E’ mattino, fa un freddo notevole. La città è immersa in una fioca luce invernale, ricoperta da una spessa cappa grigia che sa di piombo, di amianto e di industrializzazione selvaggia.
Prendi un taxi in Plata Universatea, il centro culturale di Bucarest. Un anonimo enorme slargo dominato da un grattacielo, moderna ma insignificante sede del celebre hotel da cui i giornalisti occidentali assistettero alla fine del regime di Ceausescu.
Era il dicembre del 1989, il muro di Berlino era caduto da due mesi e la Perestroika avviata da tempo. Ti hanno raccontato che fu proprio Gorbaciov, da Mosca, a fomentare la rivolta di Timisoara, prima, e la caduta di Bucarest, decisiva. E ti hanno portato a vedere i fori delle pallottole sui muri dell’ateneo cha dà il nome alla piazza, e il balcone dove il 22 dicembre Ceausescu tenne l’ultimo discorso, o meglio ci provò, prima di tentare un’inutile goffa fuga in elicottero dai tetti di Plata Rivoluzione.
Ti dirigi verso Sud, nella periferia della capitale.
Scorgi il profilo del Palazzo della Rivoluzione, che i rumeni chiamano ancora Casa del Popolo, opera maestosamente imbarazzante, fulgido esempio del delirio onnipotente del dittatore e dell’esigenza di dare all’esterno un messaggio di progresso e prosperità.
La tua mente torna alla Torre della Radio, simbolo della vecchia Berlino Est. L’edificio, il secondo più grande del mondo dopo il Pentagono, si affaccia su un enorme viale che taglia trasversalmente la città, sullo stile dei Champs Elysees. Del resto ti hanno detto che Bucarest è la Parigi dell’Est, e lo hanno fatto senza autoironia, convinti.
Oltre ai finestrini della tua Dacia gialla sfilano orrendi palazzoni grigi, in una sequenza tanto regolare quanto angosciante.
Il grigio domina in modo assoluto.
E opprimente.
Ti chiedi se la povertà e la storia sfortunata di questo popolo siano sufficienti a spiegare e a giustificare la tristezza e la sensazione di brutto che hai percepito in questi giorni.
Ovvio che non è così, non può essere così.
Pensi a Cuba, pensi al Portogallo. Pensi alla Sicilia profonda.
Tutti luoghi poveri e in un certo senso arretrati, che ti abbagliano con la loro struggente bellezza.
Ti domandi dunque se questo popolo non abbia gusto, sensibilità, piacere per il bello: non lo capisce, non lo sente, non lo desidera, non lo cerca.
Lo percepisci ovunque in città, nelle case, nei palazzi, nei balconi, nei giardini, nei marciapiedi e nei piccoli dettagli dell’arredo urbano, nei negozi, nella gente. O almeno hai questa sensazione.
Canticchi uno strepitoso pezzo dei Marlene Kuntz, “noi cerchiamo la bellezza, ovunque”.
Sei immerso in questi pensieri quando ti accorgi che il tassista non ha ancora aperto bocca.
Non che i rumeni si siano dimostrati particolarmente socievoli, però ti sembra che questo stia esagerando.
Scambi due parole con le colleghe, in italiano.
Il tassista infastidito alza il volume della radio.
Una rotonda, una svolta a destra e poi alza ancora e si mette a ghignare, prima facendo un timido tentativo di contenersi, poi lasciandosi andare di brutto.
Cerchi di capire di cosa stiano parlando alla radio.
E’ un programma comico, probabilmente di satira di quart’ordine, di quelli che inondano anche le nostre emittenti private durante la mattinata.
I due conduttori distorgono i toni vocali in modo alquanto banale, una vocina e una vociona.
Ad un ceto punto capti qualche parola, facilitato da una certa somiglianza tra le due lingue, e capisci che stanno facendo sarcasmo sull’Italia. I rapporti tra i due paesi non sono idilliaci, al momento, e la nostra nazione ha appena rimpatriato cinquecento cittadini rumeni irregolarmente immigrati, sulla spinta generata dall’opinione pubblica a causa di alcuni fatti criminosi compiuti da rumeni.
Chino sul volante nella sua giacca a vento azzurra il tassista continua a ghignare, alzando ulteriormente il volume. Evidentemente quei due devono essere irresistibili, pensi.
Prendono per il culo gli italiani.
Lui sa di avere a bordo degli italiani e invece di abbassare il volume imbarazzato o cambiare canale, come avresti fatto tu, se la ride di brutto.
Sei arrivato, la sede del seminario è davvero un luogo allucinante.
Prendi un taxi in Plata Universatea, il centro culturale di Bucarest. Un anonimo enorme slargo dominato da un grattacielo, moderna ma insignificante sede del celebre hotel da cui i giornalisti occidentali assistettero alla fine del regime di Ceausescu.
Era il dicembre del 1989, il muro di Berlino era caduto da due mesi e la Perestroika avviata da tempo. Ti hanno raccontato che fu proprio Gorbaciov, da Mosca, a fomentare la rivolta di Timisoara, prima, e la caduta di Bucarest, decisiva. E ti hanno portato a vedere i fori delle pallottole sui muri dell’ateneo cha dà il nome alla piazza, e il balcone dove il 22 dicembre Ceausescu tenne l’ultimo discorso, o meglio ci provò, prima di tentare un’inutile goffa fuga in elicottero dai tetti di Plata Rivoluzione.
Ti dirigi verso Sud, nella periferia della capitale.
Scorgi il profilo del Palazzo della Rivoluzione, che i rumeni chiamano ancora Casa del Popolo, opera maestosamente imbarazzante, fulgido esempio del delirio onnipotente del dittatore e dell’esigenza di dare all’esterno un messaggio di progresso e prosperità.
La tua mente torna alla Torre della Radio, simbolo della vecchia Berlino Est. L’edificio, il secondo più grande del mondo dopo il Pentagono, si affaccia su un enorme viale che taglia trasversalmente la città, sullo stile dei Champs Elysees. Del resto ti hanno detto che Bucarest è la Parigi dell’Est, e lo hanno fatto senza autoironia, convinti.
Oltre ai finestrini della tua Dacia gialla sfilano orrendi palazzoni grigi, in una sequenza tanto regolare quanto angosciante.
Il grigio domina in modo assoluto.
E opprimente.
Ti chiedi se la povertà e la storia sfortunata di questo popolo siano sufficienti a spiegare e a giustificare la tristezza e la sensazione di brutto che hai percepito in questi giorni.
Ovvio che non è così, non può essere così.
Pensi a Cuba, pensi al Portogallo. Pensi alla Sicilia profonda.
Tutti luoghi poveri e in un certo senso arretrati, che ti abbagliano con la loro struggente bellezza.
Ti domandi dunque se questo popolo non abbia gusto, sensibilità, piacere per il bello: non lo capisce, non lo sente, non lo desidera, non lo cerca.
Lo percepisci ovunque in città, nelle case, nei palazzi, nei balconi, nei giardini, nei marciapiedi e nei piccoli dettagli dell’arredo urbano, nei negozi, nella gente. O almeno hai questa sensazione.
Canticchi uno strepitoso pezzo dei Marlene Kuntz, “noi cerchiamo la bellezza, ovunque”.
Sei immerso in questi pensieri quando ti accorgi che il tassista non ha ancora aperto bocca.
Non che i rumeni si siano dimostrati particolarmente socievoli, però ti sembra che questo stia esagerando.
Scambi due parole con le colleghe, in italiano.
Il tassista infastidito alza il volume della radio.
Una rotonda, una svolta a destra e poi alza ancora e si mette a ghignare, prima facendo un timido tentativo di contenersi, poi lasciandosi andare di brutto.
Cerchi di capire di cosa stiano parlando alla radio.
E’ un programma comico, probabilmente di satira di quart’ordine, di quelli che inondano anche le nostre emittenti private durante la mattinata.
I due conduttori distorgono i toni vocali in modo alquanto banale, una vocina e una vociona.
Ad un ceto punto capti qualche parola, facilitato da una certa somiglianza tra le due lingue, e capisci che stanno facendo sarcasmo sull’Italia. I rapporti tra i due paesi non sono idilliaci, al momento, e la nostra nazione ha appena rimpatriato cinquecento cittadini rumeni irregolarmente immigrati, sulla spinta generata dall’opinione pubblica a causa di alcuni fatti criminosi compiuti da rumeni.
Chino sul volante nella sua giacca a vento azzurra il tassista continua a ghignare, alzando ulteriormente il volume. Evidentemente quei due devono essere irresistibili, pensi.
Prendono per il culo gli italiani.
Lui sa di avere a bordo degli italiani e invece di abbassare il volume imbarazzato o cambiare canale, come avresti fatto tu, se la ride di brutto.
Sei arrivato, la sede del seminario è davvero un luogo allucinante.
Nei marciapiedi ci sono squarci ovunque, i palazzoni grigi sono i più grigi che ti sembra di ricordare.
Avresti voluto chiedergli che cazzo ha da ridere, che basta lanciare un’occhiata oltre al vetro sporco della sua fottutissima Dacia per realizzare che davvero non c'è un cazzo da ridere.
Ti viene in mente il vecchio Monte, che prontamente l’avrebbe compatito perché mangia la carne una volta al mese, o lo Zio Facce, che l’avrebbe ricoperto delle peggiori ingiurie accusando lui e i suoi connazionali di essere indietro come la coda del gogno.
E invece sorridi, e con te sorridono le colleghe, e lo guardi come potresti guardare un pazzo quando con aria tranquilla si gira per chiedere il dovuto e proporre di arrotondare la cifra.
E’ la prima volta che apre la bocca, ti sembra.
Pensi che forse è meglio così, gli lasci il resto e te ne vai.
Avresti voluto chiedergli che cazzo ha da ridere, che basta lanciare un’occhiata oltre al vetro sporco della sua fottutissima Dacia per realizzare che davvero non c'è un cazzo da ridere.
Ti viene in mente il vecchio Monte, che prontamente l’avrebbe compatito perché mangia la carne una volta al mese, o lo Zio Facce, che l’avrebbe ricoperto delle peggiori ingiurie accusando lui e i suoi connazionali di essere indietro come la coda del gogno.
E invece sorridi, e con te sorridono le colleghe, e lo guardi come potresti guardare un pazzo quando con aria tranquilla si gira per chiedere il dovuto e proporre di arrotondare la cifra.
E’ la prima volta che apre la bocca, ti sembra.
Pensi che forse è meglio così, gli lasci il resto e te ne vai.
PAULETTE
3 commenti:
Una volta c'era il Muro. Il Muro era bello, imponente, invalicabile. Il Muro serviva a quelli che comandavano di là per tenere nascosti orrori ed errori. In questo modo gli idealisti progressisti di qua potevano continuare a vantare le magnifiche sorti e progressive...
Ma il Muro serviva anche a quelli che comandavano di qua per indicarci il Nemico da combattere. Che poi non era un vero nemico e non aveva alcuna intenzione nè possibilità di attaccarci, ma funzionava così bene!
Così era il mondo, diviso in due, separato dal Muro, con una guerra fittizia in corso, poco più che una burla.
Ma poi un giorno hanno buttato giù il Muro, hanno cominciato ad usare parole strane, come perestrojka e glasnost che chissà che cazzo vogliono dire. In uno schiocco di dita chi comandava di là non ha più comandato, e neanche chi comandava di qua. Sembrava che non ci fossero più nemici da combattere, neanche per finta. E invece poi i nemici abbiamo cominciato ad avvistarli nelle nostre strade, un'armata di poveracci senza niente da perdere. E quella guerra da operetta è diventata reale, si combatte ogni giorno nelle vie, nei parchi, nelle stazioni. Pensate, ci sono politici il cui unico mestiere è diventato quello di segnalare ed avvistare ogni giorno nuovi nemici, e mano a mano che li segnalano diventano reali, la gente ci crede ed ha paura!
Ma io, lo confesso, rimpiango il possente Muro, che mi dava certezze inespugnabili ed un grande senso di sicurezza.
Hai reso perfettamente l'atmosfera di Bucarest. Vero che domina il grigio e che tutto è così brutto che ti si stringe il cuore, che ti vien voglia di scappare. Quantomeno ti ripeti che per fortuna te ne torni presto a casa.... A proposito del carattere "ombroso" dei rumeni ricordo un episodio fantastico: gruppo di bambini sugli 11/12 anni che, all'uscita da scuola, bighellonando per questi vialoni smoggosi e trafficatissimi, non trovarono niente di meglio da fare che tirare addosso alle mie colleghe alcune bacche verdi e durissime... Buffissimo!!! Soprattutto conoscendo quelle due befane!!!!
"Le lasciai un nichel di mancia, presi il resto e me ne andai"
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