Un titolo brutto, bruttissimo.
Una copertina altrettanto brutta.
Un singolo tutto sommato innocuo, Every Teardrop is a Waterfall, che esibisce una metafora talmente immagnifica (ogni lacrima è una cascata d’acqua; ma più avanti ritroviamo anche cose del tipo "the sky is blue"), roba da Baci Perugina.
C’erano le premesse per stroncare – senza nemmeno ascoltarlo - il nuovo lavoro della band inglese, da tempo presa di mira dalla critica più alternativa e militante a causa della recente involuzione rispetto alla magia degli esordi – ricordate Trouble e Yellow? – e di una serie di imbarazzanti accuse di plagio (tra gli altri, i Kraftwerk).
Eppure.
Eppure questo disco dal titolo così brutto è un disco che vale comunque la pena ascoltare: persino il famigerato (almeno sulla carta) duetto elettrodance con la regina dello stasystem Rihanna – Princess Of China - non riesce a convincerci del contrario.
Ma.
Mylo Xyloto si apre con il breve intro della title-track, uno dei tre strumentali del lotto, e con il caleidoscopio psichedelico di Hurts Like Heaven - qui la mano di Eno si sente; ma il livello scende subito con la mediocre Paradise, che parte come un pezzo di Moby ma si rivela come il singolo perfetto da charts, e con la successiva Charlie Brown che sembra ammiccare ai Muse. Non riescono a sollevare il livello i brani tra i più tipici del loro repertorio, Major Minus e Don’t Let It Break Your Heart. Infine c’è ampio spazio per le malinconiche softs (U.F.O., Us against the World e Up In Flames, la migliore) purtroppo quasi mai al livello di quelle che le hanno precedute.
Tuttavia, Martin se ne sbatte.
Pare essersi scrollato di dosso le tensioni del post-successo mondiale e le ansie di essere considerato il più bravo (“Se qualcuno pensa che io sia un testa di cazzo, bene, che ascolti i dischi di qualcun altro. Non siamo in un regime totalitario. Nessuno è obbligato ad ascoltare i Coldplay” o anche: “Lo sappiamo, i nostri testi sono merda pura”) e tira furbescamente avanti per la sua strada, con il suo pop tecnicamente perfetto – quanti gruppi pop all’altezza dei Coldplay conoscete? – ma ormai un po’ stanco, in bilico tra la riproposizione della consueta epica alla U2 e alcune, timide, aperture alla ricerca di un nuovo sound.
Forse non resta che seguire il consiglio di Chris Martin.
lunedì 31 ottobre 2011
sabato 29 ottobre 2011
Scritture pazze, 01
Vieni svegliato in piena notte da un rumore sospetto.
Ti sembra provenire dal piano di sotto.
Potrebbe essere uno scassinatore, ti chiedi mentre ancora ti stropicci gli occhi. Nell’ultima settimana hanno svaligiato già tre villette nel quartiere, un’immensa distesa di villette tutte uguali ai margini della tangenziale. Te l’ha detto il commissario, l’ahi incrociato proprio stamattina in edicola. Restate all’erta, ti ha consigliato. Ci sono un sacco di balordi in giro, oggigiorno.
Accendi la luce sul comodino e, nel farlo, travolgi il bicchiere con la dentiera di tua moglie. Cerchi di mettere le pantofole, senza trovarle.
Scendi da basso e ti acquatti dietro il paravento intarsiato del soggiorno, inutile regalo di nozze.
Ora il silenzio avvolge la casa.
Resti in attesa, osservando il quadro sopra il cassettone, quello con la cornice dorata, che raffigura tuo nonno. Che figura lugubre, con quel pastrano nero, quel naso adunco e quegli occhi dall’aspetto equino. Faceva l’orologiaio, aveva una bottega a pochi metri dalla stazione, ma così conciato sembra un impresario delle pompe funebri. Ti massaggi lo stomaco rigonfio infilandoti una mano sotto il pigiama di flanella. Ho esagerato con il pesce, ieri sera, pensi. Dovresti fare più attenzione, il gastroenterologo te l’ha detto di fare la dieta, ma come prepara il branzino il vecchio Gino non ce n’è. E quelle sardine affumicate…
Passano i minuti. Ancora nessun rumore.
Vai in cucina e ti versi un po’ d’acqua, poi cerchi l’alka seltzer nell’armadietto dei medicinali. Prima di tornare in soggiorno, ti affacci alla finestra che da sul retro, sulla rampa di autobloccanti che porta al garage.
Tutto tranquillo.
Forse ti sei sbagliato. Forse non c’è stato nessun rumore. Forse sei solo ancora rintronato dalla mangiata di ieri sera.
E allora te ne torni a letto, sbadigliando, e mentre a torni a letto inciampi nel tappeto finto persiano. Stronzo di un tappeto, mormori.
(Vocaboli: DENTIERA, COMMISSARIO, SARDINE, POMPE FUNEBRI, OROLOGIAIO)
Ti sembra provenire dal piano di sotto.
Potrebbe essere uno scassinatore, ti chiedi mentre ancora ti stropicci gli occhi. Nell’ultima settimana hanno svaligiato già tre villette nel quartiere, un’immensa distesa di villette tutte uguali ai margini della tangenziale. Te l’ha detto il commissario, l’ahi incrociato proprio stamattina in edicola. Restate all’erta, ti ha consigliato. Ci sono un sacco di balordi in giro, oggigiorno.
Accendi la luce sul comodino e, nel farlo, travolgi il bicchiere con la dentiera di tua moglie. Cerchi di mettere le pantofole, senza trovarle.
Scendi da basso e ti acquatti dietro il paravento intarsiato del soggiorno, inutile regalo di nozze.
Ora il silenzio avvolge la casa.
Resti in attesa, osservando il quadro sopra il cassettone, quello con la cornice dorata, che raffigura tuo nonno. Che figura lugubre, con quel pastrano nero, quel naso adunco e quegli occhi dall’aspetto equino. Faceva l’orologiaio, aveva una bottega a pochi metri dalla stazione, ma così conciato sembra un impresario delle pompe funebri. Ti massaggi lo stomaco rigonfio infilandoti una mano sotto il pigiama di flanella. Ho esagerato con il pesce, ieri sera, pensi. Dovresti fare più attenzione, il gastroenterologo te l’ha detto di fare la dieta, ma come prepara il branzino il vecchio Gino non ce n’è. E quelle sardine affumicate…
Passano i minuti. Ancora nessun rumore.
Vai in cucina e ti versi un po’ d’acqua, poi cerchi l’alka seltzer nell’armadietto dei medicinali. Prima di tornare in soggiorno, ti affacci alla finestra che da sul retro, sulla rampa di autobloccanti che porta al garage.
Tutto tranquillo.
Forse ti sei sbagliato. Forse non c’è stato nessun rumore. Forse sei solo ancora rintronato dalla mangiata di ieri sera.
E allora te ne torni a letto, sbadigliando, e mentre a torni a letto inciampi nel tappeto finto persiano. Stronzo di un tappeto, mormori.
(Vocaboli: DENTIERA, COMMISSARIO, SARDINE, POMPE FUNEBRI, OROLOGIAIO)
martedì 25 ottobre 2011
Pop.it 2.0
Settimana scorsa, raccontandovi dell’addio alle scene di Ivano Fossati, abbiamo accennato alla nuova scuola cantautoriale italiana.
Esiste davvero?
Proviamo allora ad ascoltare alcuni tra i più interessanti artisti emersi qui da noi negli ultimi anni.
Bugo per la verità non è per nulla una novità.
Giunto ormai all’ottavo lavoro, Cristian Bugatti – Novara, 1973; ma attualmente vive in India (Nuova Delhi) dove nel frattempo ha intrapreso una carriera parallela nel campo della videoarte e della scultura contemporanea - conferma vizi e virtù del suo recente passato.
Certo, è cresciuto molto, non è più solamente la fotocopia stramba di Beck. Lo scarno vocabolario degli inizi si è via via arricchito di accenti acid-rock, atmosfere lisergiche alla Flaming Lips (I miei occhi vedono) e persino synthpop (Mattino), senza rinunciare alla sua originalità e alla sua vena leggermente squilibrata.
Tuttavia anche stavolta l’ascolto lascia l’amaro in bocca, come un senso di incompiuta: pare insomma di trovarsi di fronte all’ennesima (grande) promessa non mantenuta fino in fondo.
Tra le tracce più convincenti l’eterea Il sangue mi fa vento, E comunque voglio te e Città cadavere; quest’ultima, poi, sembra scritta su misura per la nostra pigra e sonnolenta provincia.
(illustrazione: Alberto Madrigal)
Dario Brunori, calabrese di Cosenza, miglior esordio al Premio Ciampi del 2009, supera con “Vol. 2 - Poveri Cristi” le angosce tardo-adolescenziali del primo album per approdare a una scrittura più sicura e matura, concentrata su un iperrealismo grottesco che fa i conti con la quotidianità povera e disillusa del sud della penisola. Alcuni ritratti riusciti: Il giovane Mario, che deve fare i conti col salario - ispirata alla graffiante satira del conterraneo Rino Gaetano -, l’omaggio al padre scomparso (Bruno mio dove sei?), l’amore perduto di Tre capelli sul comò. Cameo di Dente in Il suo sorriso.
Lo stesso Dente, atteso alla prova del quarto album dopo il soprendente L'amore non è bello del 2009, si conferma sempre in bilico tra farsa e ironia: geniale e al tempo stesso demenziale, innovativo e legato alla tradizione.
Battisti, De Gregori e la poesia di Ungaretti sono i riferimenti che si sprecano nei confronti del suo lavoro, per nulla un disco difficile e inaccessibile, che scivola via - al contrario – con inusuale leggerezza. Il fidentino canta di amori impossibili (Io sono il lungo inverno e tu la bella estate, siamo rette parallele), amori finiti (L'ultimo amore non si scorda fino a che non ci pensi più) e tradimenti (Più che il destino è stata l'Adsl che vi ha unito), e si candida ad essere il menestrello degli sfigati in amore dei nostri tempi. Il singolo Saldati è leggiadra e romantica in stile La Crus, e sarebbe un hit se a cantarla fosse un big (Portami a vedere il cielo questa sera anche se è nuvolo); Piccolo destino ridicolo rimanda allo stesso Bugo, La settimana enigmatica è un blues sgangherato, Da Varese a quel paese una marcetta.
Il disco di Dente sarà presentato in anteprima nazionale al Fillmore di Cortemaggiore venerdì 28 ottobre, un'occasione da non perdere.
Esiste davvero?
Proviamo allora ad ascoltare alcuni tra i più interessanti artisti emersi qui da noi negli ultimi anni.
Bugo per la verità non è per nulla una novità.
Giunto ormai all’ottavo lavoro, Cristian Bugatti – Novara, 1973; ma attualmente vive in India (Nuova Delhi) dove nel frattempo ha intrapreso una carriera parallela nel campo della videoarte e della scultura contemporanea - conferma vizi e virtù del suo recente passato.
Certo, è cresciuto molto, non è più solamente la fotocopia stramba di Beck. Lo scarno vocabolario degli inizi si è via via arricchito di accenti acid-rock, atmosfere lisergiche alla Flaming Lips (I miei occhi vedono) e persino synthpop (Mattino), senza rinunciare alla sua originalità e alla sua vena leggermente squilibrata.
Tuttavia anche stavolta l’ascolto lascia l’amaro in bocca, come un senso di incompiuta: pare insomma di trovarsi di fronte all’ennesima (grande) promessa non mantenuta fino in fondo.
Tra le tracce più convincenti l’eterea Il sangue mi fa vento, E comunque voglio te e Città cadavere; quest’ultima, poi, sembra scritta su misura per la nostra pigra e sonnolenta provincia.
(illustrazione: Alberto Madrigal)
Dario Brunori, calabrese di Cosenza, miglior esordio al Premio Ciampi del 2009, supera con “Vol. 2 - Poveri Cristi” le angosce tardo-adolescenziali del primo album per approdare a una scrittura più sicura e matura, concentrata su un iperrealismo grottesco che fa i conti con la quotidianità povera e disillusa del sud della penisola. Alcuni ritratti riusciti: Il giovane Mario, che deve fare i conti col salario - ispirata alla graffiante satira del conterraneo Rino Gaetano -, l’omaggio al padre scomparso (Bruno mio dove sei?), l’amore perduto di Tre capelli sul comò. Cameo di Dente in Il suo sorriso.
Lo stesso Dente, atteso alla prova del quarto album dopo il soprendente L'amore non è bello del 2009, si conferma sempre in bilico tra farsa e ironia: geniale e al tempo stesso demenziale, innovativo e legato alla tradizione.
Battisti, De Gregori e la poesia di Ungaretti sono i riferimenti che si sprecano nei confronti del suo lavoro, per nulla un disco difficile e inaccessibile, che scivola via - al contrario – con inusuale leggerezza. Il fidentino canta di amori impossibili (Io sono il lungo inverno e tu la bella estate, siamo rette parallele), amori finiti (L'ultimo amore non si scorda fino a che non ci pensi più) e tradimenti (Più che il destino è stata l'Adsl che vi ha unito), e si candida ad essere il menestrello degli sfigati in amore dei nostri tempi. Il singolo Saldati è leggiadra e romantica in stile La Crus, e sarebbe un hit se a cantarla fosse un big (Portami a vedere il cielo questa sera anche se è nuvolo); Piccolo destino ridicolo rimanda allo stesso Bugo, La settimana enigmatica è un blues sgangherato, Da Varese a quel paese una marcetta.
Il disco di Dente sarà presentato in anteprima nazionale al Fillmore di Cortemaggiore venerdì 28 ottobre, un'occasione da non perdere.
domenica 23 ottobre 2011
Zanzavino, 02
Il campo dell'oratorio era allora - e lo è anche adesso - un piazzale di cemento pieno di buche e di pozzanghere, dalla forma piuttosto irregolare, vagamente trapezoidale.
Sul lato sinistro, il terreno di gioco era delimitato da gabbie metalliche, contro le quali era possibile far rimbalzare la palla senza dover per questo interrompere il gioco, mentre sul lato opposto esisteva una linea di fondo, questo almeno in teoria, perché la striscia di gesso era costantemente lavata dalle piogge invernali. Ci si accordava prima della partita: alle volte si decideva che era valido far rimbalzare la palla anche contro i muri in mattoni dell'alloggio del sacrestano, un uomo calvo e dal naso adunco che parlava sempre poco e camminava sempre di fretta.
Sui lati corti, dietro alle porte pericolosamente inclinate verso l'area di rigore, c'erano le autorimesse dei condomini del caseggiato lì a fianco, bisognava fermarsi e sospendere la partita, quando qualcuno di loro veniva a ritirare la macchina. Cazzo, c'era una donnetta zoppa che ci metteva un'eternità.
Le bestemmie che tiravamo.
Con buona pace del parroco, che faceva finta di non sentire.
Quando veniva buio, mandava fuori sua sorella - un'anziana e scorbutica zitella con due baffi neri così e un gigantesco neo purulento sulla punta del naso - che requisiva la palla malgrado i nostri schiamazzi.
Era quello, d'altra parte, l'unico modo per far terminare le nostre partite, che andavano avanti per ore e ore, sotto il sole e sotto la pioggia, fino a che tutto non sfumava nell'oscurità, fino a che non si riusciva a vedere più nulla, fino a che non si poteva riconoscere la palla dalle scarpe di un avversario o addirittura dalle nostre stesse scarpe.
La maledivamo, quella vecchia strega.
Andassero affanculo, lei e quello stronzo del fratello prete, ci dicevamo mentre tornavamo a casa, sudati fradici e con i pantaloni nuovi sbucciati sulle ginocchia. E mica c’era il mercuriocromo: ci venivano delle croste che sembravano delle mappe geografiche.
Uno fa il prete, ci dicevamo, perché non ha voglia di fare un cazzo. O perché non è capace di fare un cazzo. Se fosse capace di fare qualcosa, qualsiasi altra cosa, ci dicevamo, non sarebbe qui a dire la messa in latino per quattro babbione incartapecorite con un rosario di madreperla in mano, e a farsi insultare da un esercito agguerrito di ragazzini senza Dio.
Questo per dirvi che razza di piccoli bastardi maleducati e impertinenti eravamo.
Sul lato sinistro, il terreno di gioco era delimitato da gabbie metalliche, contro le quali era possibile far rimbalzare la palla senza dover per questo interrompere il gioco, mentre sul lato opposto esisteva una linea di fondo, questo almeno in teoria, perché la striscia di gesso era costantemente lavata dalle piogge invernali. Ci si accordava prima della partita: alle volte si decideva che era valido far rimbalzare la palla anche contro i muri in mattoni dell'alloggio del sacrestano, un uomo calvo e dal naso adunco che parlava sempre poco e camminava sempre di fretta.
Sui lati corti, dietro alle porte pericolosamente inclinate verso l'area di rigore, c'erano le autorimesse dei condomini del caseggiato lì a fianco, bisognava fermarsi e sospendere la partita, quando qualcuno di loro veniva a ritirare la macchina. Cazzo, c'era una donnetta zoppa che ci metteva un'eternità.
Le bestemmie che tiravamo.
Con buona pace del parroco, che faceva finta di non sentire.
Quando veniva buio, mandava fuori sua sorella - un'anziana e scorbutica zitella con due baffi neri così e un gigantesco neo purulento sulla punta del naso - che requisiva la palla malgrado i nostri schiamazzi.
Era quello, d'altra parte, l'unico modo per far terminare le nostre partite, che andavano avanti per ore e ore, sotto il sole e sotto la pioggia, fino a che tutto non sfumava nell'oscurità, fino a che non si riusciva a vedere più nulla, fino a che non si poteva riconoscere la palla dalle scarpe di un avversario o addirittura dalle nostre stesse scarpe.
La maledivamo, quella vecchia strega.
Andassero affanculo, lei e quello stronzo del fratello prete, ci dicevamo mentre tornavamo a casa, sudati fradici e con i pantaloni nuovi sbucciati sulle ginocchia. E mica c’era il mercuriocromo: ci venivano delle croste che sembravano delle mappe geografiche.
Uno fa il prete, ci dicevamo, perché non ha voglia di fare un cazzo. O perché non è capace di fare un cazzo. Se fosse capace di fare qualcosa, qualsiasi altra cosa, ci dicevamo, non sarebbe qui a dire la messa in latino per quattro babbione incartapecorite con un rosario di madreperla in mano, e a farsi insultare da un esercito agguerrito di ragazzini senza Dio.
Questo per dirvi che razza di piccoli bastardi maleducati e impertinenti eravamo.
martedì 18 ottobre 2011
L’addio di Ivano Fossati - al pari di quello di Antonio Cassano, ma lui tra tre anni - ha fatto parlare molto i media (“Mi sono sempre chiesto se al prossimo disco avrei potuto garantire la stessa passione che mi ha portato fino a qui. Non credo che potrei ancora fare qualcosa che aggiunga altro rispetto a quello che ho fatto fino ad ora”) e forse è una delle ragioni del successo fulmineo di questo suo nuovo lavoro, uscito nei negozi solo il 4 ottobre e già in testa alle classifiche nostrane.
Un altro è la consueta bravura del nostro, artista di classe ed eleganza quasi senza pari nel panorama triste della canzone italiana (ma aspettiamo con fiducia la riscossa dei Bugo, dei Dente, dei Brunori s.a.s….)
La decadenza apre l’album con un ritmo ballabile ma prevedibile – un po’ troppo alla Zucchero, per i nostri gusti – che dà il titolo all’album (un brutto gioco di parole), uno spietato ritratto di un paese in decadenza e apparentemente senza futuro.
Ritmo sostenuto anche per Quello che manca al mondo, un pezzo nello stile classico del cantautore genovese (“quello che mancherà al domani/è un monumento all’uguaglianza”) che tuttavia ricalca cose già sentite.
Più avanti, il disco convince sempre di più.
I bellissimi pezzi pop, quasi americani, di La sconosciuta e La normalità, intervallati dalla delicata e intensa Settembre, una storia d’amore che finisce male (“Il bene che ci siamo voluti noi due è un taxi che si ferma qui/io stavo bene nelle tue mani non avrei chiesto mai niente di più”), sono uno dei picchi della raccolta.
Raccolta che prosegue senza intoppi sino a Laura e l’avvenire (“Ora questo posto non fa più per noi / questo è un deserto di democrazia”) e alle straordinarie ballate Nella terra del vento (“Grazie per le rose d'inverno/ in un momento fiorite/ e in un giorno appassite di nuovo”) e la conclusiva Tutto questo futuro (“Eppure mi piace tutto questo futuro e anche il tempo sprecato che non vedo già più. Io e te, in mezzo al mondo, siamo un pugno di fiori. Ora passa la notte e, come senti, non piove più.”).
Grazie di tutto.
Un altro è la consueta bravura del nostro, artista di classe ed eleganza quasi senza pari nel panorama triste della canzone italiana (ma aspettiamo con fiducia la riscossa dei Bugo, dei Dente, dei Brunori s.a.s….)
La decadenza apre l’album con un ritmo ballabile ma prevedibile – un po’ troppo alla Zucchero, per i nostri gusti – che dà il titolo all’album (un brutto gioco di parole), uno spietato ritratto di un paese in decadenza e apparentemente senza futuro.
Ritmo sostenuto anche per Quello che manca al mondo, un pezzo nello stile classico del cantautore genovese (“quello che mancherà al domani/è un monumento all’uguaglianza”) che tuttavia ricalca cose già sentite.
Più avanti, il disco convince sempre di più.
I bellissimi pezzi pop, quasi americani, di La sconosciuta e La normalità, intervallati dalla delicata e intensa Settembre, una storia d’amore che finisce male (“Il bene che ci siamo voluti noi due è un taxi che si ferma qui/io stavo bene nelle tue mani non avrei chiesto mai niente di più”), sono uno dei picchi della raccolta.
Raccolta che prosegue senza intoppi sino a Laura e l’avvenire (“Ora questo posto non fa più per noi / questo è un deserto di democrazia”) e alle straordinarie ballate Nella terra del vento (“Grazie per le rose d'inverno/ in un momento fiorite/ e in un giorno appassite di nuovo”) e la conclusiva Tutto questo futuro (“Eppure mi piace tutto questo futuro e anche il tempo sprecato che non vedo già più. Io e te, in mezzo al mondo, siamo un pugno di fiori. Ora passa la notte e, come senti, non piove più.”).
Grazie di tutto.
domenica 16 ottobre 2011
sabato 15 ottobre 2011
HALLELUJAH
Qualche tempo indietro avevo postato alcuni brani immortali della storia del pop, sotto l'etichetta: Tutti i pezzi che non vorremo mai ascoltare - e che non avremmo mai voluto ascoltare - a XFactor.
La molla era stata la visione, durante un inutile zapping serale, era una di quelle sere che devi scegliere tra una replica della Bundesliga su Sky e un poliziesco già visto, di una versione atroce di Redemption Song del grande Marley.
Leggo questa cosa su Wittgenstein e mi viene voglia di riprendere il discorso.
Dal blog di Luca Sofri:
“Hallelujah” è una canzone del 1984 di Leonard Cohen, grandissimo cantautore canadese che la settimana scorsa ha compiuto 77 anni. La canzone la conoscono quasi tutti perché da un certo punto in poi si sono messi a farne cover a bizzeffe. In particolare, nel 1994, Jeff Buckley: che morì giovane nel 1997 e lasciò come firma del suo mito postumo il sospiro all’inizio della sua bellissima versione di “Hallelujah” (a sua volta ripresa da un adattamento di John Cale). Da lì iniziò la seconda vita più popolare della canzone – fino ad allora confinata all’apprezzamento dei fans del vecchio e tenebroso Cohen – che la portò ai posti alti delle classifiche di vendita, nelle cerimonie inaugurali delle Olimpiadi, dentro Shrek, e in mille e mille sfruttamenti e riproduzioni, fino a entrare negli avvilenti repertori dei talent show.
Tanto che qualche giorno fa David Daley del sito Salon ha scritto dell’”uso criminale” di “Hallelujah” dopo aver assistito alla versione dell’improbabile gruppo dei “Canadian Tenors” alla serata di premiazione degli Emmy, e ha ricordato come lo stesso Cohen abbia detto un paio d’anni fa che “la canzone è bella ma forse l’hanno cantata un po’ in troppi”. Daley si è associato a Cohen nel chiedere una moratoria, e soprattutto ha ricordato che malgrado la successiva trasformazione in svenevolezza da boy band o da raduno di preghiera, Buckley la canzone la spiegava così: “Chiunque la ascolti attentamente scopre che è una canzone sul sesso, sull’amore e sulla vita terrena. Non è un hallelujah per una fede, un idolo o un dio, ma l’hallelujah dell’orgasmo”.
La molla era stata la visione, durante un inutile zapping serale, era una di quelle sere che devi scegliere tra una replica della Bundesliga su Sky e un poliziesco già visto, di una versione atroce di Redemption Song del grande Marley.
Leggo questa cosa su Wittgenstein e mi viene voglia di riprendere il discorso.
Dal blog di Luca Sofri:
“Hallelujah” è una canzone del 1984 di Leonard Cohen, grandissimo cantautore canadese che la settimana scorsa ha compiuto 77 anni. La canzone la conoscono quasi tutti perché da un certo punto in poi si sono messi a farne cover a bizzeffe. In particolare, nel 1994, Jeff Buckley: che morì giovane nel 1997 e lasciò come firma del suo mito postumo il sospiro all’inizio della sua bellissima versione di “Hallelujah” (a sua volta ripresa da un adattamento di John Cale). Da lì iniziò la seconda vita più popolare della canzone – fino ad allora confinata all’apprezzamento dei fans del vecchio e tenebroso Cohen – che la portò ai posti alti delle classifiche di vendita, nelle cerimonie inaugurali delle Olimpiadi, dentro Shrek, e in mille e mille sfruttamenti e riproduzioni, fino a entrare negli avvilenti repertori dei talent show.
Tanto che qualche giorno fa David Daley del sito Salon ha scritto dell’”uso criminale” di “Hallelujah” dopo aver assistito alla versione dell’improbabile gruppo dei “Canadian Tenors” alla serata di premiazione degli Emmy, e ha ricordato come lo stesso Cohen abbia detto un paio d’anni fa che “la canzone è bella ma forse l’hanno cantata un po’ in troppi”. Daley si è associato a Cohen nel chiedere una moratoria, e soprattutto ha ricordato che malgrado la successiva trasformazione in svenevolezza da boy band o da raduno di preghiera, Buckley la canzone la spiegava così: “Chiunque la ascolti attentamente scopre che è una canzone sul sesso, sull’amore e sulla vita terrena. Non è un hallelujah per una fede, un idolo o un dio, ma l’hallelujah dell’orgasmo”.
giovedì 13 ottobre 2011
Zanzavino, 02
Calcisticamente parlando, sono cresciuto nel vivaio della Bolide, mitica squadra della parrocchia di San Savino.
Ma i primi calci li ho tirati al campo dell’oratorio.
Detto “Zan Zavino” per via di un tipo che frequentava il Bar Sport, il Bar Sport era quasi di fronte all’ingresso dell’oratorio, e che ogni tanto faceva irruzione nel campetto di cemento con la sua Ritmo color azzurro zucchero - paraurti in tinta carrozzeria e antenna parabolica sul cofano – e urlava, urlava verso di noi piccoli sfigati coi pantaloni lisi e le ginocchia sbucciate, noi piccoli sfigati che tiravamo i primi calci al pallone di gomma tipo elite:
Eccoli qui, Zan Zavino!
Diceva Zan Zavino per via di un difetto di pronuncia della “S” assai marcato.
Le prime volte incuteva timore, aveva diversi anni più di noi ed era considerato un duro, ma poi aveva preso l’abitudine di fermarsi a giocare anche lui: gli piaceva vincere facile.
Fece una brutta fine, quel tipo.
Una notte d'inverno andò a finire in una scarpata con la sua Ritmo in uno di quei curvoni assurdi che ci sono poco dopo il ponte sul Po, appena dopo l’Auchan, che poi allora l’Auchan non c’era, non c’erano proprio i centri commerciali, e la roba la si comprava ancora nei negozi.
Per dire: nella mia via c’erano ben due fruttivendoli, a distanza di trenta metri uno dall’altro. Poi c’era un rivenditore di elettrodomestici, caro come il sangue, un fotografo, la parrucchiera, il negozio di fiori, una latteria incommensurabilmente triste, tre sorelle che vendevano il pane – tutte tre zitelle acide antipatiche e attaccate al soldo: o forse una era sposata, non si è mai saputo con certezza – poi l’alimentari sotto casa mia che vendeva le focaccine tonde a sessanta lire e appunto il Bar Sport.
Il Bar Sport c’è anche adesso.
Attorno al Bar Sport adesso resiste solo la parrucchiera, e forse il fotografo qualche volta tiene aperto.
Adesso ci sono due o tre kebab, un take away pakistano, gestito da un uomo elegante che parcheggia sempre un Mercedes coupè sul marciapiede sull’altro lato della strada, un centro massaggi con l'arredamento minimal-giapponese - le canne di bambù i sassi bianchi e tutte quelle ciotole del cazzo, non servono mai a un cazzo quelle ciotole - e un call center con transfer money in Ecuador o Romania, una lavanderia a gettone, una copisteria e qualche vetrina sfitta.
L’oratorio c’è ancora.
Ma i primi calci li ho tirati al campo dell’oratorio.
Detto “Zan Zavino” per via di un tipo che frequentava il Bar Sport, il Bar Sport era quasi di fronte all’ingresso dell’oratorio, e che ogni tanto faceva irruzione nel campetto di cemento con la sua Ritmo color azzurro zucchero - paraurti in tinta carrozzeria e antenna parabolica sul cofano – e urlava, urlava verso di noi piccoli sfigati coi pantaloni lisi e le ginocchia sbucciate, noi piccoli sfigati che tiravamo i primi calci al pallone di gomma tipo elite:
Eccoli qui, Zan Zavino!
Diceva Zan Zavino per via di un difetto di pronuncia della “S” assai marcato.
Le prime volte incuteva timore, aveva diversi anni più di noi ed era considerato un duro, ma poi aveva preso l’abitudine di fermarsi a giocare anche lui: gli piaceva vincere facile.
Fece una brutta fine, quel tipo.
Una notte d'inverno andò a finire in una scarpata con la sua Ritmo in uno di quei curvoni assurdi che ci sono poco dopo il ponte sul Po, appena dopo l’Auchan, che poi allora l’Auchan non c’era, non c’erano proprio i centri commerciali, e la roba la si comprava ancora nei negozi.
Per dire: nella mia via c’erano ben due fruttivendoli, a distanza di trenta metri uno dall’altro. Poi c’era un rivenditore di elettrodomestici, caro come il sangue, un fotografo, la parrucchiera, il negozio di fiori, una latteria incommensurabilmente triste, tre sorelle che vendevano il pane – tutte tre zitelle acide antipatiche e attaccate al soldo: o forse una era sposata, non si è mai saputo con certezza – poi l’alimentari sotto casa mia che vendeva le focaccine tonde a sessanta lire e appunto il Bar Sport.
Il Bar Sport c’è anche adesso.
Attorno al Bar Sport adesso resiste solo la parrucchiera, e forse il fotografo qualche volta tiene aperto.
Adesso ci sono due o tre kebab, un take away pakistano, gestito da un uomo elegante che parcheggia sempre un Mercedes coupè sul marciapiede sull’altro lato della strada, un centro massaggi con l'arredamento minimal-giapponese - le canne di bambù i sassi bianchi e tutte quelle ciotole del cazzo, non servono mai a un cazzo quelle ciotole - e un call center con transfer money in Ecuador o Romania, una lavanderia a gettone, una copisteria e qualche vetrina sfitta.
L’oratorio c’è ancora.
sabato 8 ottobre 2011
Sono i riconosciuti rappresentanti dell’Americana contemporanea, ovvero quel genere che pesca piene mani nella tradizione U.S.A. e che qui da noi ha conosciuto grande fortuna in passato grazie a riviste come Il Mucchio Selvaggio e L’Ultimo Buscadero (ovvero i titoli di due film di Peckinpah).
Gli Wilco di Jeff Tweedy tornano con un nuovo lavoro per la loro neonata etichetta, dBpm.
L’apertura è eccezionale, con Art Of Almost, un funky elettrico che lascia senza fiato.
Con I Might, primo singolo estratto dall’album, si torna alla normale amministrazione Wilco. Una normale amministrazione di alto livello, si intenda: da oltre 15 anni registrano dischi ispirati e ottimamente suonati. Tuttavia, il grande successo non è mai arrivato, vuoi per le loro facce da brava gente, per un atteggiamento poco da mainstream e anche perché non hanno mai centrato il ritornello pop giusto, quello che per intenderci è riuscito ai R.E.M.
Pregevoli sono il power-pop di Dawned On Me, il crepuscolo di Black Moon e Rising Red Lung, il vaudeville di Capitol City, la conclusiva One Sunday Morning, dolce e intenso trattato sul rapporto tra padre e figlio.
Tra gli allievi di cotanti maestri, fanno parlare di sé i Megafaun dalla North Carolina.
A dire il vero, altro riferimento è Bon Iver (State Meant), anche solo per questioni geografiche. E gli Okkervil River (You Are The Light).
Questo disco omonimo – scelta inusuale per quella che è la loro terza prova sulla lunga distanza– è un vero piacere: si sentano l’iniziale Real Slow, Resurection e Second Friend.
Ancora disagi nel piacentino per colpa dell’ormai celebre tunnel dei neutrini, fortemente voluto dal Ministro dell’Istruzione Gelmini. Com’è noto, l’arditissima infrastruttura - che collega il CERN di Ginevra ai rilievi del Gran Sasso – insiste anche nel nostro territorio, anche se nessuno conosce con certezza il suo tracciato esatto.
Tuttavia, da tempo alcuni cittadini lamentano scosse di tipo tellurico alle loro abitazioni: in molti casi si è verificata l’apertura di crepe e fessurazioni, anche di dimensioni significative. Le autorità indagano.
In zona Sant’Antonio, inoltre, i cani passano la notte con il muso rivolto verso il selciato, abbaiando e latrando, con ovvie ricadute sulla quiete pubblica.
Il caso più clamoroso, poi, avviene al Capitolo, dove una coppia di anziani non riceve più il segnale di Rai e Mediaset, ed è costretta – tutte le sere - a guardare Capodistria, oppure “Scacciapensieri” sulla tv svizzera.
Tuttavia, da tempo alcuni cittadini lamentano scosse di tipo tellurico alle loro abitazioni: in molti casi si è verificata l’apertura di crepe e fessurazioni, anche di dimensioni significative. Le autorità indagano.
In zona Sant’Antonio, inoltre, i cani passano la notte con il muso rivolto verso il selciato, abbaiando e latrando, con ovvie ricadute sulla quiete pubblica.
Il caso più clamoroso, poi, avviene al Capitolo, dove una coppia di anziani non riceve più il segnale di Rai e Mediaset, ed è costretta – tutte le sere - a guardare Capodistria, oppure “Scacciapensieri” sulla tv svizzera.
domenica 2 ottobre 2011
La notizia (brutta) è l’abbandono delle scene da parte dei R.E.M..
La favolosa band di Athens si scioglie dopo 31 anni di successo e gloria: «Ai nostri fan e ai nostri amici. Come amici di una vita e co-cospiratori, abbiamo deciso di smettere di essere una band. Ce ne andiamo con grande senso di gratitudine, di compiutezza, e di stupore per tutto ciò che abbiamo realizzato. A chiunque sia mai stato toccato dalla nostra musica va il nostro più profondo ringraziamento per averci ascoltato».
Nulla da aggiungere alle belle parole del comunicato online.
Life goes on, e quindi ecco una strana coppia dalla California, Stephen Malkmus e Beck Hansen, a sollevarci il morale – e Dio solo sa quanto ce n’è bisogno, in tempi così bui.
Il primo è l’ex-leader dei Pavement, gruppo seminale del noisy degli anni ’90. Mirror Traffic è la sua quinta opera solista – come sempre accompagnato dai Jicks – con la quale finalmente riesce a ripetere, seppur in parte, i fasti degli esordi (assai meglio di Primus e Meat Puppets, i cui recenti ritorni non lasciano traccia alcuna); il secondo è il sempre-sia-lodato autore di Loser, uno dei primi a tentare un crossover tra alternative rock, folk, blues e addirittura hip hop.
L’attitudine lo-fi dei due fa capolino anche in questo lavoro: il quarantacinquenne Malkmus ci ha abituato, infatti, a una svagata imperfezione, a una certa approssimazione studiata a tavolino; un Beck ormai maturo, tuttavia, lo aiuta a contenere la sua attitudine sgangherata e a far emergere la sua vena cantautoriale e la melodia.
50 minuti di quasi pop – come recitano le note di copertina – di ottimo livello, tra i quali scegliere il singolo Tigers, poi Stick Figures In Love, Forever 28 e le ballate in chiave alt country Share The Red e No One Is (As Are I Be), oltre alla corrosiva Senator (“I know what the senator wants is a blow job”: sembrerebbe parlare di certi politici italiani…)
La favolosa band di Athens si scioglie dopo 31 anni di successo e gloria: «Ai nostri fan e ai nostri amici. Come amici di una vita e co-cospiratori, abbiamo deciso di smettere di essere una band. Ce ne andiamo con grande senso di gratitudine, di compiutezza, e di stupore per tutto ciò che abbiamo realizzato. A chiunque sia mai stato toccato dalla nostra musica va il nostro più profondo ringraziamento per averci ascoltato».
Nulla da aggiungere alle belle parole del comunicato online.
Life goes on, e quindi ecco una strana coppia dalla California, Stephen Malkmus e Beck Hansen, a sollevarci il morale – e Dio solo sa quanto ce n’è bisogno, in tempi così bui.
Il primo è l’ex-leader dei Pavement, gruppo seminale del noisy degli anni ’90. Mirror Traffic è la sua quinta opera solista – come sempre accompagnato dai Jicks – con la quale finalmente riesce a ripetere, seppur in parte, i fasti degli esordi (assai meglio di Primus e Meat Puppets, i cui recenti ritorni non lasciano traccia alcuna); il secondo è il sempre-sia-lodato autore di Loser, uno dei primi a tentare un crossover tra alternative rock, folk, blues e addirittura hip hop.
L’attitudine lo-fi dei due fa capolino anche in questo lavoro: il quarantacinquenne Malkmus ci ha abituato, infatti, a una svagata imperfezione, a una certa approssimazione studiata a tavolino; un Beck ormai maturo, tuttavia, lo aiuta a contenere la sua attitudine sgangherata e a far emergere la sua vena cantautoriale e la melodia.
50 minuti di quasi pop – come recitano le note di copertina – di ottimo livello, tra i quali scegliere il singolo Tigers, poi Stick Figures In Love, Forever 28 e le ballate in chiave alt country Share The Red e No One Is (As Are I Be), oltre alla corrosiva Senator (“I know what the senator wants is a blow job”: sembrerebbe parlare di certi politici italiani…)
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