lunedì 30 marzo 2009
Invaders Must Die, il nuovo album dei Prodigy, ha debuttato all’inizio di marzo direttamente in cima alla classifica U.K. con quasi 100.000 copie vendute nella prima settimana, e conta di collaborazioni importanti, prima tra tutte quella dell’ex-batterista dei Nirvana Dave Grohl.
Il ritorno degli alfieri della scena acid house londinese – cinque anni dopo lo scialbo Always Outnumbered Never Outgunned - fa discutere alquanto sul web, alla stregua di ciò che successe poche settimane fa con No Line On The Horizon degli U2.
Non mancano gli entusiasti, con le loro coloritissime espressioni alla Irvine Welsh:
“Quest’album spacca i culi!”
“Il prodigio è tornato per rompervi i timpani e farvi muovere quei fottuti culi”
“Questo ultimo lavoro è secondo solo al primo disco. I suoni sono nuovi di pacca e in più hanno una presa sul pubblico devastante!”
“Già dall'inizio mettono in fila sei brani da infarto, ma tutti i pezzi sono delle bombe al tritolo con la linea di bassi potenti e profondi. Verso il finale si inizia ad avvertire un pò di ripetitività, ma il disco è compattissimo e gli ex re dei rave sono tornati alla grande!”
“E’ un disco duro, incazzato, intransigente. E apocalittico. L’album è un blocco granitico, un implacabile schiacciasassi con minime variazioni sul tema”
Ma nemmeno le stroncature, altrettanto divertenti:
“Una scossa sismica? a me sembra più il fruscio del contante che esce dal Bancomat”
“Una blanda, molto blanda imitazione di The Fat Of The Land (il capolavoro del trio, ndr), suona stanco, di già sentito, senza palle, roba vecchia, noia...”
“I Prodigy sono proprio finiti. Nessun guizzo, pezzi anonimi, chiassosi e caciaroni. Dave Grohl qui dentro è una macchietta senza nessun valore”
“Il disco è un accozzaglia di demenza”
E c’è anche chi, perplesso, non sa che pesci pigliare:
“Sinceramente non mi è sembrato nulla d'eccezionale”
“Comincia a sentirsi un pò di vecchiume”
“I Prodigy non impressionano più, ma graffiano ancora”
Noi di PiacenzaSera questa volta non ci schieriamo.
Invaders Must Die è, infatti, una sequenza tiratissima di dieci tracce di buona dance elettronica, dense di beat trascinanti e accelerazioni groove, e soprattutto di bassi ultra-potenti, una manna dal cielo per chi non vede l’ora di sballare nel clubbing più duro.
Tuttavia, trattasi spesso di suoni già sentiti, in particolare nella seconda metà del disco, dove prevale una monotona stanchezza.
Insomma, nulla di nuovo sotto il sole.
In definitiva, l’album sembra possa considerarsi un’abile operazione di ripescaggio di quel sound che ha reso celebre la band negli anni Novanta.
Ma forse è meglio non andare troppo per il sottile.
A chiudere il disco ci pensa Stand up, citazione di Come together dei Primal Scream:
“In piedi adesso! E’ l’ora di ballare!”
domenica 29 marzo 2009
mercoledì 25 marzo 2009
L'apocalisse è alle porte
I primi segnali, adesso che ci penso, avevano fatto la loro comparsa nello scorso fine settimana.
Prima un fagiano spiaccicato sull'asfalto, nei pressi del Parco della Galleana. Le sue belle piume variopinte, nonostante tutto, brillavano attraverso il parabrezza.
Poi un cane che mi attraversa la strada all'improvviso.
Segnali inequivocabili, ai quali tuttavia non ho dato il giusto peso.
Che peso vuoi dare a un cane che ti attraversa improvvisamente la strada?
Ora invece ho capito tutto: gli animali si stanno preparando a un suicidio collettivo.
Non si spiegherebbe altrimenti.
Evidentemente, loro sanno qualcosa che noi non sappiamo.
Ieri sera, sulla strada del ritorno a casa, ne ho finalmente la certezza.
Sul lungo rettilineo di Croara, mentre procedo a velocità tutto sommato moderata, proprio nel mezzo della carreggiata mi ritrovo un riccio.
E' immobile.
Si appallottola su se' stesso ed estrae i suoi aculei appuntiti.
Cazzo vuoi fare, con quei tuoi patetici aculei, a un treno di Michelin 215/75 R15-100in piena corsa?
Eppure l'idiota mette fuori il muso e rimane lì a fissarmi - con aria di sfida, posso leggergli negli occhi tutto il suo odio nei miei confronti, odio maturato da tutti i disastri dei quali si è resa responsabile la razza umana - mentre lo sfilo di pochi centimetri con la mia ruota anteriore sinistra.
Nello stesso istante, mi sorpassa una Mini Cooper - un esemplare del modello nuovo, quello che sembra la vecchia Mini reduce da una cura massiccia di steroidi e anabolizzanti che neanche Del Piero - e al momento non so dirvi se anch'essa riesce a evitarlo con la sua anteriore destra: se così è andata, quel fottuto riccio si è ritrovato proprio in mezzo alle due auto in corsa.
Roba da infarto.
Ma non finisce qui.
Nei pressi della chiesa di Statto, due gatti dal pelo rossiccio e raffazzonato mi osservano da lontano, ma non si spostano dalla mia corsia, così mi vedo costretto a scartare di alto e invadere la corsia opposta.
Fortuna che a quest'ora non c'è in giro un cazzo di nessuno.
E poi ci si mettono anche gli uccelli, Cristo santo.
A pochi metri dal bivio di Fiorano, dopo la mezza curva a gomito che precede l'ingresso al ponte di mattoni, scorgo un passerotto sull'asfalto reso lucido dalla luce al neon dei lampioni al margine della strada.
Cazzo ci fa, lì, lo sa solo il Signore.
Probabilmente è ferito, è ferito a un'ala e non riesce più a volare.
Arresto la marcia e tamburello nervosamente le dita grassocce sul volante, mentre aspetto che il piccoletto si allontani, con quei suoi timidi passettini, quel tanto da potermi consentire di procedere verso casa.
Fai pure con comodo, cazzo, non ho mica fretta.
Forse è vero, loro sanno qualcosa che noi non sappiamo.
La cosa peggiore sono gli animali. A un certo punto, a luglio, sono scappati tutti, nessuno escluso. Uno non ci fa nemmeno caso, fino a quando non scompaiono. A un certo punto, il silenzio. Non ci sono uccelli che cantano. Non ci sono scoiattoli che fanno acrobazie sui rami o che scorrazzano per la soffitta. Perfino i grilli: scomparsi. Cani, gatti, criceti: spariti. Il gatto di mia madre, Pois, se n'è andato chissà dove molto tempo fa. Lei ha pianto per giorni interi. Gli animali che non potevano andarsene sono molti nelle gabbie. Il mio pesce rosso, a pancia in su nella vaschetta. Sono tutti morti, gli animali scomparsi? O se ne sono andati tutti in un altro posto, con un esodo di massa nel cuore della notte? Un gregge, un branco, una mandria, un'orda. In fila per due lungo la strada? Verso qualche posto sicuro? Non lo sapremo mai.
- Sono i topi che abbandonano la nave che affonda, - dice mio padre. - Loro sanno qualcosa che noi non sappiamo.
"I giorni del cane"
Judy Budnitz
martedì 24 marzo 2009
sabato 21 marzo 2009
La prima idea per la recensione di questa settimana per PiacenzaSera è stata quella della nuova, terza fatica dei Telefon Tel Aviv, non foss'altro per rendere omaggio alla prematura scomparsa di Charles Cooper, uno dei due componenti del combo americano.
Ma l'ascolto di "Immolate Yourself "(2009) - il titolo è tutto un programma - si è rivelato nei fatti piuttosto deludente.
Eppure si parte con la marcia giusta, con l'incedere incombente di The Birds che si conclude in un crescendo turbinoso di suoni ed emozioni, e arriva altrettanto bene, con gradevoli pezzi di pop elettronico (You're the worst thing in the world e la title-track). In mezzo, tuttavia, pochi spunti degni di questo nome: un suono freddo e algido ma, in definitiva, tanta noia. A tratti, i T.T.A. appaiono persino una fotocopia sbiadita dei Nine Inch Nails, ma dei Nine Inch Nails senza palle, un pò come una pinta di birra analcolica...
Così ho deciso di ripiegare sul terzo dei Mountains, "Choral" (2009), il migliore della serie per la stampa specializzata, addirittura Disco del mese per Onda Rock.
Si tratta anche in questo caso di un duo, questa volta proveniente da Chicago, Illinois: Brendon Anderegg e Koen Holtkamp sono amici sin dai tempi della middle school.
La loro è poesia sonora di impianto ambient e minimalista, strettamente imparentata con la discreet music di Brian Eno. In questi anni, i critici si sono sbizzarriti alla ricerca di un genere entro cui catalogarli: drones, elettroacustica pastorale, field recording, soundscape, chi più ne ha più ne metta.
L'album è suddiviso in sei composizioni strumentali, di grande suggestione.
Choral è un'ouverture assai ostica, un'unica lunga nota che si dilata per quasi dieci minuti. Map Table è invece un delicato acquerello per chitarra acustica alla John Fahey. Anche la terza traccia - Telescope, a nostro giudizio l'apice compositivo della raccolta - parte acustica ma presto viene sommersa da un muro ipnotico di suoni immagnifici, ossessionatamente intensi e ripetitivi fino alle estreme conseguenze, fino al collasso nervoso.
Add Infinity ci regala uno straordinario momento di serenità e di armonia, ma subito irrompe Melodica, dove - a dispetto del nome - non vi è traccia alcuna di melodia: qui sono strumenti tradizionali come campanelle, fisarmoniche e cornamuse a giocare un ruolo di primo piano, e improvvisamente tornano alla mente le atmosfere cosmiche del krautrock di Popul Vuh, Amon Duul e Cluster.
Il disco si chiude con un piccolo gioiello, ancora acusitico. Sheets Two, quasi un invito finale alla meditazione, nella vana ricerca di una pace interiore.
mercoledì 18 marzo 2009
Bar Sport
Piu' o meno nello stesso momento in cui a Manchester l'arrogante Mou stava (forse) per sganciare un tifoso dei Red Devils, all'Olimpico è andata in onda l'altra sera una scena che restituire dignità e magia al tormentato mondo pallonaro.
Al termine di una gara quasi epica, centoventi minuti di sofferenza, il pubblico dell'Olimpico è tutto in piedi ad applaudire la sua squadra ridotta in pezzi al centro del campo. Quasi tutti hanno i crampi. Qualcuno non riesce più a muoversi.
Lentamente, i giallorossi si dirigono verso il bordo del campo per salutare i propri tifosi, per una volta fantastici.
Il capitano si copre il volto con la maglia: piange.
Perdonatemi un pò di retorica, non ho mai fatto mistero della mia simpatia nei confronti del capitano: non sarà un fuoriclasse, sarà un burino rozzo e ignorante, ma a me sta simpatico, mi sembra sincero.
Si toglie la maglia e la lancia verso la curva. Adesso è a torso nudo e allora si copre le lacrime con il giubbotto che gli porge un addetto della società.
A questo punto io resto davanti alla tv quasi incantato, forse persino emozionato: che importa aver vinto o perso, se il calcio degli scandali e delle veline riesce ancora ad emozionarti?
(Non ho pianto, no, quello no, quello mi succede solo al cinema: mi è successo di recente quando il wrestler fallito e buono impersonato da un grande Rourke cerca di ristabilire un contatto con la figlia abbandonata da bambina.)
E' bello che il pallone sappia ancora regalare sogni ed emozioni.
Come quando eravamo bambini.
Mi ricordo le mie prime partite alla Galleana. Alla domenica andavamo a mangiare sempre dagli zii, sul Facsal, e poi dopo pranzo io e mio fratello ci incamminavamo con lo zio Enzo verso lo stadio.
Erano i tempi di Skoglund e Mendoza, era un Piacenza scadente e pasticcione.
Lo stadio era ancora come una volta, la tribuna era la tribuna e la gradinata era la gradinata, cazzo, quel catafalco metallico non era ancora planato dal cielo come un oggetto non identificato. Noi si andava sempre in gradinata: e quando pioveva aprivamo l'ombrello, altro che storie.
E poi le tante domeniche pomeriggio passate al campetto dell'oratorio con la radiolina in mano. A quei tempi davano "Tutto il calcio minuto per minuto". Tutti stretti a capannello attorno a quello che aveva la radio, in religioso silenzio, ad ascoltare la voce rauca di Ciotti: scusa Ameri, intervengo da San Siro...
Cazzo, mi ricordo quando il Telamone scagliò per terra la sua radio dopo - mi sembra di ricordare così - un gol del Verona a Torino (era il Verona scudettato di Bagnoli dalla Boviusa, quello con Briegel ed Elkjer, e Garella in porta): i transistor andarono in mille pezzi, e fummo costretti ad andare al bar per sentire il resto delle gare.
(Il Telamone era uno degli strani personaggi - prima o poi dovrò decidermi a raccontarne qui sul blog - che gravitavano nella nostra zona, quella dei giardini della stazione. Fece una brutta fine, quel poveretto: overdose d'eroina, se non ricordo male.)
Al Bar Sport ci si andava a vedere Novantesimo Minuto.
Era una sorta di rito collettivo. Non si poteva mancare.
Ognuno aveva la sua postazione preassegnata. Guai a noi ragazzini se rubavamo una sedia in buona posizione sotto lo schermo, a noi toccava guardare tutta la trasmissione in piedi, in seconda o terza fila.
Il grande cerimoniere era il Pera, un energumeno alto due metri con una profonda cicatrice sulla guancia e un sorriso da bambino. Portava sempre gli zoccoli da infermiere, anche in inverno.
Ci faceva cantare in coro la sigla d'apertura. Dirigeva il pubblico eterogeneo del bar, gesticolando come un direttore d'orchestra in preda a una crisi epilettica:
PARAPPAPPAPPAP-PAP-PA'!
Poi lui stesso copriva la voce di Paolo Valenti:
AMICI SPORTIVI, BUONASERA!
E noi giù tutti a ridere.
Tutte le domeniche ripeteva imperterrito la stessa scena, ma, come per magia, a noi faceva sempre ridere.
E intanto la suspence cresceva: inutile dire che allora era l'unico modo per vedere i gol.
Partivano uno dopo l'altro, senza inutili interruzioni o commenti di patetici opinionisti, i ridicoli servizi degli inviati sfigati: Tonino Carino da Ascoli, Franco Strippoli da Bari, con quel suo agghiacciante riportino, Giorgio Bubba da Genova, Marcello Giannini da Firenze, Rolando Nutini da Pisa. Non azzeccavano un congiuntivo, e poi quell'inflessione dialettale...
E il Pera giù con gli insulti. In questo, va detto, ha anticipato di diversi anni persina la Gialappa's...
E volavano anche le saracche. Di vario tipo, anche assai variopinte: emergevano dalle risate e dalle urla, finchè uno dei fratelli che gestivano il bar, due scapoloni che leccavano la paletta dei gelati quando dovevano passare dal cioccolato alla vaniglia, non si incazzavano di brutto e minaccivano di buttarci fuori. (Gran posto, il Bar Sport: non c'era la mitica Luisona di Stefano Benni (radiocittafujiko.it/home/node/5553), ma mancava poco...)
Adesso - lo so, è scontato ripeterlo, ma è così - c'è decisamente meno poesia.
Tuttavia ancora i bambini sanno emozionarsi, col pallone.
Proprio l'altra sera il Danda mi ha raccontato che suo figlio, nascosto nella sua cameretta, ha avuto una mezza crisi isterica quando ha trovato la figurina di Marco Di Vaio: è il capocannoniere del campionato, mica cazzi.
Quasi tutte le sere si guarda un pezzo di partita, qualsiasi cosa passi su Sky, anche campionati esteri: dopo il primo tempo è costretto ad andare a letto, perchè il giorno dopo si deve alzare presto per andare a scuola.
Allora chiede a suo padre di lasciargli un foglietto sul tavolo della colazione, con su scritto risultato finale e marcatori.
Un mito.
sabato 14 marzo 2009
Strani personaggi, quelli del Collettivo.
Che non sono del tutto a posto lo si capisce già dai nomi d’arte che hanno scelto: Avey Tare, Panda Bear, Deakin e Geologist.
David Portner, Noah Lennox, Josh Dibb e Brian Weitz costituiscono infatti l’ossatura di questo bizzarro ensemble, ossatura attorno alla quale ruotano via via numerosi altri musicisti, tanto che la lineup può persino variare da un brano all’altro.
I quattro si sono conosciuti in un college di Baltimora (Maryland), ma la loro carriera artistica è legata in modo indissolubile alla scena alternativa-sperimentale di New York.
Per la copertina del loro nuovo album, Merriweather Post Pavillion, essi hanno utilizzato un’ illusione ottica dall’effetto quasi ipnotico - opera dello psicologo giapponese Akiyoshi Kitaoka - in grado di cogliere l’atmosfera lisergica e onirica della loro musica.
Il folk bucolico e un po’ freak degli esordi (qualcuno lo etichettò come pre-war folk) lascia quì spazio a nuovi scenari elettronici, tutt’altro che convenzionali, che si esplicitano in un autentico magma sonoro, ovvero un flusso continuo e ininterrotto di melodie acide e trip stranianti, la cui base ritmica è spesso costituita da rumorismi primitivi e da tappeti di percussioni tribali.
Per la critica, il pop psichedelico e surreale degli Animal Collective – proprio in questi giorni in Italia per un tour di sole tre date - trova le sue radici nel Magical Mistery Tour dei Beatles (ascoltate Also Frightened, ad esempio) e nel noisy rock di My Bloody Valentine e Jesus and Mary Chain (Guys Eyes e Lion In A Coma), oltre a essere debitore dei Beach Boys di Pet Sounds per i cori e le intricate sovrapposizioni canore (la bellissima Daily Routine).
A nostro giudizio, però, il riferimento più azzeccato è quello dei Mercury Rev di See You On The Other Side e Deserter’s Song (l’iniziale In The Flowers, soprattutto, e la liquida No More Runnin).
Il 2009 si era aperto nel segno dell’inquetudine esistenziale di Antony, The Crying Light è l’album della sua consacrazione definitiva.
Questa gemma splendente è, probabilmente, il secondo capolavoro di questo scorcio di nuovo anno.
(Grazie a Hernan Crespo per la segnalazione)
domenica 8 marzo 2009
QUASI COME KEROUAC, 06
(1994, July 25th - SECONDA PARTE)
La visita di Taliesin West si è appena conclusa sotto un sole che spacca le pietre. Mi appresto a scendere per un sentiero polveroso, verso il sobborgo di Scottsdale: è lì che ho un appuntamento con Big e Paulette. Puntuale, la Toyota Camry mi carica nei pressi della fermata del bus.
Mi lascio cadere esausto sul sedile posteriore.
Non ho nemmeno la forza di parlare. Poco male, sarà una giornata lunga e avrò tutto il tempo per raccontare.
(Non è ancora mezzogiorno.)
Abbandoniamo Phoenix e imbocchiamo la Highway 17 in direzione nord, per Flagstaff.
Dopo poche centinaia di metri, decidiamo di lasciare l'autostrada e di optare per un itinerario alternativo con la Statale 89 in direzione nord-ovest. Consultando la mappa, Paulette si è accorto che così facendo attraverseremmo la Prescott National Forest e di lì raggiungeremmo la ghost-town ottocentesca di Jerome.
Ma la segnaletica è inesistente, cazzo, e presto ci ritroviamo sperduti su una strada che attraversa il deserto. La percorriamo per almeno trenta miglia e raggiungiamo Paolo Verde, sobborgo a sud di Phoenix: esattamente nella direzione opposta a quella che andiamo cercando.
Merda.
Dove cazzo siamo?, chiede Big.
Non lo so. Non si capisce un cazzo su questa mappa di merda, faccio io.
Porco ***, fa Big.
(Questo dialogo - uno dei nostri più tipici dialoghi, va detto - viene riportato al fine di caratterizzare e tratteggiare meglio i personaggi del racconto. E' un passaggio inevitabile, direi la lesson one di una qualsiasi scuola di scrittura, che sia o meno creativa.)
Dopo un paio di inutili e goffi tentativi di ritrovare la via maestra, riusciamo infine a riprendere la marcia verso Flagstaff.
Un paio di hamburger in uno squallido fastfood con una sgualcita tappezzeria color crema è tutto quello che troviamo da mettere sotto i denti.
Siamo a Wickenurg, Peeples Walley. Una località dimenticata dal Signore e da tutti gli uomini di buon senso.
La temperatura non accenna a diminuire: il termometro della Camry indica 40,5°. Soffia, insopportabile, un'aria calda e secca.
Scesi dall'auto, dobbiamo fare presto se non vogliamo che le suole delle scarpe si sciolgano sull'asfalto bollente.
La frescura dei boschi di abeti e cedri della Prescott National Forest è come un manna dal cielo.
Ora viaggiamo all'ombra delle conifere secolari, con i finestrini finalmente abbassati, di aria condizionata non ne potevamo proprio più.
Poco oltre, Prescott è l'America profonda, se questa espressione può avere un senso.
Prescott è anche il fallimento dell'urbanistica, anzi, l'assenza totale di qualsivoglia proposta di pianificazione urbana. Ci muoviamo perplessi, come in un videogame, in un'enorme e orrendo marasma di seconde case, motel con davanti immensi parcheggi, drugstore, insegne pubblicitarie, officine meccaniche, case mobili abbandonate in spiazzi improvvisati di terra polverosa.
Ci lasciamo questo triste spettacolo alle spalle senza rimpianti, e raggiungiamo in breve tempo Jerome, la città fantasma. Non è difficile intuire, purtroppo, che essa non è che la ricostruzione, chissà quanto mai fedele, di un tipico villaggio dell'epoca della mitica corsa all'oro.
Una sorta di Grazzano Visconti del West, insomma.
Passeggiamo un pò svogliati nella Main Street, sulla quale si affacciano tutti gli edifici, interamente costruiti in legno. Ci sono il saloon, l'ufficio dello sceriffo con le celle della gattabuia, persino una segheria ancora in funzione, dove un vecchio con una camicia scozzese e una folta barba rossiccia finge di lavorare alla pialla meccanica. Tutto intorno, altre comparse recitano distrattamente il loro copione.
E noi recitiamo il ruolo dei turisti ingenui e creduloni, cazzo ci costa.
La location è comunque interessante per un paio di scatti - il vecchio falegname con la barba, un gruppo di pavoni dalla coda coloratissima, i vecchi furgoncini abbandonati ai margini del deserto - con la Yashika, scatti che vanno centellinati con parsimonia e che non si possono sprecare alla cazzo. In questi tempi, si lavora ancora con le diapositive: nessuna nostaglia, spesso litigavo coi caricatori che immancabilmente si incastravano nel proiettore, che poi le mettevo dentro sempre sottosopra, con le persone a testa in giù, cazzo, per non parlare di quando mi cadevano per terra e si infilavano dappertutto, sotto il letto, il tavolo, ecc... Siamo molto prima dell'avvento della tecnologia digitale, infatti. Dunque, è necessario soppesare bene emozioni e valutare con precisione la qualità della ripresa, prima di pigiare il tasto che apre il diaframma.
Le cose si complicano ancor più se si pensa che la vecchia reflex Yashika è una comproprietà secca, come segue:
* Country Joe, comproprietario per la quota di 1/2;
* Paulette, comproprietario per la quota di 1/2.
La visita di Taliesin West si è appena conclusa sotto un sole che spacca le pietre. Mi appresto a scendere per un sentiero polveroso, verso il sobborgo di Scottsdale: è lì che ho un appuntamento con Big e Paulette. Puntuale, la Toyota Camry mi carica nei pressi della fermata del bus.
Mi lascio cadere esausto sul sedile posteriore.
Non ho nemmeno la forza di parlare. Poco male, sarà una giornata lunga e avrò tutto il tempo per raccontare.
(Non è ancora mezzogiorno.)
Abbandoniamo Phoenix e imbocchiamo la Highway 17 in direzione nord, per Flagstaff.
Dopo poche centinaia di metri, decidiamo di lasciare l'autostrada e di optare per un itinerario alternativo con la Statale 89 in direzione nord-ovest. Consultando la mappa, Paulette si è accorto che così facendo attraverseremmo la Prescott National Forest e di lì raggiungeremmo la ghost-town ottocentesca di Jerome.
Ma la segnaletica è inesistente, cazzo, e presto ci ritroviamo sperduti su una strada che attraversa il deserto. La percorriamo per almeno trenta miglia e raggiungiamo Paolo Verde, sobborgo a sud di Phoenix: esattamente nella direzione opposta a quella che andiamo cercando.
Merda.
Dove cazzo siamo?, chiede Big.
Non lo so. Non si capisce un cazzo su questa mappa di merda, faccio io.
Porco ***, fa Big.
(Questo dialogo - uno dei nostri più tipici dialoghi, va detto - viene riportato al fine di caratterizzare e tratteggiare meglio i personaggi del racconto. E' un passaggio inevitabile, direi la lesson one di una qualsiasi scuola di scrittura, che sia o meno creativa.)
Dopo un paio di inutili e goffi tentativi di ritrovare la via maestra, riusciamo infine a riprendere la marcia verso Flagstaff.
Un paio di hamburger in uno squallido fastfood con una sgualcita tappezzeria color crema è tutto quello che troviamo da mettere sotto i denti.
Siamo a Wickenurg, Peeples Walley. Una località dimenticata dal Signore e da tutti gli uomini di buon senso.
La temperatura non accenna a diminuire: il termometro della Camry indica 40,5°. Soffia, insopportabile, un'aria calda e secca.
Scesi dall'auto, dobbiamo fare presto se non vogliamo che le suole delle scarpe si sciolgano sull'asfalto bollente.
La frescura dei boschi di abeti e cedri della Prescott National Forest è come un manna dal cielo.
Ora viaggiamo all'ombra delle conifere secolari, con i finestrini finalmente abbassati, di aria condizionata non ne potevamo proprio più.
Poco oltre, Prescott è l'America profonda, se questa espressione può avere un senso.
Prescott è anche il fallimento dell'urbanistica, anzi, l'assenza totale di qualsivoglia proposta di pianificazione urbana. Ci muoviamo perplessi, come in un videogame, in un'enorme e orrendo marasma di seconde case, motel con davanti immensi parcheggi, drugstore, insegne pubblicitarie, officine meccaniche, case mobili abbandonate in spiazzi improvvisati di terra polverosa.
Ci lasciamo questo triste spettacolo alle spalle senza rimpianti, e raggiungiamo in breve tempo Jerome, la città fantasma. Non è difficile intuire, purtroppo, che essa non è che la ricostruzione, chissà quanto mai fedele, di un tipico villaggio dell'epoca della mitica corsa all'oro.
Una sorta di Grazzano Visconti del West, insomma.
Passeggiamo un pò svogliati nella Main Street, sulla quale si affacciano tutti gli edifici, interamente costruiti in legno. Ci sono il saloon, l'ufficio dello sceriffo con le celle della gattabuia, persino una segheria ancora in funzione, dove un vecchio con una camicia scozzese e una folta barba rossiccia finge di lavorare alla pialla meccanica. Tutto intorno, altre comparse recitano distrattamente il loro copione.
E noi recitiamo il ruolo dei turisti ingenui e creduloni, cazzo ci costa.
La location è comunque interessante per un paio di scatti - il vecchio falegname con la barba, un gruppo di pavoni dalla coda coloratissima, i vecchi furgoncini abbandonati ai margini del deserto - con la Yashika, scatti che vanno centellinati con parsimonia e che non si possono sprecare alla cazzo. In questi tempi, si lavora ancora con le diapositive: nessuna nostaglia, spesso litigavo coi caricatori che immancabilmente si incastravano nel proiettore, che poi le mettevo dentro sempre sottosopra, con le persone a testa in giù, cazzo, per non parlare di quando mi cadevano per terra e si infilavano dappertutto, sotto il letto, il tavolo, ecc... Siamo molto prima dell'avvento della tecnologia digitale, infatti. Dunque, è necessario soppesare bene emozioni e valutare con precisione la qualità della ripresa, prima di pigiare il tasto che apre il diaframma.
Le cose si complicano ancor più se si pensa che la vecchia reflex Yashika è una comproprietà secca, come segue:
* Country Joe, comproprietario per la quota di 1/2;
* Paulette, comproprietario per la quota di 1/2.
sabato 7 marzo 2009
All’alba dei cinquant’anni (li compirà il prossimo 22 maggio), Steven Patrick Morrissey sembra non sentire il peso degli anni e continua imperterrito a proporre ai suoi numerosi estimatori musica di ottimo livello.
Oggi Moz è un uomo maturo, tutt’altro che bolso, che non rinnega nulla di ciò che ha fatto in passato e che guarda avanti con ottimismo (“Why change now?/"It hasn't!"/Now this might surprise you, but/I find I'm OK by myself.”), anche se qua e là riaffiorano i tormenti esistenziali e le incomprensioni amorose (“In the absence of your love/And in the absence of human touch/I have decided/I'm throwing my arms around, around Paris/Because only stone and steel accept my love”) che furono alla base dei fasti dell’epopea Smiths.
Al primo impatto, “Years Of Refusal” – nono album della sua carriera solista - colpisce l’ascoltatore per la sua produzione compatta e monocorde, decisamente rock, merito (o colpa?) del compianto Jerry Finn (Green Day, Bad Religion), scomparso a soli 38 anni a causa di un’emorragia cerebrale dopo aver terminato proprio questo lavoro.
Un ruvido wall of sound di chitarre elettriche copre in alcuni casi – è il caso del singolo “All You Need Is Me”, oppure della tiratissima “I’m Ok By Myself” in chiusura - la voce calda e suadente da crooner del nostro, e questo suscita perplessità.
Alla lunga, però, l’album finisce per farsi apprezzare per la sua energia e per la sua inconsueta freschezza.
L’inizio è addirittura arrembante, con le ottime “Something Is Squeezing My Skull” e “Mama Lay Softly On The Riverbed”, ma c’è spazio anche per superbe e malincoliche ballads come “I’m Throwing My Arms Around Paris” (con la delicata tromba di Mark Isham) e "You Were Good In Your Time", oltre addirittura per un paio di arrangiamenti in sapore Tex-Mex: “When I Last Spoke To Carol” e “One Day Goodbye Will Be Farewell”.
Insomma, Morrissey è ancora capace di scrivere grandi pezzi pop.
La meravigliosa “That’s How People Grow Up” – l’altro singolo, uscito come il primo già lo scorso anno – non avrebbe certo sfigurato in capolavori come “The Queen Is Dead” e “The World Won’t Listen”.
Alla faccia di tutti coloro che pensavano che il merito fosse tutto di Johnny Marr.
martedì 3 marzo 2009
La montagna e il topolino
Acquistai la mia copia di War nel lontano 1983, dopo aver letto una bella recensione su Steroplay, una rivista di alta fedeltà che mio fratello era solito acquistare; nello stesso periodo fumava la pipa, ascoltava canti gregoriani e aveva una folta barba tipo Cutolo.
Molto prima di Pride, di Dj Television e del successo planetario.
Se Larry Sock giustamente rivendica di aver scoperto Landsdale in tempi non sospetti, Country Joe può fare altrettanto con la band di Dublino, senza timore di smentite.
Ricordo ancora le facce degli amici quando misi il vinile sul piatto dello stereo dell'oratorio, che il Ludo ci aveva acquistato in un impeto di generosità che merita, a distanza di anni, la nostra riconoscenza. Che disco eccezionale. Che potenza, e che freschezza. All'epoca impazzava l'elettronica, Depeche Mode, Human League, cose così.
Ho amato gli U2. All'esame di maturità scelsi il tema su Leopardi, e riuscìi a costruire un confronto tra il pessimismo cosmico e le liriche di Bono e compagni. Come feci, lo sa il Signore. Fatto sta che presi 9. Ha ragione la Gelmini, cazzo, è tutto da rifare.
Penso dunque di avere le carte in regola per dire la mia sul nuovo, attesissimo, album, che al primo ascolto non mi aveva affatto impressionato.
Le troppe dichiarazioni altisonanti ("il migliore album degli U2", secondo Bono: esilarante) e i proclami enfatici prima dell'uscita del disco probabilmente non gli hanno giovato: sembra proprio la storia della montagna che partorisce il topolino...
Dopo aver scambiato qualche opinione con Big e DJ Looka, che la pensano diversamente, ho deciso di mandarlo in loop continuo durante il mio recente viaggio verso le Dolomiti.
Queste le mie impressioni aggiornate: che parta la discussione, fratelli!
NO LINE ON THE HORIZON: 8
"I know a girl...", non era lo stesso incipit di Party girl?
Non è certo Where the streets have no name, ma la title-track è forte di un notevole intreccio sonoro, un titolo suggestivo e un Bono in gran forma. Un voto in meno per l'eccesso di cori e coretti - tipo ouououou, ecc... - ovvero un'erba gramigna che infesta tutto il disco.
MAGNIFICENT: 8
Gran pezzo alla U2, a parte quello strano intro col sinth.
Mica bisogna vergognarsi, di fare pezzi alla U2...
Sembra che sarà scelto come secondo singolo: andrà alla grande.
MOMENT OF SURRENDER: 4
Inutilmente lungo - sfiora i dieci minuti, arrivare alla fine è davvero un'impresa - questo gospel stanco, monotono e monocorde manca del pathos e dell'emotività vibrante dei tempi di I still haven't found....
UNKNOWN CALLER: 9
Qui si sente la lunga militanza di Eno nei Talking Heads. Probabilmente, è la mia preferita. Grande The Edge, nel finale.
I'LL GO CRAZY...: 3
Assolutamente imbarazzante la povertà creativa e la mancanza di originalità di questo brano. Anche il testo è di quelli da dimenticare.
GET ON YOUR BOOTS: 5
Stroncatissimo dalla critica, sulle prime non avevo trovato il singolo così male, o almeno mi sembrava meglio di Vertigo. I ripetuti ascolti mi hanno fatto cambiare idea, e di buono rimane solo quell'atmosfera psichedelica del "Let me in the sun" ripetuto verso la fine.
STAND UP COMEDY: 6
Qualcuno ha scomodato addirittura i Led Zeppelin (!). Il possente riff funkeggiante su cui poggia tutto il pezzo è accattivante, ma è qualcosa di già sentito: Gang of Four?
FEZ-BEING BORN: 7
Doveva essere la traccia più sperimentale. Non lo è poi così tanto, a dire il vero, ma funziona bene.
WHITE AS SNOW: 6
Questa ballad lenta scorre via in modo piacevole ma, ammettiamolo, è piuttosto anonima, e non fa che accrescere la nostalgia per i tempi di Running to stand still ed Exit.
BREATHE: 5
L'incipit quasi heavy promette assai, ma con il passare del tempo il brano - robusto rock di maniera - si incarta e non riesce più a decollare.
CEDARS OF LEBANON: 7
Il parlato alla Lou Reed è suggestivo. Chiude bene l'album, niente da dire.
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