infantile, ma, cazzo!, quanto sono grandi le macchine!
Figa raga, siamo negli States!
Subito mi accendo una Camel e penso.
Penso a Springsteen e al suo Asbury Park.
Penso che è così che si deve vivere, girare il mondo, esaudire i propri sogni.
E penso, guardando quei due cazzoni che sono lì con me, che senza questi amici sarei davvero più piccolo.
Saliamo su un autobus che ci porterà alla Gran Central Station e mi incollo al finestrino. Sicuramente un po’ ci si autosuggestiona, perché in fondo quello che si vede arrivando in un aeroporto di una metropoli, sono delle gran tangenziali e dei tristi quartieri periferici. Ma per chi come me è cresciuto inondato da film e telefilm americani, è tutto uno spettacolo.
Come per Marcovaldo, che immagina di essere al cinema guardando dal finestrino posteriore dell’autobus.
Ci assopiamo un po’ e ci lasciamo trasportare verso Manhattan, fino a quando, prima del sottopasso dell’Hudson ci appare a sinistra lui.. lo skyline della Grande Mela! Ti toglie il fiato!
Ci assopiamo un po’ e ci lasciamo trasportare verso Manhattan, fino a quando, prima del sottopasso dell’Hudson ci appare a sinistra lui.. lo skyline della Grande Mela! Ti toglie il fiato!
I giardini Margherita e il grattacielo dei Mille sono lontani…
Corro per un anno intero, corro d’inverno sulla ciclabile della Besurica col gelo che mi taglia la faccia, corro d’estate sulle colline di Borgonovo alle otto di mattina e ogni volta che corro penso a New York, a “facciamo finta che” mi mancano 5 km e sto per entrare in Central Park.
Ecco, uno si prepara per un anno e poi la maratona passa subito in secondo piano.
Ecco, uno si prepara per un anno e poi la maratona passa subito in secondo piano.
Si, ok, la faremo, ma non perdiamo un solo attimo, New York non torna tanto facilmente.
Lasciamo i bagagli all’Helmsley e ci tuffiamo in strada, il passo è veloce, quasi impaziente.
Non abbiamo una meta definita, ma alla fine arriviamo a Times Square e veniamo avvolti da luci al neon, video pubblicitari e da tanta, tanta gente.
- Prima di cena non facciamo volare la carta?”
- Prima di cena non facciamo volare la carta?”
Bubba Gump è lì apposta, “Run Forrest run”, la maglietta che mi stava aspettando, fatta per me…
Scatta la mano sul portafoglio, la estraggo, swish… bip… andata!
Funziona anche oltreoceano, fida compagna di viaggio…"
STEVE
mercoledì 19 dicembre 2007
domenica 16 dicembre 2007
RADICI
Tenere del Bologna non è mica una roba semplice.
Soprattutto quando sei un bambino.
I compagni di scuola di c.j. e di d.j. paulette, è ovvio, erano tutti tifosi del Milan, della Juve o dell'Inter.
Tutti tranne un certo Parv****, che teneva, se la memoria di c.j. non lo inganna, per Sandro Mazzola.
Sì, avete capito bene: per Mazzola.
Gli altri tutti a dirgli: guarda che Mazzola è un calciatore singolo, non si può tifare per un solo giocatore, devi scegliere una squadra, ma lui imperterrito: Mazzola. E la cosa più divertente è che aveva già smesso di giocare da un decennio o poco più... In ogni caso, dal momento che a sette-otto anni certi distinguo da sofisti non venivano accettati, anche l'ignaro Parv**** venne alla fine catalogato tra gli interisti.
Ma il Parv**** era un'eccezione, e comunque doveva essere anche lui orfano di padre e, sospetta ora c.j., la sua scelta era in qualche modo (anche per lui) attribuibile a quel fatto.
Quindi: Milan, Juve, Inter.
Del resto è da capire: chi è quel pirla che dovrebbe scegliere una squadra che non vince un campionato dal lontano 1964?
Roba da perdenti nati.
Potete immaginare i sorrisetti di compatimento degli altri bambini, quando - alla fatidica domanda, che c.j. cominciava un pò a temere: "tu per squadra tieni?" - lui rispondeva, con un filo di voce: io tengo per il Bologna.
Il Bologna?
E in che serie gioca?
In effetti, a partire dai tardi anni '70 lo squadrone che un tempo aveva fatto "tremare il mondo" era precipitato in una crisi irreversibile, e puntualmente ogni anno si arrabattava sul fondo della classifica, in perenne lotta per non retrocedere (fino a che, finalmente perchè l'agonia durava da troppo tempo, in B ci andò davvero... e poi ci fu persino l'umiliazione della serie C, ma adesso non stiamo qui a rivangare troppo che a c.j. viene un groppo alla gola...)
Ma bisognava tenere duro: il Bologna - inteso come Bologna Football Club - era l'unica cosa che consentiva a lui di rimanere ancorato, in qualche modo, alle sue radici.
Sbiaditi erano infatti i ricordi dell'infanzia, quelle lunghe estati afose passate nella vecchia casa di Sasso Marconi.
Una volta, era un bel casolare di campagna, immerso in un parco lussureggiante di ippocastani e querce secolari, con il tronco contorto e la chioma maestosa. Sul retro, l’aia inghiaiata era coperta da una vite rampicante che in estate, fittamente appesa a un traliccio di fili di ferro ormai arrugginiti, costituiva uno scudo impenetrabile ai raggi del sole. In un angolo poco distante, tre o quattro sedie in metallo – di quelle con i tubicini di plastica colorata di rosso, di giallo e di blu – restavano allineate a una recinzione metallica coperta di muschio, proprio sotto la pianta dei fichi.
C.j. ricorda la sua grande camera d'angolo, con la carta da parati a motivi floreali (che aveva imparato a memoria, ancora adesso sarebbe in grado di farne uno schizzo) e il terrazzo che guardava i campi di grano e l'orto del Giorgio; qui, nella semioscurità delle sere d'estate, si lasciava cullare dal ritmo dei fasci di luce dei fari delle auto che correvano lungo la Porrettana.
Per arrivarci bisognava fare più rampe di scale; al mezzanino c'erano la camera della zia Tina e il piccolo bagno, affacciato sul fosso; nel mezzo una porta murata, che nascondeva chissà quali terribili segreti; in cima alla scala, invece, la camera - chiusa e imperscrutabile - dello zio Nando, che dominava tutta la casa; entarci era rigorosamente vietato, ma c.j. una volta era riuscito ad eludere il controllo della vecchia zia e aveva varcato la soglia (probabile che cercasse il "carrarmato", ovvero una fantastica barretta di cioccolato bianco, oggi introvabile), e si trovò davanti - immaginate la delusione dipinta sul suo volto - solamente una vecchia scrivania, degli scaffali da ufficio e un misero letto in legno.
Era proprio Nando che favoleggiava con c.j. e d.j. paulette del Grande Bologna, di un'epoca che ormai non c'è più, di una squadra che sapeva giocare "come si gioca solo in paradiso", di un certo Haller, di Nielsen, di Bulgarelli...
Con un piccolo sforzo, c.j. riesce qui a ricordare quasi tutta la formazione del Bologna di quegli anni:
Mancini, Roversi, Cresci; Battisodo, Bellugi, Bachlechner; Nanni, Maselli, Clerici, Massimelli, Fiorini (sì, proprio lui, il Giuliano...).
A dire il vero, adesso gli sembra che Bachlechner non c'entri nulla, forse è venuto dopo, e poi è proprio così che si scrive?
Anche Maselli e Massimelli gli puzzano un pò: possibile che avessero due nomi così simili?
E poi Pecci?
Il mitico Eraldo Pecci, che praticamente giocava senza correre, ma che con la sua sapienza tattica e le sue geometrie in mezzo al campo faceva la differenza...
Lo zio Nando diceva di conoscerlo, il Pecci.
Diceva che una volta era andato a una cena con un club al Sasso, e che si era fermato sino a tardi a chiacchierare con loro.
Mi farò dare la maglietta, e ve la regalerò, disse una sera, a cena. Anzi, facciamo così: il Bologna va in ritiro tutti i sabati sera qui vicino, allo "Chalet delle Rose", una volta vi porto con me a vedere l'allenamento prima della partita.
Dopo essersi pulito la bocca con il tovagliolo, si alzò, salutò tutti e poi uscì, come ogni sera, per andare al bar del paese a giocare a briscola o a scopone scientifico, davanti a una boccia di lambrusco dolce e frizzante.
Probabile che lui neanche si ricordò, di quella promessa estiva.
Promessa che, come altre, non seppe mantenere.
venerdì 14 dicembre 2007
A tutti quei poveretti che passano la vita a lamentarsi del pessimo clima della Pianura Padana e che sognano di trasferirsi in qualche remota spiaggia caraibica, c.j. risponde sempre che a lui, il passare delle stagioni, piace da bestia.
Vuoi mettere - sostiene lui - la malinconia dei nostri boschi in autunno, con tutti quei fantastici colori, oppure il piacere di sorseggiare un vin brulè in piedi al gelo, o di gustare un cartoccio di caldarroste immersi nella nebbia intrisa di odori... o ancora una cioccolata calda dentro un caffè fumante di vapori quando il termometro scende sotto zero...
Fin qui tutto bene, nel senso che le sue argomentazioni - poetiche, si direbbe - sembrano solide.
Ma adesso che l'autunno è quasi finito, perchè non ammettere che passare tutti i sabati o le domeniche ad ammazzarsi la schiena per raccogliere le foglie secche - e fortuna che il suo è uno sputo di giardino - non è il massimo della vita?
Con quell'idiota del suo cane, per di più, che si stende sull'erba a pochi centimetri da lui e lo guarda lavorare per ore...
Oramai ha imparato persino a classificare le varie tipologie, a seconda del grado di difficoltà della raccolta e, di conseguenza, del tempo da impiegarsi.
Il peggio è il noce, con i suoi grappoli di foglie grandi e umide, mescolate con i gusci dei frutti caduti a terra e con dei piccoli rametti secchi che si impigliano nel rastrello.
Poi c'è il ciliegio, se non altro perchè ne produce un numero esagerato.
La vite americana è piuttosto bastarda, perchè le foglie si raccolgono bene, è vero, ma in compenso esse vanno regolarmente a intasare le canale di gronda del tetto.
Infine il glicine, che ne fa un'infinità, e sono talmente piccole che si nascondono nella ghiaia e non riesci più a recuperarle.
La magnolia, invece, merita un discorso a parte, perchè le perde in estate e venti-trenta alla volta, così che tutti i santi i giorni ne devi raccogliere un pò...
Quando il sole tramonta dietro il Monte Pillerone, per c.j. è come vedere la luce.
Depone gli arnesi, si toglie i guanti da lavoro e rientra in casa, visibilmente affaticato.
Si siede davanti al camino acceso e, con il sottofondo dei ceppi di carpino che scoppiettano sulla brace, guarda su televideo se il Bologna ha vinto.
Chissà se è l'anno buono che si torna in A, sospira.
giovedì 13 dicembre 2007
Chile, 30.000 (by BIG)
Quel simpatico buontempone di Bonaiuti, portavoce di Sua Emittenza, a proposito dell’inchiesta sui presunti tentativi di corruzione messi in atto dal suo capo, ha testualmente detto: “stamattina ci siamo svegliati a Roma oppure nel Cile del generale Pinochet?”
Vorrei rassicurarlo: siamo in Italia, non si deve preoccupare.
Forse il solerte maggiordomo ha scordato cos’è stato il Cile di Pinochet, e allora perché non rinfrescargli la memoria?
30.000 morti
130.000 arresti
35.000 torturati
E restando in tema di Cile, Chiesa e Illuminismo, forse non tutti sanno che il 18 febbraio del 1993 giunsero a Pinochet, in occasione della ricorrenza delle sue nozze d'oro, due lettere autografe in spagnolo con espressioni di amicizia e stima con in calce le firme di papa Wojtyła e del Segretario di Stato Angelo Sodano.
«Al generale Augusto Pinochet Ugarte e alla sua distinta sposa, Signora Lucia Hiriarde Pinochet, in occasione delle loro nozze d'oro matrimoniali e come pegno di abbondanti grazie divine con grande piacere impartisco, così come ai loro figli e nipoti, una benedizione apostolica speciale. Giovanni Paolo II.»
Ma ancor più caloroso è il messaggio del Cardinale Angelo Sodano, già nunzio apostolico in Cile dal 1977 al 1988, e che nel 1987 aveva perorato con successo la visita del papa a Santiago:
«...il compito di far pervenire a Sua Eccellenza e alla sua distinta sposa l'autografo pontificio qui accluso, come espressione di particolare benevolenza. Sua Santità conserva il commosso ricordo del suo incontro con i membri della sua famiglia in occasione della sua straordinaria visita pastorale in Cile».
Sodano poi conclude, riaffermando al signor Generale,
«l'espressione della mia più alta e distinta considerazione».
Il Vaticano non rese pubbliche queste missive, tuttavia, alcuni mesi dopo, i documenti furono rivelati dal quotidiano cileno El Mercurio e ripresi dalla rivista francese Témoignage chrétien.
Non credo ci sia altro da aggiungere.
BIG
Vorrei rassicurarlo: siamo in Italia, non si deve preoccupare.
Forse il solerte maggiordomo ha scordato cos’è stato il Cile di Pinochet, e allora perché non rinfrescargli la memoria?
30.000 morti
130.000 arresti
35.000 torturati
E restando in tema di Cile, Chiesa e Illuminismo, forse non tutti sanno che il 18 febbraio del 1993 giunsero a Pinochet, in occasione della ricorrenza delle sue nozze d'oro, due lettere autografe in spagnolo con espressioni di amicizia e stima con in calce le firme di papa Wojtyła e del Segretario di Stato Angelo Sodano.
«Al generale Augusto Pinochet Ugarte e alla sua distinta sposa, Signora Lucia Hiriarde Pinochet, in occasione delle loro nozze d'oro matrimoniali e come pegno di abbondanti grazie divine con grande piacere impartisco, così come ai loro figli e nipoti, una benedizione apostolica speciale. Giovanni Paolo II.»
Ma ancor più caloroso è il messaggio del Cardinale Angelo Sodano, già nunzio apostolico in Cile dal 1977 al 1988, e che nel 1987 aveva perorato con successo la visita del papa a Santiago:
«...il compito di far pervenire a Sua Eccellenza e alla sua distinta sposa l'autografo pontificio qui accluso, come espressione di particolare benevolenza. Sua Santità conserva il commosso ricordo del suo incontro con i membri della sua famiglia in occasione della sua straordinaria visita pastorale in Cile».
Sodano poi conclude, riaffermando al signor Generale,
«l'espressione della mia più alta e distinta considerazione».
Il Vaticano non rese pubbliche queste missive, tuttavia, alcuni mesi dopo, i documenti furono rivelati dal quotidiano cileno El Mercurio e ripresi dalla rivista francese Témoignage chrétien.
Non credo ci sia altro da aggiungere.
BIG
martedì 11 dicembre 2007
TAXI BLUES PART TWO - BUCAREST (by Paulette)
E’ mattino, fa un freddo notevole. La città è immersa in una fioca luce invernale, ricoperta da una spessa cappa grigia che sa di piombo, di amianto e di industrializzazione selvaggia.
Prendi un taxi in Plata Universatea, il centro culturale di Bucarest. Un anonimo enorme slargo dominato da un grattacielo, moderna ma insignificante sede del celebre hotel da cui i giornalisti occidentali assistettero alla fine del regime di Ceausescu.
Era il dicembre del 1989, il muro di Berlino era caduto da due mesi e la Perestroika avviata da tempo. Ti hanno raccontato che fu proprio Gorbaciov, da Mosca, a fomentare la rivolta di Timisoara, prima, e la caduta di Bucarest, decisiva. E ti hanno portato a vedere i fori delle pallottole sui muri dell’ateneo cha dà il nome alla piazza, e il balcone dove il 22 dicembre Ceausescu tenne l’ultimo discorso, o meglio ci provò, prima di tentare un’inutile goffa fuga in elicottero dai tetti di Plata Rivoluzione.
Ti dirigi verso Sud, nella periferia della capitale.
Scorgi il profilo del Palazzo della Rivoluzione, che i rumeni chiamano ancora Casa del Popolo, opera maestosamente imbarazzante, fulgido esempio del delirio onnipotente del dittatore e dell’esigenza di dare all’esterno un messaggio di progresso e prosperità.
La tua mente torna alla Torre della Radio, simbolo della vecchia Berlino Est. L’edificio, il secondo più grande del mondo dopo il Pentagono, si affaccia su un enorme viale che taglia trasversalmente la città, sullo stile dei Champs Elysees. Del resto ti hanno detto che Bucarest è la Parigi dell’Est, e lo hanno fatto senza autoironia, convinti.
Oltre ai finestrini della tua Dacia gialla sfilano orrendi palazzoni grigi, in una sequenza tanto regolare quanto angosciante.
Il grigio domina in modo assoluto.
E opprimente.
Ti chiedi se la povertà e la storia sfortunata di questo popolo siano sufficienti a spiegare e a giustificare la tristezza e la sensazione di brutto che hai percepito in questi giorni.
Ovvio che non è così, non può essere così.
Pensi a Cuba, pensi al Portogallo. Pensi alla Sicilia profonda.
Tutti luoghi poveri e in un certo senso arretrati, che ti abbagliano con la loro struggente bellezza.
Ti domandi dunque se questo popolo non abbia gusto, sensibilità, piacere per il bello: non lo capisce, non lo sente, non lo desidera, non lo cerca.
Lo percepisci ovunque in città, nelle case, nei palazzi, nei balconi, nei giardini, nei marciapiedi e nei piccoli dettagli dell’arredo urbano, nei negozi, nella gente. O almeno hai questa sensazione.
Canticchi uno strepitoso pezzo dei Marlene Kuntz, “noi cerchiamo la bellezza, ovunque”.
Sei immerso in questi pensieri quando ti accorgi che il tassista non ha ancora aperto bocca.
Non che i rumeni si siano dimostrati particolarmente socievoli, però ti sembra che questo stia esagerando.
Scambi due parole con le colleghe, in italiano.
Il tassista infastidito alza il volume della radio.
Una rotonda, una svolta a destra e poi alza ancora e si mette a ghignare, prima facendo un timido tentativo di contenersi, poi lasciandosi andare di brutto.
Cerchi di capire di cosa stiano parlando alla radio.
E’ un programma comico, probabilmente di satira di quart’ordine, di quelli che inondano anche le nostre emittenti private durante la mattinata.
I due conduttori distorgono i toni vocali in modo alquanto banale, una vocina e una vociona.
Ad un ceto punto capti qualche parola, facilitato da una certa somiglianza tra le due lingue, e capisci che stanno facendo sarcasmo sull’Italia. I rapporti tra i due paesi non sono idilliaci, al momento, e la nostra nazione ha appena rimpatriato cinquecento cittadini rumeni irregolarmente immigrati, sulla spinta generata dall’opinione pubblica a causa di alcuni fatti criminosi compiuti da rumeni.
Chino sul volante nella sua giacca a vento azzurra il tassista continua a ghignare, alzando ulteriormente il volume. Evidentemente quei due devono essere irresistibili, pensi.
Prendono per il culo gli italiani.
Lui sa di avere a bordo degli italiani e invece di abbassare il volume imbarazzato o cambiare canale, come avresti fatto tu, se la ride di brutto.
Sei arrivato, la sede del seminario è davvero un luogo allucinante.
Prendi un taxi in Plata Universatea, il centro culturale di Bucarest. Un anonimo enorme slargo dominato da un grattacielo, moderna ma insignificante sede del celebre hotel da cui i giornalisti occidentali assistettero alla fine del regime di Ceausescu.
Era il dicembre del 1989, il muro di Berlino era caduto da due mesi e la Perestroika avviata da tempo. Ti hanno raccontato che fu proprio Gorbaciov, da Mosca, a fomentare la rivolta di Timisoara, prima, e la caduta di Bucarest, decisiva. E ti hanno portato a vedere i fori delle pallottole sui muri dell’ateneo cha dà il nome alla piazza, e il balcone dove il 22 dicembre Ceausescu tenne l’ultimo discorso, o meglio ci provò, prima di tentare un’inutile goffa fuga in elicottero dai tetti di Plata Rivoluzione.
Ti dirigi verso Sud, nella periferia della capitale.
Scorgi il profilo del Palazzo della Rivoluzione, che i rumeni chiamano ancora Casa del Popolo, opera maestosamente imbarazzante, fulgido esempio del delirio onnipotente del dittatore e dell’esigenza di dare all’esterno un messaggio di progresso e prosperità.
La tua mente torna alla Torre della Radio, simbolo della vecchia Berlino Est. L’edificio, il secondo più grande del mondo dopo il Pentagono, si affaccia su un enorme viale che taglia trasversalmente la città, sullo stile dei Champs Elysees. Del resto ti hanno detto che Bucarest è la Parigi dell’Est, e lo hanno fatto senza autoironia, convinti.
Oltre ai finestrini della tua Dacia gialla sfilano orrendi palazzoni grigi, in una sequenza tanto regolare quanto angosciante.
Il grigio domina in modo assoluto.
E opprimente.
Ti chiedi se la povertà e la storia sfortunata di questo popolo siano sufficienti a spiegare e a giustificare la tristezza e la sensazione di brutto che hai percepito in questi giorni.
Ovvio che non è così, non può essere così.
Pensi a Cuba, pensi al Portogallo. Pensi alla Sicilia profonda.
Tutti luoghi poveri e in un certo senso arretrati, che ti abbagliano con la loro struggente bellezza.
Ti domandi dunque se questo popolo non abbia gusto, sensibilità, piacere per il bello: non lo capisce, non lo sente, non lo desidera, non lo cerca.
Lo percepisci ovunque in città, nelle case, nei palazzi, nei balconi, nei giardini, nei marciapiedi e nei piccoli dettagli dell’arredo urbano, nei negozi, nella gente. O almeno hai questa sensazione.
Canticchi uno strepitoso pezzo dei Marlene Kuntz, “noi cerchiamo la bellezza, ovunque”.
Sei immerso in questi pensieri quando ti accorgi che il tassista non ha ancora aperto bocca.
Non che i rumeni si siano dimostrati particolarmente socievoli, però ti sembra che questo stia esagerando.
Scambi due parole con le colleghe, in italiano.
Il tassista infastidito alza il volume della radio.
Una rotonda, una svolta a destra e poi alza ancora e si mette a ghignare, prima facendo un timido tentativo di contenersi, poi lasciandosi andare di brutto.
Cerchi di capire di cosa stiano parlando alla radio.
E’ un programma comico, probabilmente di satira di quart’ordine, di quelli che inondano anche le nostre emittenti private durante la mattinata.
I due conduttori distorgono i toni vocali in modo alquanto banale, una vocina e una vociona.
Ad un ceto punto capti qualche parola, facilitato da una certa somiglianza tra le due lingue, e capisci che stanno facendo sarcasmo sull’Italia. I rapporti tra i due paesi non sono idilliaci, al momento, e la nostra nazione ha appena rimpatriato cinquecento cittadini rumeni irregolarmente immigrati, sulla spinta generata dall’opinione pubblica a causa di alcuni fatti criminosi compiuti da rumeni.
Chino sul volante nella sua giacca a vento azzurra il tassista continua a ghignare, alzando ulteriormente il volume. Evidentemente quei due devono essere irresistibili, pensi.
Prendono per il culo gli italiani.
Lui sa di avere a bordo degli italiani e invece di abbassare il volume imbarazzato o cambiare canale, come avresti fatto tu, se la ride di brutto.
Sei arrivato, la sede del seminario è davvero un luogo allucinante.
Nei marciapiedi ci sono squarci ovunque, i palazzoni grigi sono i più grigi che ti sembra di ricordare.
Avresti voluto chiedergli che cazzo ha da ridere, che basta lanciare un’occhiata oltre al vetro sporco della sua fottutissima Dacia per realizzare che davvero non c'è un cazzo da ridere.
Ti viene in mente il vecchio Monte, che prontamente l’avrebbe compatito perché mangia la carne una volta al mese, o lo Zio Facce, che l’avrebbe ricoperto delle peggiori ingiurie accusando lui e i suoi connazionali di essere indietro come la coda del gogno.
E invece sorridi, e con te sorridono le colleghe, e lo guardi come potresti guardare un pazzo quando con aria tranquilla si gira per chiedere il dovuto e proporre di arrotondare la cifra.
E’ la prima volta che apre la bocca, ti sembra.
Pensi che forse è meglio così, gli lasci il resto e te ne vai.
Avresti voluto chiedergli che cazzo ha da ridere, che basta lanciare un’occhiata oltre al vetro sporco della sua fottutissima Dacia per realizzare che davvero non c'è un cazzo da ridere.
Ti viene in mente il vecchio Monte, che prontamente l’avrebbe compatito perché mangia la carne una volta al mese, o lo Zio Facce, che l’avrebbe ricoperto delle peggiori ingiurie accusando lui e i suoi connazionali di essere indietro come la coda del gogno.
E invece sorridi, e con te sorridono le colleghe, e lo guardi come potresti guardare un pazzo quando con aria tranquilla si gira per chiedere il dovuto e proporre di arrotondare la cifra.
E’ la prima volta che apre la bocca, ti sembra.
Pensi che forse è meglio così, gli lasci il resto e te ne vai.
PAULETTE
venerdì 7 dicembre 2007
La palla è ovale
Eccovi Annie in azione.
Con il prezioso contributo tecnico di Pat Garrett:
Ottimo baricentro basso (ne so qualcosa) con buona fluidità di corsa (lacci a parte).
Sono da notare:
* eccellente difesa della palla (parte opposta rispetto all' avversario);
* ginocchia alte per mettere in dificoltà l'avversario in caso di placcaggio basso;
* mano esterna pronta al "frontino" per allontanare il difensore;
* non si vede ma sicuramente un "goosestep" degno del miglior Campese succederà alla fase, staticamente ripresa dall' obbiettivo, mettendo a sedere l'ignaro avversario...
* non si vede ma sicuramente un "goosestep" degno del miglior Campese succederà alla fase, staticamente ripresa dall' obbiettivo, mettendo a sedere l'ignaro avversario...
e poi con la maglia nera sta tanto bene...
Ps: Fantastico il sostegno indiavolato del tallonatore Gigi Caccola e in 4^ piano di Mimmo Boccolidoro.
martedì 4 dicembre 2007
Ratzinger vs Voltaire
L'illuminismo è l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l'incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessi è questa minorità se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! – è dunque il motto dell'illuminismo.
Immanuel Kant
Immanuel Kant
domenica 2 dicembre 2007
NY 04, LA CITTA' DEGLI ANGELI
Le due donne arrivarono a New York un venerdi' pomeriggio, e accogliendole notai sul volto di Alisha un'espressione per lei insolita. L'espressione di chi si è reso conto troppo tardi o di aver dato fuoco a casa sua o di essersi imbarcato in un viaggio con la persona sbagliata. "Salvati, scappa", mi sussurrò.
Bonnie era una donna smilza e arcigna, con due trecce da ragazzina che ricadevano come guinzagli sugli innocenti cagnolini disegnati sulla sua maglietta. Aveva uno spiccato accento di Greensboro ed era atterrata al Kennedy convinta che i neewyorkesi, se solo lei gliene avesse dato una mezza possibilità, le avrebbero rubato anche le otturazioni che si ritrovava in bocca.
"Il tassista ci fa: Dall'accento si direbbe che venite da fuori", e io ho capito all'istante che pensava di fregarci. (...) Io l'ho capito subito cosa aveva in mente. So come gira il mondo, non sono mica stupida. E così mi sono segnata il nome e il numero della licenza e gli ho detto che se solo provava a fare qualche scherzetto lo denunciavo alla polizia. Non son mica venuta fin qui per farmi spennare..."
Mi mostrò la ricevuta del taxi, e io la rassicurai: il prezzo era giusto. I soliti trenta dollari di una corsa dall'aeroporto Kennedy a un qualsiasi punto di Manhattan.
Bonnie ripose la ricevuta nel portafoglio. "Be', spero prorpio che quello non si aspettasse una mancia, perchè da me non ha visto un centesimo."
"Non gli hai dato la mancia?"
"Ma figurati!" esclamò Bonnie. "Non so tu, ma io i miei soldi me li sudo. Sono i miei e di mance non ne do, a meno che il servizio non sia come dico io."
"D'accordo" dissi, "ma che tipo di servizio ti aspettavi esattamente, se prima d'ora non avevi mai preso un taxi?"
"Io mi aspetto di essere trattata come chiunque altro, ecco come. Di essere trattata da cittadina americana."
Con quella frase aveva centrato il problema. I turisti americani sono destinati a essere accolti meglio a Teheran che non a New York, una città fondata sul principio del "Noi vs. Loro". Come me, la maggior parte delle persone che conoscevo si era trasferita a New York proprio per sfuggire agli americani tipo Bonnie. E la loro paura aveva sempre giocato a nostro favore, almeno finchè un nuovo sindaco non si era messo a promuovere la città come un parco giochi per famiglie. La sua campagna era stata un successo, e le Bonnie avevano cominciato ad affluire in città a frotte...
da DAVID SEDARIS, Me parlare bello un giorno, Mondadori, 2004 (Me Talk Pretty One Day, 2000)
Bonnie era una donna smilza e arcigna, con due trecce da ragazzina che ricadevano come guinzagli sugli innocenti cagnolini disegnati sulla sua maglietta. Aveva uno spiccato accento di Greensboro ed era atterrata al Kennedy convinta che i neewyorkesi, se solo lei gliene avesse dato una mezza possibilità, le avrebbero rubato anche le otturazioni che si ritrovava in bocca.
"Il tassista ci fa: Dall'accento si direbbe che venite da fuori", e io ho capito all'istante che pensava di fregarci. (...) Io l'ho capito subito cosa aveva in mente. So come gira il mondo, non sono mica stupida. E così mi sono segnata il nome e il numero della licenza e gli ho detto che se solo provava a fare qualche scherzetto lo denunciavo alla polizia. Non son mica venuta fin qui per farmi spennare..."
Mi mostrò la ricevuta del taxi, e io la rassicurai: il prezzo era giusto. I soliti trenta dollari di una corsa dall'aeroporto Kennedy a un qualsiasi punto di Manhattan.
Bonnie ripose la ricevuta nel portafoglio. "Be', spero prorpio che quello non si aspettasse una mancia, perchè da me non ha visto un centesimo."
"Non gli hai dato la mancia?"
"Ma figurati!" esclamò Bonnie. "Non so tu, ma io i miei soldi me li sudo. Sono i miei e di mance non ne do, a meno che il servizio non sia come dico io."
"D'accordo" dissi, "ma che tipo di servizio ti aspettavi esattamente, se prima d'ora non avevi mai preso un taxi?"
"Io mi aspetto di essere trattata come chiunque altro, ecco come. Di essere trattata da cittadina americana."
Con quella frase aveva centrato il problema. I turisti americani sono destinati a essere accolti meglio a Teheran che non a New York, una città fondata sul principio del "Noi vs. Loro". Come me, la maggior parte delle persone che conoscevo si era trasferita a New York proprio per sfuggire agli americani tipo Bonnie. E la loro paura aveva sempre giocato a nostro favore, almeno finchè un nuovo sindaco non si era messo a promuovere la città come un parco giochi per famiglie. La sua campagna era stata un successo, e le Bonnie avevano cominciato ad affluire in città a frotte...
da DAVID SEDARIS, Me parlare bello un giorno, Mondadori, 2004 (Me Talk Pretty One Day, 2000)
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